martedì 23 Settembre 2025
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Il Texas ha reso di fatto impossibile l’aborto, anche nei casi di stupro

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Un passo indietro nei diritti delle donne è stato appena compiuto negli Stati Uniti, con l’entrata in vigore in Texas di Senate Bill 8, la legge più restrittiva in suolo americano. Questa prevede il divieto dell’interruzione di gravidanza non appena possibile rilevare il battito del cuore del feto. Una decisione estrema, considerando che l’attività cardiaca può essere percepita già alla sesta settimana di gestazione, quando ancora è probabile non sapere di essere incinta. Inoltre, la legge consente ai privati di intraprendere un’azione civile contro chiunque assista o aiuti una donna ad abortire, con la possibilità di richiedere sino a 10mila dollari di danni. Questo vuol dire che si potrà intentare una causa contro medici, infermieri, operatori sanitari, persino contro i genitori che pagano per l’aborto della figlia o, per assurdo, contro il tassista che li accompagna. In tutto ciò, non è prevista l’esclusione dal divieto, dei casi di incesto e violenza sessuale.

Senate Bill 8 – non sospesa dalla Corte Suprema – ha causato non poco malcontento, tanto che è stata presentata una petizione d’emergenza da strutture sanitarie e sostenitori dei diritti dell’aborto, con l’esplicita richiesta di bloccarla. La legge è stata definita incostituzionale, poiché viola la Roe contro Wade, sentenza della Corte Suprema risalente al 1973, che stabilì l’interruzione di gravidanza fino alla 22esima-24esima settimana di gestazione. Anche Joe Biden ha espresso con fermezza la sua contrarietà, promettendo che farà di tutto per proteggere uno dei diritti femminili più importanti che, se ostacolato, compromette significativamente l’accesso all’assistenza sanitaria, in modo particolare alle donne delle classi sociali a basso reddito.

La legge, conosciuta anche come Heartbeat Act, è stata firmata lo scorso maggio dal governatore repubblicano Greg Abbott e contribuirà a diminuire ulteriormente e drasticamente le cliniche dove è possibile abortire. Alcune di queste, hanno raccontato di essersi viste costrette a cancellare molti appuntamenti di pazienti che avevano richiesto l’interruzione di gravidanza prima dell’entrata in vigore della legge, e che contavano sul blocco – non avvenuto – da parte della Corte Suprema; altre hanno invece affermato di aver avuto più richieste del solito nei giorni precedenti alla sentenza. Persino alcuni medici hanno preso la decisione di non praticare più l’interruzione di gravidanza, al fine di salvaguardarsi da denunce e cause legali lunghe e costose.

[di Eugenia Greco]

Draghi: “Si a obbligo vaccinale e terza dose”

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Il presidente del Consiglio Mario Draghi ha affrontato il tema dell’obbligo vaccinale e della terza dose rispondendo alle domande dei giornalisti in conferenza stampa. Secondo quanto riportato dall’Agenzia Ansa, al premier è stato chiesto: «Si arriverà all’obbligo vaccinale, in caso di approvazione definitiva dei vaccini, e alla terza dose?». Questioni alle quali Draghi ha risposto senza esitazioni: «Si a entrambe le domande».

Presentate in Parlamento 27.000 firme contro il Green Pass in scuole e università

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Una petizione, sottoscritta da 27mila italiani, è stata depositata ieri in Senato e alla Camera da parte dell’avvocato e docente dell’Università “Carlo Bo” di Urbino, Daniele Granara: all’interno del testo si legge che gli esponenti «fanno parte del personale scolastico del sistema nazionale di istruzione e universitario, nonché del corpo studentesco universitario» ed «espongono la comune necessità di non sottoporsi al Green Pass per accedere ai locali degli istituti scolastici ed universitari in cui svolgono la funzione di docente o prestano servizio e, quindi, all’istruzione dell’infanzia, primaria, secondaria e universitaria garantita dagli artt. 33 e 34 della Costituzione». Per questo motivo, dunque, tramite la petizione ci si oppone alla conversione in legge del Decreto Legge n.111 del 6 agosto 2021 – ossia quello con cui l’obbligo di possedere il lasciapassare sanitario è stato esteso anche agli studenti universitari ed al personale scolastico ed universitario – e si chiede alle Camere di denegare tale conversione.

La petizione è stata presentata ai sensi dell’articolo 50 della Costituzione, secondo il quale «Tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità». È stata però anche inviata, per conoscenza e per quanto di rispettiva competenza, al Presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio e, tra gli altri, al presidente del Parlamento europeo e della Commissione europea.

