lunedì 17 Novembre 2025
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Australia, via all’obbligo vaccinale anti-Covid: 5.000 $ di multa a chi si rifiuta

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Nel Territorio del Nord, un territorio federale dell’Australia, una vasta fetta di lavoratori sarà obbligata a sottoporsi al ciclo completo di vaccinazione anti Covid entro 2 mesi: chi non si vaccinerà in questo periodo di tempo, infatti, non sarà autorizzato ad occupare il suo posto di lavoro e potrebbe ricevere una multa da 5.000 dollari. Nello specifico, come annunciato nella giornata di mercoledì dal Primo Ministro del territorio, Michael Gunner, i soggetti obbligati dovranno sottoporsi alla prima dose del vaccino entro il 12 novembre ed alla seconda entro il 24 dicembre.

In base a quanto riportato dal sito del governo, si intuisce che sono davvero molti i lavoratori che saranno interessati da tale misura. Infatti, precisamente dovranno sottostare all’obbligo vaccinale coloro che sono a contatto diretto con persone vulnerabili, coloro che lavorano in un ambiente ad alto rischio e tutti gli individui che svolgono lavori in «infrastrutture essenziali», che hanno a che fare con «la sicurezza o l’approvvigionamento di cibo o beni essenziali», o con «la logistica».

Si tratta solo dell’ultima misura restrittiva ad essere stata imposta in Australia. Nello scorso periodo, infatti, è emerso il fatto che Canberra si è dedicata approfonditamente all’utilizzo dei dati biometrici, arrivando a supervisionare la quarantena pandemica tramite gli smartphone. Inoltre, bisogna anche ricordare che l’obbligo vaccinale è già stato imposto dal governo australiano ai lavoratori del settore edile, i quali sono anche scesi in piazza per protestare contro tale imposizione.

Stando alle statistiche riportate dal governo australiano, il 66% degli australiani ha completato il ciclo vaccinale, mentre l’84% della popolazione si è sottoposto alla prima dose.

[di Raffaele De Luca]

Whirlpool, confermati i licenziamenti dal 22 ottobre

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L’azienda Whirlpool ha confermato i licenziamenti a partire dal 22 ottobre per 340 operai della sede di Napoli. Come scritto nel comunicato diffuso dall’azienda, i progetti presentati dal Governo e dalla Regione sono ancora “in una fase non compatibile con le esigenze e tempistiche espresse dalla società”. Restano confermati gli incentivi all’esodo nella misura di 85mila euro o il trasferimento dei lavoratori nella sede di Cassinetta di Briadronno (VA), oltre alla disponibilità a proseguire la trattativa per il trasferimento di asset.

Alitalia ha chiuso, anzi no: una storia troppo lunga

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Da poche ore la storica compagnia aerea italiana non esiste più. Ma ci rassicurano che continuerà a vivere. Eppure, non è tanto il primo volo di ieri mattina Linate-Bari recante lo stesso logo e colori di Alitalia sulla fusoliera (nonostante il nome dell’azienda ora sia ITA Airaywse la procedura di cessione ancora da ultimare, a generare perplessità nell’opinione pubblica, quanto la mancanza di un’immagine chiara rispetto a cosa questa azienda potrà essere.

Tralasciando l’emorragia di posti di lavoro – si passa attualmente da 10.500 a 2.800 dipendenti – le condizioni di partenza sembrano non essere confacenti a nessuno dei target principali. Con solo 52 aerei disponibili attualmente (sempre quelli di Alitalia) la compagnia non può competere con i maggiori player stranieri sulle tratte europee e intercontinentali, né potrebbe assurgere al ruolo, più modesto ma significativo, di compagnia di bandiera. Cioè di azienda concepita principalmente per gli interessi della cittadinanza italiana, coprendo tratte che le realtà private più grandi non hanno interesse a garantire. Come infatti sarebbe ingenuo nutrire pregiudizi sulla natura d’ente pubblico della Newco, volta all’interesse pubblico, sarebbe anche sciocco non chiedersi: con queste premesse ha senso tenere in piedi una società?

