Per la prima volta nella storia la Corte Costituzionale dell’Ecuador si è recata in territori indigeni per tenere un’udienza. Secondo la Costituzione ecuadoriana, infatti, prima di poter procedere con attività estrattive o di costruzione nelle terre indigene o nei loro pressi è necessario ottenere il consenso previo, libero e informato dei gruppi indigeni locali. Tuttavia normalmente per questi gruppi è molto difficile raggiungere le città, e a recarsi a tali udienze sono di norma pochi rappresentanti della comunità. L’iniziativa della Corte ha reso possibile all’intera comunità di indigeni Cofan, nell’Amazzonia settentrionale, di partecipare alla discussione sulle loro terre, rendendo il sistema giudiziario più accessibile.
La Cina ha acquistato un’azienda italiana di droni militari all’insaputa del Governo
Due aziende cinesi, di proprietà dello Stato, hanno acquistato nel 2018 un’azienda italiana, la Alpi Aviation Srl, specializzata in produzione di droni militari, tramite una società offshore con sede a Hong kong, la Mars (HK) Information Technology. Il tutto è avvenuto all’insaputa delle autorità italiane ed europee, secondo quanto ha riportato il Wall Street Journal.
Gli esperti dicono che si tratterebbe di un classico schema adottato dalla Cina per aggirare la burocrazia europea e approfittare di alcuni “buchi neri” che le normative vigenti possono celare. Capita spesso che aziende statali cinesi utilizzino società apparentemente private come copertura, con il fine di appropriarsi di imprese che poi trasferiscono in nuove strutture in Cina.
Mars, la società “ponte” in questione, aveva acquistato nel luglio 2018 una quota pari al 75% della Alpi Aviation per 4 milioni di euro: cifra a cui si sommano altri 1,5 milioni di euro investiti nella stessa società. Un pagamento eccessivamente alto, secondo la polizia italiana, i cui sospetti sono stati confermati dal fatto che la società Mars fosse stata registrata a Hong Kong solo due mesi prima dell’accordo con Alpi. Elementi che, se collegati, portano a pensare che Mars sia a tutti gli effetti un marchio fittizio creato appositamente per impossessarsi di Alpi.
“È un caso da manuale. Questa è la strategia dello stato cinese, spinta dal governo cinese”, ha affermato Jaap van Etten, amministratore delegato di una società di intelligence economica olandese al WSJ.
I droni prodotti dalla Alpi sono gli stessi utilizzati dalle forze italiane in Afghanistan: pesano circa 10 chilogrammi, hanno un’apertura alare di 3 metri e possono trasmettere video e immagini a infrarossi in tempo reale. Bastano 8 minuti per metterli in funzione, e il paracadute di cui sono dotati gli permette di essere lanciati anche molto in alto.
Alpi avrebbe dovuto notificare la vendita alle autorità italiane? Ha avviato una sua produzione di droni in Cina? Si sta indagando proprio su questo. In materia esistono comunque delle leggi, secondo le quali le società europee sono solitamente tenute a segnalare le acquisizioni estere in determinati settori strategici come la difesa e la comunicazione. Nello specifico, il governo italiano ha il diritto e il potere di porre il veto laddove non ritenesse le acquisizioni da parte di acquirenti UE sicure.
Alpi, invece, il cui cambio di proprietà è avvenuto nel 2018, ha comunicato la vendita solo due anni dopo, quando alcuni funzionari del Ministero della Difesa hanno cominciato ad indagare sulla faccenda. La società ha negato di aver agito con poca trasparenza.
Finora l’Italia ha imposto il suo veto per 4 volte per bloccare compra-vendite di questo tipo. La maggior parte di questi riguardavano accordi con società cinesi. Di recente Draghi ha impedito la vendita di un produttore di semi da ortaggi al gruppo di proprietà cinese Syngenta. Ad aprile scorso ha impedito alla società cinese Shenzhen Invenland Holdings Co. Ltd. di acquistare un’importante quota di in un’azienda che produce apparecchiature per semiconduttori.
“Dobbiamo assicurarci che non finiscano nelle mani di coloro che cercano di minare l’ordine internazionale o i valori democratici occidentali’, ha affermato Valdis Dombrovskis, vicepresidente esecutivo della Commissione europea al WSJ.