Per quanto riguarda la raccolta delle firme, inoltre, il professor Granara ha specificato che esse sono state raccolte dal 10 al 30 Agosto. «Non avevamo tanto tempo – ha dichiarato – perché il Decreto Legge ha una durata di vigenza di 60 giorni, dopodiché se non viene convertito in legge decade, quindi dovevamo fare presto. Se avessimo avuto più tempo a disposizione credo che avremmo potuto fare numeri ancora maggiori». Tuttavia, ha aggiunto l’avvocato, «siamo contenti, in quanto tale numero di firme, raccolto in solo 20 giorni ad Agosto, rappresenta un risultato straordinario». Si tratta, secondo Granara, di una «manifestazione da parte della società civile, che rivendica libertà e rispetto del principio di autodeterminazione, delle proprie scelte e del buon vivere».

[di Raffaele De Luca]

Yemen: 65 morti in combattimenti nelle ultime 48 ore

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Sono almeno 65 gli individui, tra ribelli Houthi e forze filogovernative, che nelle ultime 48 ore hanno perso la vita nello Yemen durante i combattimenti per il controllo della città strategica di Marib, situata a circa 170 chilometri a Est della capitale del Paese, San’a. Lo ha annunciato un ufficiale militare, il quale nello specifico ha affermato che «22 forze filogovernative sono state uccise ed altre 50 sono rimaste ferite, mentre 43 ribelli Houthi sono stati uccisi».

La rivolta dei piccoli agricoltori contro Onu e World Economic Forum

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In risposta al Food Systems Summit (UNFSS) delle Nazioni Unite, il cui pre-vertice si è tenuto a Roma a fine luglio 2021 e il cui vertice vero e proprio si svolgerà a New York il mese prossimo, si è creato una massiccia contro-mobilitazione.
A lanciare l’iniziativa è stato il Meccanismo della società civile e dei popoli indigeni (CSM). Questa organizzazione, che comprende attori provenienti dal mondo agricolo ma anche indigeni, donne, consumatori e cittadini, ha criticato molto decisamente l’iniziativa. Secondo le loro analisi, il summit non avrebbe alcuna legittimità, a causa della piega neol...

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Dalla derisione alla criminalizzazione: come i media distorcono il movimento No Green Pass

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Dalla derisione all’oscuramento, e poi dall’oscuramento alla criminalizzazione. Questa la parabola dei media mainstream nei confronti delle proteste contro il green pass in Italia. Negli ultimi giorni, infatti, dopo mesi di totale black out informativo su ogni iniziativa di protesta, anche se molto partecipata, i palinsesti tv e le pagine di punta dei quotidiani sono tornati a popolarsi di resoconti sulle mosse dei “no green pass”. L’occasione era d’altra parte molto ghiotta. Il movimento pareva ingrossarsi nei numeri e un paio di fatti di cronaca, come l’aggressione a un inviato del quotidiano La Repubblica, fornivano il pretesto perfetto per un narrazione delegittimante.  I titoli ad effetto si sono sprecati, arrivando a parlare di “squadristi digitali“. Una tattica messa in campo ponendo la lente d’ingrandimento esclusivamente su sparuti casi di violenza, e non prestando alcuna attenzione alle decine di migliaia di persone che pacificamente hanno espresso il loro dissenso. I mezzi d’informazione hanno finito per utilizzare tali episodi come un pretesto volto a screditare l’intero movimento. Tattica collaudatissima e vecchia come il mondo, che viene usata contro ogni movimento di protesta sgradito e giudicato evidentemente pericoloso.

Un tattica affiancata da quella della derisione, tratteggiando i profili che popolano le manifestazioni come quelli di minus habens. In pratica, nella narrazione dominante, gli individui che partecipano alle proteste sono divisibili in due categorie: alcuni criminali e il resto della massa composto da mezzi scemi. In questo articolo di MilanoToday, ad esempio, i “No Green Pass” vengono fatti passare come sfegatati complottisti pronti a propagare ogni teoria alternativa su qualsiasi cosa, senza eccezione alcuna. Stesso modo di operare anche da parte di Repubblica, che in questo più recente articolo afferma che «il fiume carsico del complottismo italiano è tornato con prepotenza a galla: la battaglia contro il Green pass è il nuovo punto d’approdo». L’Adnkronos, invece, nel testo pubblicato martedì utilizza la tecnica a cui per mesi tutti i media mainstream si sono rifatti: accostare la parola Green Pass alle organizzazioni politiche di estrema destra, facendo intendere al lettore che le piazze contro il green pass siano in mano a nostalgici fascisti.

