sabato 8 Novembre 2025
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Covid, provata la correlazione tra inquinamento e tasso di mortalità

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L’inquinamento atmosferico da biossido di azoto aumenta il rischio di mortalità in pazienti ospedalizzati per Covid-19. A dimostrarlo, per la prima volta in modo diretto e secondo un approccio clinico, uno studio pubblicato su Environmental Science and Pollution Research. Secondo i ricercatori, l’esposizione all’inquinante nel corso di due settimane precedenti il ricovero per polmonite virale provoca delle alterazioni del sistema immunitario che incrementano la vulnerabilità dei pazienti ospedalizzati. Il biossido di azoto è emerso quindi come un co-fattore in grado di influenzare negativamente il decorso della patologia.

Che l’inquinamento atmosferico potesse essere legato ad un’evoluzione sfavorevole della Covid-19 si era sospettato già dai primissimi mesi della pandemia. I primi studi condotti suggerivano però solo correlazioni prive di nesso causale. In altre parole, si è osservato più volte che la mortalità era più alta in aree con le più elevate concentrazioni di inquinanti. Il che, tuttavia, non indicava necessariamente una relazione causa-effetto. Nel caso dello studio della Società internazionale dei medici per l’ambiente, sebbene comunque non sia stato possibile dimostrare la causalità, si è avanzata invece un’ipotesi più concreta sull’influenza diretta di uno dei principali contaminanti dell’aria. Per giungere a tali conclusioni, gli scienziati hanno reclutato 147 pazienti con un età media di 66,8 anni, provenienti da 10 città della Puglia e ricoverati presso il Policlinico di Bari per polmonite acuta da SARS-CoV2. Successivamente, nella zona di residenza di ogni paziente, sono state osservate le concentrazioni medie giornaliere nell’aria del particolato (PM10) e del biossido di azoto (NO2) durante le 2 settimane precedenti il giorno del ricovero. Hanno poi analizzato il sangue di ogni ospedalizzato al fine di valutare la concentrazione di diversi gruppi di linfociti, cellule adibite alla difesa immunitaria. Le analisi statistiche condotte sui dati raccolti hanno individuato nelle concentrazioni medie di NO2 dei predittori significativi di mortalità, inversamente correlati con il numero di linfociti. Un aumento del rischio persistente anche dopo la correzione per età, sesso e presenza di altre patologie. Per il PM10, invece, non è stato rilevato alcun effetto significativo.

Lo studio ha confermato, inoltre, il legame tra carenza linfocitica e rischio di morte nei pazienti ospedalizzati per COVID-19. «Confermiamo il valore prognostico negativo dell’età – aggiungono i ricercatori – e mostriamo per la prima volta che l’esposizione all’NO2 è un co-fattore che contribuisce al rischio di mortalità attraverso effetti immunitari negativi». Precedenti evidenze – precisano poi – hanno già suggerito che l’inquinamento atmosferico può influenzare sia l’incidenza che il decorso clinico della COVID-19 e che il rapido sviluppo della pandemia in alcune regioni geografiche, come nel caso della Lombardia, potrebbe essere dipeso dall’inquinamento atmosferico nelle stesse aree. In uno studio temporale cinese, le esposizioni a breve termine a tre differenti inquinanti dell’aria sono state collegate con l’incidenza di Covid-19, mentre i dati di 33 paesi europei hanno indicato correlazioni dirette tra il numero cumulativo di decessi e le concentrazioni nell’aria di PM10, PM2.5, ammoniaca, biossido di zolfo, ossidi di azoto e composti organici volatili. Le correlazioni più forti sono emerse per gli inquinanti più comuni e abbondanti. Le misure di prevenzione primaria finalizzate a ridurre l’inquinamento atmosferico, specie in ambito urbano – concludono così i ricercatori – potrebbero significativamente ridurre la vulnerabilità individuale e la gravità dell’infezione, soprattutto in soggetti a rischio.