[di Gloria Ferrari]
Dl Proroghe, Senato dà via libera definitivo
Il Senato ha dato il via libera definitivo, con 210 voti a favore, al cosiddetto dl Proroghe, sul quale il Governo aveva posto la questione della fiducia. Il provvedimento dispone misure urgenti in materia di giustizia e difesa e proroghe per quanto riguarda i termini di presentazione delle firme sul referendum per la cannabis, quelli per ricevere l’assegno temporaneo per i figli minori e del versamento dell’Irap. Non vi sono stati astenuti, ma FdI ha espresso voto contrario, anche a causa del continuo ricorrere del Governo allo strumento della fiducia per l’approvazione dei provvedimenti.
La Groenlandia ha messo al bando l’estrazione di uranio e terre rare
La Groenlandia ha approvato una legge che vieterà l’estrazione di uranio e porrà fine al progetto Kvanefjeld Rare Earth – Uranium Project riguardante la miniera di Kuannersuit, uno dei più grandi giacimenti di terre rare al mondo. Kuannersuit, di proprietà della società mineraria australiana Greenland Minerals, si trova vicino alla città meridionale di Narsaq e contiene non solo uranio radioattivo, ma anche un grande deposito di terre rare commercialmente importanti – praseodimio, neodimio, terbio – importante sia per la produzione elettronica di consumo, che per quella di armi. Il paese artico, appartenente alla Danimarca, basa la sua economia sulla pesca e sui sussidi del governo danese. Tuttavia, con lo scioglimento dei ghiacci, ha visto sempre più minatori interessarsi ai minerali – rame, titanio, platino e terre rare -, necessari per i motori dei veicoli elettrici. Prima delle elezioni di aprile, l’isola aveva rilasciato diverse licenze di esplorazione ed estrazione mineraria nel tentativo di diversificare la sua economia e realizzare il suo più grande obiettivo: diventare indipendente dalla Danimarca.
Più di 100 milioni di dollari, infatti, erano stati investiti nel progetto Kvanefjeld, il quale aveva già ottenuto l’approvazione preliminare nel 2020 e aspettava soltanto la conformità finale. Questo era stato organizzato per contenere anche un concentratore e una raffineria. La decisione di vietare la ricerca e l’estrazione dell’uranio è una conseguenza della promessa elettorale del partito Inuit Ataqatigiit – salito al governo lo scorso aprile con il 37% dei voti – dopo aver dichiarato pubblicamente la chiara intenzione di bloccare il progetto, per via della significativa presenza del metallo radioattivo. La nuova legge, infatti, proibisce l’esplorazione di giacimenti con una concentrazione di uranio superiore a 100 ppm (parti per milione, unità di misura che indica un rapporto tra quantità misurate omogenee di un milione a uno), e include il divieto di ricerca di altri minerali radioattivi.
La Groenlandia non è novellina in provvedimenti del genere. Di recente, infatti, sempre per volere del partito Inuit Ataqatigiit, ha proibito la ricerca di petrolio. La decisione era stata presa, nonostante non ci fosse ancora stata nessuna scoperta significativa di oro nero sul territorio. Tuttavia, la US Geological Survey – agenzia scientifica del governo americano – aveva stimato la possibile presenza di un giacimento con una quantità pari a più di 31 milioni di barili. Un vero e proprio tesoro che, per molti, appariva come la soluzione per l’ottenimento dell’indipendenza dal Regno di Danimarca.
[di Eugenia Greco]
Covid: l’Irlanda torna alla restrizioni nonostante il 92% degli adulti sia vaccinato
L’Irlanda torna alle restrizioni contro il Covid. L’annuncio è stato dato ieri sera in un discorso alla nazione da parte del capo del governo Micheál Martin: già da oggi chiunque sia stato in contatto con un positivo dovrà rimanere per cinque giorni in quarantena, anche se vaccinato. Da domani, 18 novembre, torneranno in vigore gli orari di chiusura anticipati per pub, ristoranti e locali; mentre i lavoratori dovranno ricominciare a operare in remoto. Le norme arrivano a seguito di un nuovo picco di contagi, ottenuto nonostante il 92% della popolazione vaccinabile abbia già ricevuto entrambe le dosi (il 77% della popolazione totale).
Secondo quanto specificato, da domani i locali pubblici dovranno abbassare le saracinesche entro le ore 24. Per accedere a pub, ristoranti, discoteche e locali sarà necessario mostrare la prova dell’avvenuta vaccinazione o della guarigione dal Covid-19, così come per accedere a cinema e teatri. I locali avranno l’obbligo di vietare l’ingresso a chi non sia in regola con la documentazione e dovranno anche verificare i documenti d’identità degli avventori, in caso contrario potranno subire multe e chiusure. Introdotte anche nuove misure, ad occhio e croce difficili da controllare, sugli incontri familiari: le famiglie non completamente vaccinate potranno ospitare in casa solo altre famiglie non vaccinate, mentre “se sei completamente vaccinato puoi incontrare al chiuso persone di una famiglia non vaccinata se non sono a rischio di malattie gravi e non ci sono più di 3 famiglie in tutto”.