La mala gestione, gli sperperi

Il travaglio di Alitalia, fino alla partenza esitante, non è certo casuale. I fasti del dopoguerra, con l’avvio nel 1947 come ente pubblico economico sono soltanto un ricordo. La realtà comincia a farsi più dura negli anni novanta, quando si assiste alla liberalizzazione dei traffici aerei. A quel punto entrano in gioco tante realtà pronte a fare concorrenza. Servono forse investimenti e accordi nel mercato che si tentano ma non arrivano. La situazione si complica ed ecco la prima parziale privatizzazione nel ’96 con Prodi, fino a quella completa tra il 2007 e il 2008 quando – per scongiurare la fusione con Air France (opzione che si presenterà più di una volta in questa storia) – su iniziativa di Berlusconi l’azienda viene affidata ai cosiddetti “Capitani Coraggiosi”, cordata guidata da Intesa Sanpaolo, allora nelle mani del banchiere Corrado Passera, guidata da Roberto Colaninno con nomi illustri dell’industria come Benetton, Riva, Ligresti, Marcegaglia e Caltagirone. La parte sana dell’azienda va a loro, quella cattiva sul groppone dello Stato che si accolla debiti e paga la cassa integrazione. I velivoli vengono ridotti da 175 a 109, le perdite cominciano a essere ingenti. Nel 2011 il buco di bilancio è di 69 milioni, nel 2012 di 280 milioni, addirittura 500 nel 2013. Il “meglio” della classe imprenditoriale italiana combina un disastro. Arriva Ethiad, che acquista il 49%. Gli arabi però non faranno che aumentare l’enorme passivo dopo aver ridotto le tratte brevi e infine escono. Eccoci dunque all’amministrazione straordinaria guidata dal Ministero dello sviluppo economico che spende centinaia di milioni per tenere in vita Alitalia con i prestiti ponte fino alla prossima (s)vendita. Si stima che negli ultimi quattro anni la società sia costata ai contribuenti 1,4 miliardi. Tutto denaro sprecato? Viene da dire di sì.

E adesso?

Come si legge su altre fonti giornalistiche, il numero di velivoli è programmato ad aumentare, arrivando a 78 nel 2022 fino a 105 nel 2025, che era il numero standard dell’Alitalia. Le destinazioni sono per ora 45 con 61 rotte, per arrivare nel 2025 a 79 destinazioni con 89 rotte. Ancora insufficiente, sia considerando le disponibilità di mezzi e rotte di colossi come Lufthansa, British Airways e Air-France, tutti molto sopra la casella dei 100. Stesso discorso per la questione del lungo raggio. ITA in effetti dovrebbe essere una realtà che punta sul medio raggio. Torna però a questo punto la questione dell’interesse pubblico, siccome sulle tratte domestiche ed europee non si riuscirebbe a fronteggiare la forza delle low cost come Ryanair, che ha in dotazione 300 aerei. E non fanno ben sperare neanche le parole dell’Ad di Ita Lazzerini, il quale nella conferenza stampa di stamane ha dichiarato che la nuova compagnia sarà molto attenta ai servizi per il mondo del business. Gli uomini d’affari potranno contare sulla centralità della rotta Roma-Milano-Linate. Su cui già correvano «23 aerei ad andare e 23 a tornare». Sempre Lazzerini ha detto che tra gli obiettivi futuri ci sono i voli internazionali, perché più redditizi

Volotea, piove sul bagnato

Notizia di queste ore è che la compagnia spagnola Volotea si è aggiudicata i collegamenti da e per la Sardegna, grazie a un’offerta a ribasso. Altra tegola per la nuova Alitalia che già ha tutti gli occhi puntati addosso. I vertici però avvertono che faranno ricorso al Tar. E alla domanda su Ryanair, rispondono in modo deciso ma forse poco sostanzioso: «loro fanno volare polli da batteria». Non si placa insomma il dubbio sul perché la vocazione principale non sia quella dei voli nazionali, tenendo conto dell’evidente svantaggio sulla dimensione dell’offerta europea, come riporta il sito dell’ente Eurocontrol e considerando che nel 2019 il traffico aereo interno misurò circa 64 milioni di passeggeri, un numero non irrilevante. La continuità territoriale è un punto irrisolto.