[di Simone Valeri]

Scuola: cortei in 40 città italiane

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Questa mattina studenti di tutta Italia sono scesi in piazza contro il sistema scolastico attuale. Tema principale della protesta è l’alternanza scuola-lavoro, teatro della morte di Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci (18 e 16 anni). Si aggiunge poi la rivendicazione di una maggiore sicurezza degli istituti scolastici, di una più rilevante attenzione al tema dell’ambiente e della salute, fisica e psicologica. Si registrano cortei a Napoli, Milano, Torino, Bari, Palermo e in altre decine di città. A Roma, invece, alle 18 avverrà l’apertura degli Stati Generali della scuola, con la partecipazione di migliaia di studenti e diverse associazioni.

Hong Kong, il tracciamento sanitario si trasforma in sorveglianza

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Ada Chung Lai-ling, Privacy Commissioner for Personal Data di Hong Kong, ci tiene a esplicitarlo: gli aggiornamenti previsti per l’app locale di tracciamento pandemico non violeranno le leggi sulla protezione dei dati. Una simile dichiarazione non rassicura più di tanto, se si considera che la sua formulazione è mirata a giustificare l’uso della geolocalizzazione governativa.

Chung faceva riferimento al software noto come “Leave Home Safe”, un omologo del nostrano Immuni che viene adoperato per tracciare la contagiosità del coronavirus e, parallelamente, custodisce i certificati digitali di vaccinazione a la “green pass”. Si tratta di un’app che non solo è essenziale, ma che è indispensabile per poter accedere a un’ampia gamma di strutture: ristoranti, centri commerciali, palestre e persino luoghi di culto. 

Nonostante tali limitazioni, i cittadini di Hong Kong hanno fino ad oggi avuto perlomeno la garanzia del fatto che i loro dati essenziali fossero registrati dal Governo aderendo a una certa deontologia di non invasività, cosa che però è presto destinata a cambiare. Aprendo la strada all’integrazione del più invasivo “pass vaccinale”, prevista per il 24 febbraio, Leave Home Safe viene aggiornato con una geolocalizzata che è progettata formalmente nell’ottica di sostituire il check-in tradizionale con un sistema automatizzato e immediato. Al posto di dover proporre e leggere il famigerato codice QR, insomma, i documenti degli individui potranno essere verificati in automatico via satellite.

Chung non manca di far notare che la geolocalizzazione venga già ampiamente utilizzata dalle app commerciali – social in primis – e che non sia espressamente vietata dalle leggi del posto, almeno qualora il gestore dei software sia trasparente nello spiegare funzionalità e scopi di un simile tracciamento. A differenza delle controparti private, tuttavia, non è chiaro se l’applicazione messa a disposizione dell’isola impedirà agli utenti di rinunciare alla funzione geolocalizzante in favore di un maggior controllo sui propri dati, ovvero se questi saranno di fatto forzati a segnalare la loro posizione in qualsiasi momento.

In generale, Hong Kong sta puntando sull’iniziativa “smart city” per massimizzare la raccolta dei dati urbani, una pratica che di per sé non sarebbe particolarmente controversa, se non fosse che questa è spesso stata tradotta in una soffocante sorveglianza poliziesca. Per quanto riguarda l’app Leave Home Safe e il futuro pass vaccinale, le autorità garantiscono che i dati siano comunque criptati, che la preservazione abbia una durata massima di 31 giorni e che questi siano utilizzati esclusivamente per scopi sanitari, evidenziando come lo strumento sia pensato per aiutare, non per controllare.

C’è da fidarsi di simili rassicurazioni? I presagi non sono certamente dei migliori: la Cina sta consolidando progressivamente il proprio controllo sulla regione, inoltre l’introduzione della geolocalizzazione in ambito di tracciamento sanitario è ampiamente promossa da Lai Tung-kwok, ex Segretario della sicurezza ed ex Direttore dell’immigrazione della città.

[di Walter Ferri]

Il Parlamento italiano ha bocciato l’abolizione del green pass dal primo aprile

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La Camera dei deputati ha respinto un ordine del giorno che impegnava il governo a rendere automatica l’abolizione della certificazione verde in corrispondenza con la fine dello stato di emergenza. A votare contro la proposta, presentata da Fratelli d’Italia, sono stati tutti i partiti della maggioranza che appoggia il governo Draghi. Il voto segue la conversione in legge del decreto legge n. 221/2021, recante la proroga dello stato di emergenza nazionale al 31 marzo 2022. Contrario anche il voro degli (ex) alleati della Lega che, nonostante Salvini rilanci quotidianamente dichiarazioni critiche sul green pass, al momento della votazione hanno votato compattamente in ossequio alle politiche sanitarie del governo.

La leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, ha rilanciato tramite i canali social la sua dichiarazione al vetriolo: «Incredibile che mentre altri partiti si dichiarano contrari, alla prova dei fatti si comportino esattamente in maniera opposta, lasciandoci soli a lottare contro questa misura insensata che danneggia la nostra economia e inutile per combattere la pandemia». In un messaggio chiaramente indirizzato innanzitutto alla Lega.

Prosegue dunque la marcia delle restrizioni italiane, le cui politiche sanitarie si muovono ormai in direzione opposta a gran parte dell’Unione europea e del resto del mondo. Di recente l’Austria ha annunciato il ritiro dell’equivalente del super green pass italiano a partire dal 19 febbraio, prevedendo dal 5 marzo una riduzione delle restrizioni e seguendo la linea tracciata dalla Danimarca, che dal 31 gennaio scorso ha abolito tutte le misure di contenimento della pandemia. In Italia il Sottosegretario alla Salute Andrea Costa aveva parlato della volontà da parte dell’esecutivo di non prorogare lo stato di emergenza oltre il 31 marzo 2022, non sbilanciandosi però né sulla data né sulle modalità di ritiro delle restrizioni, tra cui la certificazione verde, che dovrebbe avvenire in «maniera graduale».

[di Salvatore Toscano]

Israele: stop immediato al green pass

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Dopo essere stato uno dei primi Paesi a introdurre la misura, Israele ha deciso di revocare il il sistema attuale del green pass in scadenza a fine febbraio. Dunque non sarà più necessario esibire la prova di essere stati vaccinati contro il coronavirus, guariti o di essere negativi a un test per entrare in determinati luoghi pubblici. Ad annunciarlo è il primo ministro israeliano Naftali Bennett, al termine di una riunione con il ministro della sanità e i responsabili della lotta al Covid.

Canada: arrestati i leader del movimento Freedom Convoy

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Dopo quasi tre settimane di blocco della capitale Ottawa da parte del Freedom Convoy, la polizia canadese ha effettuato nella serata di giovedì 17 i primi arresti. Tra questi c’è Tamara Lich, leader del convoglio che nei giorni scorsi aveva esortato i camionisti a mantenere le loro posizioni e continuare con la protesta. Il suo arresto si aggiunge al precedente fermo di Chris Barber, altra guida del movimento. «Siamo pronti ad agire per sfrattare i manifestanti illegali dalle nostre strade», ha detto il capo della polizia di Ottawa Steve Bell, riferendosi a «un intervento imminente».

Cuba forma gratis medici stranieri, a patto che tornino a casa ad aiutare i deboli

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Joyce Malanda vuole diventare una dottoressa per aiutare le persone nel sud-est di Raleigh dove è cresciuta, in particolare quelle che faticano ad avere accesso alle cure mediche, in un paese, gli Stati Uniti, dove anche il diritto alla salute rimane tale fino a che si è in grado di pagare. Malanda, purtroppo questo lo sa bene: suo padre è morto quando lei aveva solo 9 anni, non avendo i soldi per pagarsi le cure di cui avrebbe avuto bisogno. Per raggiungere il suo obiettivo, Malanda ha scelto quindi di frequentare la facoltà di medicina a Cuba. Quest’inverno diventerà la prima residente della Carolina del Nord a frequentare la Scuola di Medicina dell’America Latina, fuori l’Avana. Nonostante le storiche tensioni tra Washington e l’Avana, più di 200 sono gli americani laureati in medicina a Cuba e 42 sono quelli iscritti al momento. Ajamu Dillahunt, membro di IFCO un organizzazione religiosa, che ha lo scopo di facilitare l’iscrizione per i ragazzi svantaggiati americani nella scuola dell’Avana, ha infatti commentato che la peculiarità della scuola è proprio quella di: « far conoscere la medicina ai ragazzi attraverso una visione che tenga conto anche dei principi di consapevolezza e giustizia sociale». Una rarità, considerando come in molti paesi occidentali le logiche del profitto rendano le cure mediche quasi un bene di lusso, piuttosto che un diritto universale. La scuola di medicina fu aperta nel 1999, su decisione di Fidel Castro, allo scopo di formare studenti stranieri provenienti dai paesi dell’America Latina devastati dagli uragani. L’iscrizione venne poi estesa a studenti anche di altri paesi, inclusi gli Stati Uniti. Tutti gli studenti che frequentano la scuola sono ospiti del governo cubano, che paga le loro tasse scolastiche. L’unica condizione per gli studenti è quella che, una volta terminati gli studi, si impegnino a tornare nei loro paesi d’origine e a praticare la medicina nelle comunità più povere e svantaggiate.