A fronte di un tasso di vaccinazioni che lo pone al quinto posto in Europa l’Irlanda ha raggiunto il picco di 4.200 persone attualmente positive, il più alto dal gennaio scorso. Attualmente sono 634 i ricoverati, 114 dei quali in terapia intensiva. Numeri, questi ultimi, ancora lontani dai picchi più alti. Tuttavia una proiezione effettuata dal Comitato Covid del governo (equivalente del CTS italiano) ha stimato che, secondo le peggiori proiezioni, nonostante i vaccini presto fino a 500 persone potrebbero avere bisogno del ricovero in terapia intensiva. Le proiezioni migliori ne stimano invece la metà.
Di fronte a questi dati il ministro della Salute irlandese, Stephen Donnelly, ha affermato che «nessuno può affermare che presto non si tornerà ad un blocco totale» come durante la prima e la seconda ondata: la medesima situazione di quando non c’erano i vaccini insomma. Ma sulla campagna vaccinale nessuna riflessione, anzi: il premier Micheál Martin ha annunciato che «i programmi di vaccinazione e di richiamo rimangono al centro della risposta del Governo al Covid-19» e che verrà accelerata «la distribuzione di dosi booster a tutti coloro che hanno fragilità o un’età superiore a 50 anni».
L’Europa riapre il dibattito sul nucleare: sempre meno gli Stati contrari
Ai vertici dell’Unione europea, il dibattitto sul nucleare si è ufficialmente riaperto. Il tema è tornato alla ribalta poiché alcuni Stati membri hanno esplicitato una richiesta: includere l’energia atomica tra le fonti energetiche pulite. A chiederlo – oltre alla Francia, da sempre in prima linea sulla questione – Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Ungheria, Slovenia e Polonia. Cui poi, ad ottobre, si sono aggiunti Bulgaria, Croazia, Finlandia, Romania, Slovacchia e Paesi Bassi. Tuttavia, mentre l’Italia tace in una sorta di silenzio assenso, almeno per ora, l’energia nucleare non verrà inclusa nella cosiddetta tassonomia verde, ossia tra le energie ecologiche da finanziare. A bloccare l’iniziativa del fronte pro-atomo una dichiarazione congiunta di Germania, Austria, Danimarca, Lussemburgo, Portogallo e Spagna. «L’energia nucleare – hanno dichiarato – è incompatibile con il principio ‘non causare danni significativi’ presente nel regolamento sulla tassonomia dell’Ue». Questi, pur riconoscendo il diritto sovrano degli Stati membri di decidere liberamente per i propri sistemi energetici, temono che la presenza del nucleare nella finanza sostenibile non farebbe altro che minarne la credibilità di fronte agli investitori.
Un’Europa quindi letteralmente divisa in due, sebbene, non proprio a metà, dato che gli Stati favorevoli al nucleare sono sempre di più. Il blocco della richiesta di questi ultimi, intanto, è stata però un sollievo per gli ambientalisti. E non solo per la loro ben nota contrarietà al nucleare. Secondo Euroactiv – che ha visualizzato in anteprima un documento non ufficiale circolato a Bruxelles – l’intento era infatti duplice: oltreché all’atomo, aprire le porte della tassonomia verde anche al gas naturale, a condizione che le centrali non emettano più di 100 grammi di CO2 per kilowattora. Una «vergogna scientifica» – come l’ha definito Henry Eviston del WWF – fortunatamente stroncata sul nascere. Ma, ad ogni modo, verde o no, che l’Europa abbia riaperto al nucleare è un dato di fatto. «Nell’Ue servono più rinnovabili e accanto a queste abbiamo bisogno di una fonte stabile», così si è ad esempio espressa il mese scorso la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Posizione condivisa dal responsabile per il Green Deal Frans Timmermans che, in particolare, ritiene gli investimenti nella quarta generazione una scelta intelligente.