Punti interrogativi ineludibili. Che affondano le radici in un passato burrascoso. Dalla nascita come ente pubblico economico fino alle prime riorganizzazioni degli anni 90. Poi il passaggio ai “capitani coraggiosi” nel 2008. I bilanci sempre in perdita fino al giorno del battesimo di ITA, una realtà che ha bisogno di un’anima. Ed è proprio quando si mettono in dubbio l’identità e i valori di un progetto dedicato alla collettività che i guai peggiori si materializzano. Ma come detto in apertura, un’azienda pubblica non deve neppure esistere per forza. Se esiste, devo farlo con dei presupposti.

[di Giampiero Cinelli]

 

 

Mafia, disposto maxisequestro di beni della famiglia dei corleonesi

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Il Tribunale di Palermo ha disposto il sequestro di beni per un valore superiore ai 4 milioni di euro alla mafia corleonese: in particolare, 3.5 milioni sono stati confiscati a Mario Salvatore Grizzaffi e Gaetano Riina, nipote e fratello del boss Totò, a Rosario Salvatore Lo Bue e al figlio Leoluca. I legami con la mafia di questi soggetti sono accertati. Si tratta di un’operazione giunta a seguito di un lungo processo investigativo che aveva permesso la confisca di altri patrimoni illeciti di soggetti che avevano favorito la latitanza di Bernardo Provenzano e, nel caso di Mario Salvatore Grizzaffi, anche di Giovanni Brusca.

Gb: ucciso a coltellate deputato conservatore David Amess

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Dopo essere stato accoltellato durante un incontro con gli elettori tenutosi all’interno di una chiesa metodista nell’Essex, è morto il deputato conservatore britannico David Amess. L’aggressore è stato arrestato: la polizia dell’Essex, infatti, ha fatto sapere che «un uomo è stato arrestato» e che essa non sta «cercando nessun altro».

L’Italia è l’unico Paese europeo dove si guadagna meno di 30 anni fa

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L’Italia è l’unico Paese europeo in cui, a partire dal 1990, lo stipendio medio dei lavoratori è diminuito: lo si apprende da una recente analisi effettuata dalla fondazione indipendente Openpolis e basata sui dati Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico). In tal senso, nel Belpaese il salario medio annuale è calato del 2,90% negli ultimi 30 anni, una tendenza di gran lunga differente rispetto a quella delle altre nazioni: in tutte i restanti paesi, infatti, lo stipendio è aumentato. In particolare, un brusco incremento dello stesso è stato registrato nei paesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania), dove il salario è più che triplicato negli ultimi 25 anni e in alcuni paesi dell’Europa centrale (Ungheria, Slovacchia), in cui esso è raddoppiato.

Ovviamente, va ricordato che quelli sopracitati sono paesi in cui i salari medi annuali, 30 anni fa, erano molto minori di quelli degli altri stati europei. Ad esempio in Lituania, il paese europeo dove i salari sono aumentati più significativamente (precisamente del 276,30%), negli anni ’90 la retribuzione era di circa 8mila dollari l’anno. Ad ogni modo, però, anche comparando la variazione degli stipendi italiani con paesi europei aventi economie più simili alla nostra, la sconfitta del nostro Paese è evidente. Infatti anche in Germania e in Francia, ad esempio, i salari medi sono stati incrementati rispettivamente del 33,7% e del 31,1%, nonostante essi fossero già elevati in partenza. Inoltre anche la Spagna ha registrato un aumento, seppur più modesto (6,2%).

Tutto ciò ha portato al fatto che, mentre all’inizio degli anni ’90 l’Italia era al settimo posto nella classifica degli Stati europei con il salario medio annuale più alto, adesso si posiziona al tredicesimo posto superata da Paesi tra cui proprio la Francia e la Spagna, che negli anni ’90 avevano salari più bassi.

Nello specifico, nel 2020 in Italia il salario medio è di 37,8 mila dollari (circa 32,7 mila euro), una cifra di gran lunga inferiore rispetto a quella dei paesi europei con gli stipendi più alti, ovvero il Lussemburgo (65,8 mila dollari), l Olanda (58,8 mila) e la Danimarca (58,4).