Cuba paese povero di risorse, che ancora si trova sotto embargo economico da parte degli Stati Uniti, nonostante l’Unione Sovietica non esista più da 30 anni, è stata capace negli anni di incrementare numerosi programmi di sviluppo della salute pubblica. Analizzando alcuni dati si può capire come tali programmi abbiano avuto successo. L’aspettativa di vita a Cuba ad esempio è cresciuta raggiungendo gli 80,7 anni per le donne e 76,2 per gli uomini rispetto al 1990 quando si assestava a 76,9 anni per le femmine e 73 per i maschi. Anche la capacità in tutta l’isola di offrire servizi medici efficaci è aumentata passando dal 59,4% del 1990 al 72,6% del 2019. Facendo un paragone con i paesi vicini, possiamo notare che ad esempio, nella Repubblica Dominicana, la capacità di offrire servizi medici essenziali al 2019 si ferma al 52,5%, mentre l’aspettativa di vita ad Haiti, al 2019, si assesta a 66 anni per le femmine e a 63,8 per gli uomini. Altra sostanziale differenza tra questi paesi dei caraibi è che a Cuba la salute è pubblica, ossia completamente gratuita, mentre negli altri due è a pagamento. Paragoni sulla capacità di copertura del sistema sanitario cubano si potrebbero fare anche con paesi di altre zone del mondo.

Secondo l’STC Health Index, un indice che valutando oltre 28 indicatori aiuta a comparare il livello dei sistemi sanitari di diversi paesi del mondo, vediamo che Cuba si classifica al 49° posto. Superando tutti i paesi delle Americhe ad eccezione di Canada e Cile, e facendo meglio anche di molti paesi dell’Europa Orientale. Senza dubbio uno dei maggiori successi del governo cubano è stata la capacità di risposta efficace alla pandemia, come riconosciuto anche dalla prestigiosa rivista medica The Lancet. Cuba infatti è stata capace con le sue sole forze di crearsi un vaccino, il Soberana. Inoltre,  non si è mai tirata indietro dal punto di vista della solidarietà, inviando medici ai paesi che ne avevano bisogno, come l’Italia.

Caso più unico che raro quello di Cuba, che è stata in grado di utilizzare lo sviluppo del suo programma di salute pubblica come un vero e proprio mezzo diplomatico, e solidale. Da molti anni infatti i medici cubani sono presenti in diverse zone di conflitto in aiuto alla popolazione locale o come primo soccorso nei paesi colpiti da disastri naturali. I medici cubani del contingente “Henry Reeve” sono stati infatti candidati, con il sostegno di oltre 100 paesi, al premio nobel per la pace per il loro contributo nella lotta al Covid. Sarebbero oltre 3.700 i medici che, raccolti in 46 brigate, hanno portato assistenza in quasi 40 paesi durante i primi mesi della pandemia.

Da oltre mezzo secolo, nonostante le difficoltà economiche, l’embargo e i tentati colpi di stato orditi dagli Usa, Cuba ha messo la formazione e la medicina alla base del proprio sviluppo. Lo storico presidente Fidel Castro non è più al potere da 14 anni ma le sue parole ancora guidano le politiche socialiste di questa piccola isola eretica nel cuore dei Caraibi: «Il nostro Paese non lancia bombe contro gli altri popoli, né manda migliaia di aerei a bombardare città. Il nostro Paese non possiede armi nucleari, né armi chimiche, né armi biologiche. Le decine di migliaia di scienziati cubani sono stati educati all’idea di salvare vite e sarebbe in assoluta contraddizione porli al servizio dello studio per costruire armi o virus letali».