Ad ogni modo, dopo gli episodi verificatisi lo scorso fine settimana, il registro è cambiato, e si è scelto di utilizzare questi ultimi come pretesto atto a criminalizzare tutti i “No Green Pass”, ora trattati praticamente al pari di pericolosi terroristi. E ciò lo si sta facendo non solo a livello mediatico ma anche politico, con la stretta annunciata del Viminale. «Individuare specifiche misure finalizzate a rafforzare la tutela dei giornalisti e di tutte le categorie più esposte a episodi di odio dopo l’intensificarsi degli attacchi sulla rete e i gravi atti di violenza che hanno riguardato alcuni cronisti nel corso di manifestazioni di protesta contro i provvedimenti del Governo per contenere la diffusione del Covid 19», è secondo quanto riportato in una nota del ministero dell’Interno, quanto stabilito dalla ministra, Luciana Lamorgese.

Nel frattempo la criminalizzazione mediatica continua e ora i giornalisti mainstream pare abbiano pure imparato ad iscriversi ai canali su Telegram. Da giorni infatti usano come fonte uno dei canali dove si diffondono notizie e si organizzano mobilitazioni. Nonostante di chat analoghe ne esistano decine, tutti i media hanno scelto di erigerne una specifica a fonte per i loro servizi: quella che meglio si presta a trasmettere la narrazione desiderata grazie alle soluzioni estreme proposte da parte dei suoi membri. Si tratta del canale “Basta Dittatura”(oltre 40.000 iscritti), dove gli indomiti cronisti sono andati a pescare le frasi più sconnesse e abbaiate all’evidente scopo di far passere l’intera area dei “no green pass” come una masnada di fulminati. L’Huffington Post, ad esempio, parlando di questo gruppo fa passare il messaggio che quanto viene scritto al suo interno costituisca la norma nelle «chat telegram dei no Green Pass». Come se chiunque sia contrario a tale strumento debba per forza far parte di questa o altre chat simili, nonché avere idee e modi di esprimersi uguali a quelli degli altri senza alcuna capacità di discernimento.

[di Raffaele De Luca]

Siria: petrolio fuoriesce da raffineria e si diffonde nel Mediterraneo

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Una grande quantità di petrolio, fuoriuscito da una raffineria della città costiera di Baniyas, in Siria, si sta diffondendo nel Mar Mediterraneo, e secondo quanto affermato dalle autorità cipriote potrebbe a breve raggiungere l’isola di Cipro. Il tutto dopo che la scorsa settimana i funzionari siriani avevano affermato di essere stati in grado di tenere la fuoriuscita in questione, cominciata il 23 agosto, sotto controllo. Tuttavia dall’analisi delle immagini satellitari a disposizione, adesso è chiaro che lo sversamento fosse più grande di quanto originariamente ipotizzato: ha infatti coperto una superficie di 800 chilometri quadrati.

USA: le manifestazioni sfociano nel tracciamento di massa, con l’aiuto di Google

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Risalire ai manifestanti che si sono resi protagonisti di atti fuori legge in manifestazioni di protesta scandagliando i dati di tutti gli smartphone presenti nei paraggi, grazie al sistema di geolocalizzazione gentilmente messo a disposizione del governo da Google. È quanto sta accadendo a Kenosha, Wisconsin, dove va in scena l’apoteosi grottesca della sorveglianza in stile occidentale: il 23 agosto i cittadini sono scesi per strada per contestare l’ennesima violenza poliziesca sulle minoranze di colore, si sono verificati incendi in diverse aree della città e ora le autorità stanno tracciando indiscriminatamente tutti gli abitanti che hanno la sfortuna di possedere un telefono Android.

Vero che il rapporto tra polizia statunitense e produttori di smartphone è controverso e non sempre armonioso, perlomeno quando si tratta di ottenere l’accesso a smartphone e ad altri apparecchi elettronici per scandagliarne i contenuti. Ma stiamo parlando di una pratica ormai consolidata che tuttavia solleva diverse preoccupazioni nell’opinione pubblica, nei brand tecnologici e persino nei tribunali, soprattutto quando assume le sembianze distopiche del cosiddetto “recinto di geolocalizzazione” (geofence).

Nel caso di Kenosha, per venire a capo delle identità di coloro resisi autori di danneggiamenti a danno dell’arredo urbano durante le proteste, gli investigatori hanno chiesto e ottenuto molteplici mandati per dar vita a una “pesca a strascico” dei dati GPS degli apparecchi prodotti da Google (Apple si assicura di difendere la privacy dei propri clienti con i denti). La geofence viene già di per sé considerata un’extrema ratio che molti giudici disapprovano anche quando fa riferimento a episodi più circoscritti, la sua normalizzazione nell’ambito massivo delle manifestazioni è pertanto degna di allarme.