Dentro i nostri confini, c’è il Ministro Cingolani già da tempo espressamente dichiaratosi favorevole ad un ritorno al nucleare. «Che si sia deciso di non utilizzare le centrali di prima e seconda generazione con i vecchi referendum ha un suo senso – ha commentato – ma pensare che dietro l’aggettivo nucleare si celino solo ed esclusivamente tecnologie pericolose, poco efficaci e costose è sbagliato». C’è da dire che la quarta generazione, oltre ad una maggiore efficienza, effettivamente ridurrebbe ancor di più eventuali rischi, sebbene – come ha precisato al Corriere della sera il fisico premio Nobel Giorgio Parisi – al momento esistano solo dei prototipi che devono dimostrare la loro qualità e «che in ogni caso sono sempre da escludere dove vive la gente». Se parliamo poi di emissioni, chiaro è che il nucleare sia fonte energetica del tutto pulita, ma i fattori in ballo sono tanti, non ultimo l’annoso tema dello smaltimento delle scorie. La decisione europea su quanto il gioco valga la candela è attesa per dicembre.
[di Simone Valeri]
Stati Uniti, Biden rilascia concessioni petrolifere su un’area più grande dell’Italia
La Cop26 si è conclusa da nemmeno quattro giorni e l’ipocrisia dei partecipanti inizia già a fare capolino. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, nonostante gli impegni sottoscritti, è pronto a rilasciare concessioni petrolifere su oltre 320 mila chilometri quadrati di mare nel Golfo del Messico: un’area più grande dell’Italia. Nella giornata di oggi, infatti, saranno messi all’asta i diritti di trivellazione, con il risultato che la produzione petrolifera aumenterà fino a 1,12 miliardi di barili di petrolio e 4,4 trilioni di piedi cubi di gas disponibile per l’estrazione.
In merito alle concessioni, però, l’amministrazione Biden ritiene che non vi siano alternative: il presidente negli scorsi mesi aveva infatti interrotto temporaneamente l’emissione dei permessi di trivellazione di petrolio e gas nelle terre di proprietà pubblica e nel territorio oceanico americano. Tuttavia, alcuni stati americani produttori di petrolio hanno successivamente intentato e vinto una causa volta a ripristinare le vendite, in quanto il governo non aveva adottato le misure necessarie per sospendere i nuovi contratti di locazione. Proprio questa battuta d’arresto in tribunale, dunque, secondo l’amministrazione del presidente Usa avrebbe costretto quest’ultima a rilasciare tali concessioni.
Questa posizione però non è stata condivisa da alcuni gruppi ambientalisti, che a fine agosto hanno citato in giudizio l’amministrazione cercando di fermare il rilascio delle concessioni. All’intero di tale pendente causa, tra l’altro, si legge che le concessioni sono state approvate «facendo affidamento su analisi ambientali arbitrarie in violazione della legge nazionale sulla politica ambientale (NEPA) e della legge sulla procedura amministrativa (APA)».
Oltre a ciò, dopo che la notizia della imminente asta è in questi giorni rimbalzata sulle pagine dei giornali, 267 organizzazioni di vario tipo hanno scritto una lettera al presidente Biden chiedendo nuovamente di non rilasciare tali concessioni in quanto «la sua amministrazione ha l’autorità per farlo». Tuttavia, a quanto pare tali richieste non sono state prese in considerazione dall’amministrazione che, ricordano i firmatari della lettera, ha «in maniera oltraggiosa concluso che tutto ciò non contribuirà al cambiamento climatico» nonostante si tratti della «più grande vendita di leasing offshore nella storia degli Stati Uniti».
[di Raffaele De Luca]
Svizzera: dal primo luglio le coppie omosessuali potranno sposarsi
In Svizzera, le coppie dello stesso sesso potranno sposarsi a partire dal prossimo primo luglio: lo ha annunciato nella giornata di oggi il governo del Paese. Ciò fa seguito ad un referendum, tenutosi nel mese di settembre, in cui i cittadini hanno votato a favore del matrimonio per le coppie omosessuali. Inoltre, a partire dal mese di gennaio saranno anche riconosciuti i matrimoni delle coppie del medesimo sesso che si sono sposate all’estero.
Il biscione non incanta più: chiudono Tg4 e Studio Aperto
“Corri a casa in tutta fretta, c’è un Biscione che ti aspetta”. Sono passati 40 anni più o meno esatti da quando Canale 5, nel settembre 1980, veniva letteralmente catapultato nelle case e nei salotti degli italiani. Il grande sbarco di Mediaset, lo sbarco di Anzio delle tv private all’arrembaggio del monopolio Rai, l’alba della geologica era del Cavaliere e, appunto, la fine del monarcato di Viale Mazzini sui televisori e sui palinsesti del Belpaese.