Detto questo, a determinare questo fallimento dell’Italia è stata senza dubbio anche la pandemia: tra il 2019 e il 2020, infatti, i salari italiani sono diminuiti in maniera importante. In questo periodo di tempo, in Italia è stato registrato un calo di poco inferiore al 6%. Si tratta di una diminuzione record per il nostro Paese: infatti, seppur anche altri Paesi siano stati danneggiati dalla pandemia, la diminuzione registratasi è stata inferiore. Ad esempio, in Francia tale contrazione è stata del 3,2%, mentre in Spagna del 2,9%.

[di Raffaele De Luca]

No Green Pass: a Roma manifestanti donne consegnano rose a poliziotti

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A Roma, durante la manifestazione contro il Green Pass che si sta tenendo al Circo Massimo, un gruppo di donne ha consegnato delle rose alle forze dell’ordine che con i blindati stanno chiudendo gli accessi alla piazza. Gli agenti hanno accettato e ringraziato. «È un gesto simbolico, un gesto di pace», hanno affermato le donne.

Valle del Kashmir: riesplodono le violenze al confine tra India e Pakistan

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Negli ultimi giorni la valle del Kashmir, unica regione dell’India a maggioranza musulmana contesa da oltre settant’anni da India e Pakistan, ha subito un’ondata di uccisioni di civili appartenenti a minoranze religiose. Nello specifico, hanno perso la vita sette persone, quattro delle quali appartenenti a minoranze indù e sikh. Stando ai rapporti della polizia, quest’anno almeno 26 persone sarebbero state uccise in attacchi che si sono poi rivelati essere mirati.

Tutti omicidi, gli ultimi, svoltisi in pieno giorno. Come quello di un preside appartenente alla comunità religiosa sikh e il suo collega, induista, uccisi giovedì all’interno della loro scuola alla periferia di Srinagar, la città principale della regione. Secondo le testimonianze gli aggressori hanno prima controllato i documenti d’identità degli insegnanti per poi isolare e allontanare le vittime, prima di sparargli. Prima di loro la stessa sorte era toccata anche a un noto farmacista.

Alcuni ribelli, appartenenti al Fronte della Resistenza (TRF), hanno rivendicato le uccisioni. Si tratta di un gruppo militante che ha come obiettivo quello di combattere il dominio indiano e affiliato, secondo le autorità indiane, al gruppo armato islamista Lashkar-e-Taiba. Nato nel 2019 in seguito alla decisione del governo indiano di revocare lo status di semi-autonomia al Kashmir e arrestare i politici locali, il Fronte contesta l’abrogazione di due articoli ad hoc della Costituzione indiana. Si tratta dell’articolo 370, che lasciava al governo centrale di New Delhi la possibilità di legiferare solo su difesa, esteri e comunicazioni e l’articolo 35A che consentiva l’acquisto di terreni nel Jammu e Kashmir esclusivamente ai suoi residenti. in quell’occasione il governo indu-nazionalista di Narendra Modi inviò nella regione migliaia di militari per arrestare i parlamentari locali, lasciando poi la popolazione senza internet e elettricità.

In quest’ottica, almeno 900 abitanti del Kashmir, proveniente maggiormente dalla città di Sringar, sono stati arrestati nell’intento di trovare gli esecutori degli omicidi. Tra essi leader musulmani, insegnanti e in generale persone considerate “anti-India” e “simpatizzanti” dei gruppi separatisti del Kashmir.

Molte famiglie indù, tornate in Kashmir intorno al 2010 dopo l’esodo degli anni ’90, grazie a sostegni economici per vitto e alloggio, ora stanno lasciando la regione. I dati dicono che negli ultimi 10 anni circa 3.800 famiglie indù hanno fatto ritorno nella regione a maggioranza musulmana. A chi è rimasto, invece, le autorità hanno suggerito di rimanere in casa il più possibile. Pare che le recenti aggressioni non siano avvenute in un momento casuale. Nelle scorse settimane si sono recati in Kashmir più di 70 ministri del governo guidato dal partito Bharatiya Janata Party (BJP) del primo ministro Narendra Modi. I rappresentanti politici in visita hanno sottolineato ed elogiato i “vantaggi della rimozione dell’articolo 370” dalla costituzione indiana.