In queste situazioni, l’azienda tecnologica cerca di tutelare la propria immagine consegnando alle autorità delle liste di identificativi anonimi, caratterizzati semplicemente da un codice, il problema è che la polizia può chiedere all’azienda di rivelare le informazioni di ogni singola voce in elenco, di fatto rendendo vano lo sforzo formale dell’azienda. I carteggi emessi nel caso di Kenosha non assicurano peraltro che i dati non rilevanti alle indagini vengano debitamente distrutti, cosa che potrebbe tradursi in una catalogazione sistematica di tutti i manifestanti.

Nonostante la reticenza di alcuni tribunali, sempre più autorità statunitensi si stanno affidando – spesso maldestramente – al geofence, con il risultato che nel solo 2020 Google abbia dovuto sottostare a più di 11.000 di questi mandati, dettaglio che va a sottolineare una tendenza sempre maggiore e capillare nell’affidarsi alla sorveglianza radicata nelle nuove tecnologie. Una tendenza che dovrebbe certamente preoccupare gli statunitensi, ma anche gli italiani.

Per quanto difesi da tutele della privacy migliori di quelle concesse agli americani, i cittadini italiani hanno nondimeno assistito alle primissime avvisaglie di quelle brutture orwelliane che vengono tollerate oltreoceano. BuzzFeed ha infatti recentemente rivelato come Clearview Ai, controversa azienda di riconoscimento facciale, stia cercando di radicarsi anche sul suolo europeo, con le autorità nostrane che hanno compiuto tra le 101 alle 500 ricerche sul software incriminato. Difficile ottenere maggiori dettagli a riguardo, sia la ditta in questione che la Polizia di Stato si sono dimostrate restie a discutere apertamente la faccenda.

[di Walter Ferri]

Italia, transizione a parole: approvato l’ampliamento della Centrale a gas di Ostiglia

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La transizione ecologica deve attendere ancora. Nonostante la crisi climatica e le criticità locali in relazione alle emissioni inquinanti, il 12 agosto scorso il Ministero della Transizione ecologica guidato da Roberto Cingolani, di concerto con il Ministero della Cultura, ha approvato «l’installazione di una nuova unità a ciclo combinato e interventi di miglioramento ambientale sui gruppi esistenti della Centrale di Ostiglia (MN)». Con un investimento complessivo di circa 400 milioni di euro, il progetto prevede – secondo quanto affermato – un’efficientemento per la centrale termoelettrica in questione e la realizzazione per la stessa di una nuova unità, costituita da una turbina a gas di classe “H”. La nuova sezione avrà una potenza elettrica nominale di circa 900 MW1 e un rendimento superiore al 60%.

«Per quanto riguarda gli aspetti ambientali, in particolare le emissioni in atmosfera – dichiara EP Produzione, l’azienda che gestisce l’impianto – la nuova tecnologia proposta permetterà di ridurre ulteriormente le emissioni specifiche in conformità ai più stringenti orientamenti nazionali ed europei; in particolare, le emissioni di NOx saranno inferiori a 10 mg/Nm3». Non è, tuttavia, dello stesso parere la Regione Lombardia. Con una relazione tecnica disponibile sul sito del Ministero della Transizione Ecologica questa, infatti, avrebbe espresso diverse preoccupazioni legate al progetto, chiedendo, esplicitamente, «che l’installazione della nuova unità non venisse approvata». Nel dettaglio, in relazione alle emissioni, quanto dichiarato dalla società proponente sarebbe del tutto fuorviante. La Regione, analizzando i dati resi disponibili dall’azienda ed effettuando nuovi calcoli sulla base di scenari più verosimili, ha infatti dimostrato che «la proposta, pur con gli utili filtri SCR, emetterebbe 1.071.000 Kg di NOx l’anno, cioè circa il doppio rispetto agli attuali 504.000 kg». Ma le criticità evidenziate dalla Regione però non finiscono qui. Innanzitutto, viene sottolineata la grave idoneità della Pianura Padana. L’area, come è noto, è tra quelle con maggiori problemi di inquinamento a livello planetario. In condizioni peggiori troviamo solo l’area Nord Orientale della Cina e il Nord dell’India. La stessa provincia di Mantova poi, sede della centrale da “innovare”, avrebbe una situazione geoclimatica tale da favorire la concentrazione di inquinanti in modo particolarmente accentuato rispetto a numerose altre province padane. In ultimo, ma non meno importante, il mantovano è già oggi l’area con la maggiore concentrazione di centrali elettriche, per una potenza installata di oltre 3500 MWe.