Quarant’anni dopo, un battito di ciglia nel macinare lento della cronaca che si fa storia, il Biscione è rimasto imprigionato negli infernali meccanismi delle aziende del terzo millennio: “razionalizzazione” e “riorganizzazione”, fa sapere l’Azienda, sono i motivi per cui Studio Aperto e Tg4, due portaerei dell’informazione berlusconiana da otto lustri, sono stati cancellati col classico tratto di penna. Confluiranno, dicono dai piani alti, nel TgCom, in una specie di riallineamento delle testate e dell’offerta giornalistica che ai più, per non dire a tutti, pare invece un poderoso ripiegamento. Una ritirata truccata e imbellettata da ripartenza, perché tutte le ripartenze di questo tipo, nell’editoria italiana, fanno sempre rima con tagli: 45 prepensionamenti volontari, fa più chic chiamarli “scivoli”, e 15 assunzioni di giovani giornalisti che proveranno sulla loro pelle l’ebbrezza dei contratti proposti ormai da diversi anni ai nuovi assunti in redazione: poco più che precariati legalizzati, se un tempo c’erano le vacche grasse, o forse proprio per quello, adesso certamente a scegliere di fare il giornalista si muore di fame.
Fa notizia, allora, la chiusura e il sipario sul Tg4 che fu, all’epoca di Emilio Fede, un tempio del berlusconismo in salsa giornalistica: una specie di chiesa laica dove il conduttore, in fuga dalla Rai come altri suoi colleghi illustri, quando i dollari del Cavaliere avevano già molto più fascino della ribalta di mamma Rai, celebrava tutti i giorni, più volte al giorno, il Verbo del Biscione. Col senno di poi, con l’agiografico modo di fare giornalismo televisivo al giorno d’oggi, ripiegati sui potenti e sulle veline del piano di sopra, fa quasi sorridere, il buon Emilio. Un antesignano, verrebbe da dire, dello tsunami che ha travolto e spazzato via la credibilità dei media italiani negli ultimi anni, partendo però appunto da lontano. Anche Studio Aperto, in questo, ha la sua epica da raccontare, nella quale però ci finirono anche cose di qualità, persino ben fatte, come per esempio la copertura per la Guerra del Golfo: la prima, l’originale, quella che non si scorda più.
Al di là delle versioni ufficiali di Mediaset, allora, due teste illustri che ruzzolano sul patibolo della progressiva e per nulla magnifica crisi della televisione: è notizia di pochi giorni fa il fatto che ormai un italiano su due non la guarda, non la accende più. Non ci crede più, insomma. Certamente Tg4 e Studio Aperto hanno fatto di tutto per aumentare questa consapevolezza degli italiani, alla fine la mucca offre il latte che ha e questo latte alla lunga ha intossicato i telespettatori. Perfino quelli che erano inossidabili innamorati del Cavaliere. La tv, soprattutto, ha perso la guerra col web: una guerra impari, a dirla tutta. Costi, tempi, diffusione: non poteva che finire così, per il televisore che assomiglia sempre di più ad una scatola vintage del secolo scorso, anche nelle versioni più recenti, future e tecnologicamente accattivanti.
C’è anche una specie di nemesi, in verità, in questo mesto ripiegamento di due pezzi da novanta di Mediaset. C’è, come un karma che non perdona e non dimentica, che proprio chi della reclame ha fatto una ragione di vita, e che sulla reclame ha costruito le proprie fortune, ha dovuto tirare giù la saracinesca per mancanza di reclame, diciamo. Anche perché, evidentemente, è rimasto stritolato nel meccanismo infernale di un’informazione che poteva esistere e produrre contenuti solo se si vendevano pannolini, gomme da masticare e automobili. I due tiggì Mediaset vittime della crisi del contenitore, la televisione, ma anche e soprattutto dei suoi contenuti. Perché il libero mercato dell’etere, come lo avevano raccontato a Mediaset, la possibilità di frantumare il monopolio informativo e di intrattenimento Rai, era certamente una bella idea e un orizzonte magnifico. Ma non è stato progressivo, purtroppo. I conti sono balzati in alto, certo, a cifre vertiginose. L’epopea berlusconiana è stata piastrellata di oro e argento, ma è peggiorata sempre di più, inesorabilmente, l’offerta dei contenuti. La libertà di dire e raccontare è durata ben poco, anche le migliori professionalità si sono accodate per prendere il gettone. Così l’informazione Mediaset ha smesso mano a mano di attirare ascoltatori e il Biscione è finito, malinconicamente, dentro alla sua cesta dei ricordi. Un altro bel passo verso l’anno zero dei media italiani? Forse. Certamente un monito forte e chiaro verso i nuovi Biscioni, e verso gli attuali incantatori di folle, ossia il gentile pubblico pagante.
[di Salvatore Maria Righi]