[di Enrico Phelipon]

Brasile: sale a 104 morti bilancio delle piogge a Petrópolis

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104 persone hanno perso la vita in Brasile: è questo il bilancio attuale delle vittime delle piogge battenti, delle inondazioni e delle frane avvenute a Petrópolis, località di montagna vicino a Rio de Janeiro. A renderlo noto è stata la Protezione civile brasiliana, la quale ha altresì comunicato che tra i deceduti vi sarebbero anche almeno otto bambini. Il bilancio dei morti però potrebbe non essere comunque definitivo, dato che i soccorritori sono ancora alla ricerca di possibili sopravvissuti e, sulla base di un conteggio preliminare, almeno altre 35 persone risulterebbero al momento disperse.

Perché cannabis ed eutanasia sono temi che non meritano di sparire dal dibattito

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I quesiti referendari sull’eutanasia e sulla cannabis, come è ormai noto, sono stati entrambi bocciati da parte della Corte costituzionale. Ad illustrarne i motivi è stato il presidente della Consulta Giuliano Amato, il quale ieri ha spiegato che vi sarebbero sostanzialmente stati alcuni errori nella compilazione dei quesiti. Quello sull’eutanasia avrebbe in realtà riguardato «l’omicidio del consenziente» – previsto dall’articolo 579 del Codice penale – che sarebbe stato lecito in «casi ben più numerosi di quelli relativi all’eutanasia», mentre il quesito sulla cannabis avrebbe fatto riferimento «all’articolo 73 comma 1 della legge sulla droga» facendo in realtà scomparire «tra le attività penalmente punite la coltivazione delle sostanze stupefacenti di cui alle tabelle 1 e 3, quelle che includono le cosiddette droghe pesanti». Ad ogni modo, a prescindere dalla reale sussistenza di tali errori, ciò che è certo è che nonostante i quasi 2 milioni di firme a supporto dei quesiti i cittadini non potranno esprimersi a riguardo. Si tratta però di due temi che non meritano, per molteplici ragioni, di sparire dal dibattito pubblico e politico.

Per quanto riguarda l’eutanasia, proprio la Corte costituzionale si è di fatto schierata a favore della stessa in passato. In tal senso bisogna ricordare il caso di Fabiano Antoniani, noto come dj Fabo, che scelse di morire con il suicidio assistito in una clinica svizzera il 27 febbraio del 2017: con lui c’era Marco Cappato, promotore dell’attuale referendum, che si autodenunciò. Venne dunque accusato di aiuto al suicidio previsto dall’art. 580 del codice penale ed iniziò così un procedimento, che si concluse il 23 dicembre 2019 con la sua assoluzione anche grazie alla Consulta. Quest’ultima infatti in un primo momento, il 24 ottobre 2018, invitò il legislatore a regolamentare la materia. Non venne fatta però alcuna legge, e così la Consulta il 25 settembre 2019 decise di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580 «nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Ovviamente però la materia necessiterebbe comunque di essere regolamentata dal Parlamento: lo stesso Amato infatti ieri ha invitato nuovamente il Parlamento ad occuparsi del tema, che in questi anni è di fatto rimasto immobile.

Anche la questione cannabis merita di non sparire dal dibattito. L’attuale normativa, infatti, comporta varie criticità, tra cui il problema del sovraffollamento delle carceri. Come documentato dall’ultima edizione del Libro Bianco – un rapporto annuale che analizza gli effetti delle politiche proibizioniste in Italia – in assenza di detenuti proprio per l’art. 73 sopracitato “non vi sarebbe il sovraffollamento carcerario”. Si consideri poi che a rischiare il carcere sono anche le persone che coltivano la pianta semplicemente per curarsi da una malattia, che contribuiscono dunque al riempimento dei tribunali. Basterà ricordare il caso di Cristian Filippo, un ragazzo ventiquattrenne affetto da fibromialgia, che a causa della coltivazione di due piantine di canapa è stato accusato di spaccio e rischia fino a 6 anni di carcere. Certo, in casi del genere si può anche arrivare all’assoluzione come ad esempio è successo a Walter De Benedetto, malato di artrite reumatoide processato perché coltivava cannabis e successivamente assolto, ma ovviamente ciò non toglie che l’attuale normativa vada ad ingolfare la macchina della giustizia oltre che a causare problemi anche a chi coltiva la pianta per curarsi. Probabilmente, quindi, è anche per questo che i cittadini sono accorsi in massa a firmare il referendum, la cui bocciatura rappresenta però solo l’ultima sconfitta in tal senso, dato che negli anni in Italia è sempre stata ignorata la volontà popolare su tale tema.