Per l’Onu è urgente occuparsi della tutela delle minoranze: si potrebbe assistere, di fatto, ad un’alterazione demografica della regione, visto che etnie come quelle Dogri, Gojri, Pahari, Sikh, Ladhaki (e altre) non sono più al sicuro. I leader religiosi musulmani della regione hanno condannato le uccisioni, chiedendo ai fedeli di intervenire in termini di sicurezza e protezione. Dall’altra parte Human Rights Watch (HRW) ha chiesto che il governo stesso adotti misure per proteggere le minoranze del Kashmir.

[di Gloria Ferrari]

Green Pass: in Valle d’Aosta importanti criticità su trasporti extraurbani

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In Valle d’Aosta sono state riscontrate importanti criticità per il trasporto pubblico extra urbano. Nello specifico, sono state cancellate diverse corse di Arriva Spa. A riportarlo è l’agenzia di stampa Ansa che cita la Cgil, la quale in merito all’introduzione dell’obbligo di Green Pass per i lavoratori ha riferito della presenza di tali criticità. Regolare, invece, la situazione riguardante il trasporto pubblico urbano e il trasporto ferroviario.

Ecuador, le comunità locali in lotta da 300 giorni per fermare l’estrazione mineraria

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Foresta

È ormai dal Natale 2020 che gli abitanti di Pacto, territorio situato in Ecuador, protestano con tende e posti di blocco fisici contro l’avanzata dello sfruttamento minerario. Sit-in che si inserisce in un panorama di manifestazioni che si sussegue da anni e che vede sempre lo stesso scenario: comunità locali che combattono disperatamente per preservare i propri territori da chi vorrebbe solo prosciugarne l’oro all’interno. L’ultimo episodio a settembre, durante il quale il tribunale di San Miguel de los Bancos, zona di competenza amministrativa per Pacto, ha negato la richiesta di misure cautelari (a protezione della terra) avanzata dalla popolazione e da altri organi territoriali e amministrativi.

Pacto si trova dentro la “Riserva della Biosfera del Chocó Andino”, territorio protetto dall’Unesco ma che l’impresa mineraria Melinachangó Santa Bárbara continua a distruggere, inquinando le sue acque e mettendo a repentaglio la vita di 21mila persone appartenenti alle parrocchie di Nanegal, Nanegalito, Gaule, Calacali, Pacto e Nono. Il tutto, con la complicità dei governanti dell’Ecuador.

La rabbia dei manifestanti scaturisce, di fatto, prima di tutto dalla complicità delle autorità statali, che continuano a dispensare nuove licenze d’estrazione mineraria e riconfermare quelle già esistenti. Estrazioni che continuano ad interessare anche le zone del centro della riserva, nonostante viga un divieto esteso all’intera area. Restrizioni che spesso, per essere aggirate più facilmente, alimentano numerosi episodi di estrazione illegale. Una richiesta lecita, dunque, quella avanzata dagli abitanti: avviare una consultazione per bloccare tutte le attività estrattive.

“Dopo 264 giorni di resistenza e difesa del territorio, minacciato per le attività minerarie realizzate senza consultazioni, illegali e senza licenza ambientale, la giustizia ha lasciato indifesa la Parrocchia di Pacto. Questa sentenza viene emessa nonostante tutte le denunce, prove, report, comunicati, fotografie, video, mappe e testimonianze che evidenziano l’omissione dello Stato ecuadoregno di fronte alla violazione dei diritti costituzionali della Natura della comunità di Pacto”, dicono i locali intervistati da Osservatorio Diritti.

Quella del Pacto è una delle zone più ricche di biodiversità del Pianeta. La conformazione del territorio e il grado di umidità ha portato negli anni a una rapida evoluzione di nuove specie endemiche, reperibili solo in questa zona. Sono state segnalate circa 10.000 specie di piante, di cui circa 2.500 esclusivamente locali. E non solo. Distruggere appezzamenti di terreno in questa zona significa mettere a rischio anche la storia locale, le tradizioni e le origini di un popolo che ha sempre basato la propria esistenza donando e prendendo dalla terra allo stesso modo. Nei dintorni infatti è possibile trovare molti siti archeologici appartenenti alla cultura Yumbo, vecchi precursori delle comunità odierne.

È chiaro, dunque, che approcciarsi con intento depredatorio significa strappare un po’ di vita non solo a chi ci vive attorno. Quando si tratta di salvaguardare l’ambiente, siamo coinvolti tutti.

[di Gloria Ferrari]