Ciononostante, la richiesta della Regione – nonché dei cittadini che subiranno le conseguenze del progetto – è rimasta del tutto inascoltata. Più che esprimere il proprio dissenso, tuttavia, poco altro poteva essere fatto. La procedura, infatti, sarebbe di esclusiva competenza nazionale, poiché in seno al Piano italiano energia e clima (Pniec). Un Piano di transizione energetica determinato a ritardare una vera svolta alla sostenibilità. Come conferma questa vicenda, è ancora troppo lo spazio dedicato agli investimenti nel gas naturale, fonte fossile che – come ha più volte sottolineato la comunità scientifica – non rappresenta la soluzione alla crisi climatica. Senza contare che quanto approvato per la Centrale di Ostiglia si tratta dell’ennesimo ‘regalo’ a multinazionali tutt’altro che impegnate sul fronte della transizione ecologica. EP Produzioni, infatti, fa parte del gruppo ceco EPH, «l’emblema – secondo Altreconomia – di come si possa speculare sull’azione climatica attraverso l’acquisizione di miniere e centrali a carbone obsolete, in fase di dismissione o particolarmente inquinanti, al fine di prolungarne l’operatività».

[di Simone Valeri]

La multinazionale GKN licenzia tutti i lavoratori, ma il governo continua a farci affari

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Il 4 agosto scorso a 422 lavoratori della sede fiorentina della multinazionale inglese GKN è stato preannunciato il licenziamento via mail. Il governo italiano per cercare di convincere l’azienda a ripensarci ha proposto di convertire i licenziamenti in 13 settimane di cassa integrazione, totalmente a carico dello stato, nella speranza di ottenere il tempo necessario a trovare una soluzione. I dirigenti dell’azienda che produce componenti per auto e per il settore aeronautico reagirono chiedendo «qualche ora di tempo» per pensare alla proposta: da allora è passato quasi un mese e al ministero del Lavoro non è arrivata nessuna risposta. Nel frattempo la clessidra scorre e il termine di legge dei 75 giorni dal preavviso, alla scadenza dei quali l’azienda potrà procedere ai licenziamenti veri e propri si avvicina sempre più.

Uno stallo al quale i lavoratori si stanno opponendo con forza. Dietro lo striscione “Insorgiamo” hanno affollato le strade di Firenze in più occasioni, con cortei di protesta partecipati da oltre mille persone. Hanno occupato la fabbrica. Hanno inoltre aperto una “cassa di resistenza” per raccogliere fondi utili alle spese legali e aiutare le famiglie degli operai in difficoltà, scegliendo di aprirlo in una filiale di Banca Etica, perché unica banca che «non ha nessun tipo di legame con il fondo finanziario che ci ha chiusi, né con altri strumenti della grande finanza». Hanno lanciato una pagina social che conta già oltre settemila iscritti e organizzato un concerto che il 28 agosto ha portato migliaia di persone direttamente davanti ai cancelli della fabbrica. L’obiettivo è quello di far pressione sulle istituzioni affinché cerchino di fare qualcosa.

Una manifestazione dei lavoratori della GKN per le strade di Firenze

Per il governo Draghi il termine di convitato di pietra è infatti quanto mai appropriato alla situazione. Nessuna azione è stata intrapresa per ottenere dai dirigenti della multinazionale quantomeno una risposta alla proposta di trasformare i licenziamenti in provvedimenti di cassa integrazione, nonostante l’operazione fosse a costo zero per l’azienda. Un comportamento perfettamente in linea con quanto esplicato direttamente dal presidente del Consiglio con lo slogan «proteggere i lavoratori e non i posti di lavoro». Soluzione che per ora si sta avverando solo nella sua seconda parte, ovvero lasciare licenziare i lavoratori, senza che per questi siano state messe in campo nuove protezioni.

Ma non è tutto. Lo stato italiano ha infatti legami economici stretti con la stessa azienda. La GKN infatti ha in essere una compartecipazione con Leonardo Spa (azienda della quale possiede il pacchetto di maggioranza azionario il Ministero dell’Economia e delle Finanze, quindi di fatto il governo italiano) per una fornitura di 21 elicotteri alla Marina tedesca. Un affare da 2,7 miliardi di euro. Una situazione che i lavoratori hanno denunciato, chiedendo al governo di smarcarsi dalla multinazionale britannica. Anche su questo caso, ovviamente, da palazzo Chigi per ora non arriva nemmeno un sussurro. Per ora il caso della GKN rimane niente più di uno tra 87 altri: tante sono infatti le crisi aziendali attualmente sul tavolo del ministero del Lavoro dopo che il governo ha deciso di non rinnovare il blocco sui licenziamenti.