[di Raffaele De Luca]

Australia, gli aborigeni sfidano il colosso agricolo per i diritti sull’acqua

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In Australia i nativi stanno combattendo contro la licenza concessa dal Governo del Territorio del Nord alla Fortune Agribusiness, enorme società agroalimentare di proprietà cinese. Il ricorso presentato dal CLC (Central Land Council) contro la Corte Suprema viene dall’indignazione dei nativi, che si sono rivolti alla Mpwerempwer Aboriginal Corporation per lanciare un’impugnazione legale e sollecitare il Governo a cambiare direzione. Perché quest’ultimo ha scelto di concedere al colosso agricolo la più grande licenza di estrazione di acque sotterranee mai realizzata: si tratta di una licenza gratuita che permetterà di estrarre fino a 40.000 megalitri di acque sotterranee all’anno, per la bellezza di 30 anni. L’acqua verrà estratta dalle falde sotto la stazione di Singleton, a circa 400 km a nord di Alice Springs. Tale concessione risale ad aprile 2021 e già allora una mobilitazione aveva cercato di impedire la più grande dotazione idrica privata del territorio. Dopo essere stata rivista a novembre 2021però, il Governo del Territorio del Nord ha comunque scelto di confermare la licenza con qualche modifica relativa alle condizioni.

Motivo per cui gli aborigeni continuano a sostenere l’illogicità e l’ingiustizia della decisione presa dal Governo, visto che non sono stati minimamente presi in considerazione i diritti culturali degli aborigeni sull’acqua. Ciò che gli aborigeni chiedono attraverso la Mpwerempwer Aboriginal Corporation è di revocare in maniera assoluta la licenza concessa al colosso agricolo cinese, sospendendo le concessioni, almeno fino a quando non sarà completa la revisione del piano regionale di assegnazione dell’acqua. Così mercoledì il CLC ha presentato il ricorso alla Corte Suprema, specificando come la scelta del Governo violi l’NT Water Act e non solo. Viste le conseguenze del cambiamento climatico sulle comunità desertiche, concedere un’estrazione idrica di questo calibro è dannoso e rischioso per un territorio tanto vulnerabile. Tuttavia, la licenza è stata concessa senza avere dati sufficienti sulle falde acquifere e potrebbe portare Fortune Agribusiness a fare ben più di quello che prevede la concessione.

Come era lecito aspettarsi, la società ha precisato che il progetto da realizzare, dal valore complessivo di 150 milioni di dollari e 3.500 ettari di territorio da coltivare, potrebbe essere benefico sia dal punto di vista sociale che economico per gli aborigeni, promettendo inoltre ai nativi 100 posti di lavoro permanenti e 1.300 posti stagionali. Inoltre, dai vertici dell’azienda hanno fatto sapere al The Guardian che dopo aver ricevuto il reclamo del CLC di mercoledì, c’è l’assoluta intenzione di collaborare e soddisfare ogni richiesta e requisito. Rimane il fatto che chi vive da sempre nelle terre australiane ha diritti di proprietà nativi sull’accesso e l’uso dell’acqua, ma di fatto è privato completamente della possibilità di scegliere se la ricchezza possa essere usata a scopi commerciali e di godere dei proventi dell’eventuale scelta. Gli aborigeni si ritrovano ancora una volta soggetti passivi nei confronti di scelte fatte calare dall’alto con l’approccio paternalistico tipico di “voler fare del bene”. Una modalità simile a quella di chi, ai tempi del colonialismo, vedeva nei “popoli primitivi” dei “selvaggi” da educare e civilizzare.

[di Francesca Naima]