venerdì 14 Novembre 2025
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Il ruolo della tecnologia nella transizione ecologica (risorsa o problema?)

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Ormai sono passati mesi da che si è iniziato a parlare delle molteplici possibilità garantite all’Italia dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Dalle prime bozze alla situazione attuale, Governo e giornali non hanno mai mancato di reclamizzarne le evoluzioni strategiche delle tanto attese riforme, evoluzioni che però non hanno mai stravolto lo spirito di base del progetto, con l’establishment italiano che ha garantito a più riprese che buona parte dei finanziamenti verranno incanalati nella digitalizzazione e nella transizione ecologica.

Complessivamente questi propositi sono abbracciati con enfasi ed entusiasmo, tuttavia una fascia minoritaria di soggetti solleva delle perplessità, chiedendosi se tali promesse possano o meno essere accompagnate da una sincera buona fede. Uno dei quesiti rimasti aperti è se la corsa allo sviluppo informatico sia compatibile con un futuro ambientalmente sano o se la propaganda inscenata sia solamente l’ennesima iterazione di “greenwashing” a cui il mondo della finanza ci sta sottoponendo. Un’incognita legittima, ma a cui è molto difficile, se non impossibile, fornire una risposta puntuale.

Perché la digitalizzazione dovrebbe fare danni?

Nel gennaio del 2021 è esplosa la mania dei non-fungible token (NFT), criptovalute collezionabili che sono state al centro di un moto speculativo di tale vigore da far notizia in tutto il mondo. Mentre i più si chiedevano cosa potesse giustificare un simile successo, una piccola fetta di autori e critici condivideva perplessità sulla sostenibilità ambientale di un simile Mercato. Basandosi perlopiù sul blockchain, il commercio degli NFT fa infatti affidamento su di una gestione decentralizzata che è notoriamente energivora, dettaglio che certamente getta delle ombre sul fatto che un simile consumo di risorse possa essere eticamente giustificabile, nel grande schema delle cose. D’altro canto, è facile obiettare che la transizione digitale di un’opera artistica sia comunque infinitamente meno dispendiosa delle dinamiche commerciali che affliggono un corrispettivo fisico, se si prendono in considerazione gli impatti della produzione e del trasporto.

I NFT possono essere opere d’arte, figurine digitali, illustrazioni e molto altro.

I dubbi etici sviluppatosi attorno agli NFT ci offrono uno spaccato su un dilemma che può essere esteso a ogni singolo ramo della sfera tecnologica. Prendiamo un esempio vicino all’esperienza di tutti: le e-mail. Inviare una e-mail danneggia l’ambiente molto meno di quanto non farebbe l’invio di una missiva cartacea e immette nell’ambiente solamente 4 grammi di CO2 equivalente (CO2e), ovvero poco meno del 2% della sua omologa materiale. Su un piano puramente teorico, la convenienza è evidente, tuttavia basta allegare un file o un’immagine ed ecco che il vantaggio si ridimensiona immediatamente. A questo va quindi sommato il fatto che l’immediatezza e la gratuità della posta digitale ci spinge ad abusare del mezzo inviando contenuti che altrimenti ometteremmo, fomentando un giro di consumo che si ingigantisce ogni anno che passa. Per avere un metro di paragone, si consideri che tra spam, pubblicità, newsletter e comunicazioni varie, un normale impiegato riceve ogni giorno mediamente 121 e-mail e la tendenza è in costante crescita.

Il The Shift Project francese ha stimato nel 2019 che internet e i sistemi a esso associati siano responsabili del 3,7% delle emissioni di gas serra globali e che spurghino nell’aria più o meno il quantitativo di CO2 generato dall’intero settore aeronautico. Detto questo, la stessa think tank ha anche stimato che le cifre stiano lievitando vertiginosamente e che nel 2025 la quantità di carbonio generata dalla filiera internettiana sarà più che raddoppiata, parzialmente anche per colpa dell’immenso traffico derivante dalla consultazione dei video. Per la cronaca, la sola pornografia occupa il 16% dell’intero flusso dati con un totale di emissioni annuo che è comparabile a quello del Belgio.

Tuttavia i calcoli sono inconsistenti

A questo punto, il fulcro della questione è determinare se le emissioni causate dal digitale siano inferiori, uguali o addirittura maggiori di quelle che si genererebbero con un consumo di altra natura. Sfortunatamente, per sua stessa natura, il calcolo non potrà mai essere univoco e costante. A complicare questo genere di riflessioni giunge infatti una diffusa inabilità nel trovare un metro comune con cui definire gli estremi da prendere in considerazione.

Calcolare quante emissioni siano generate dalla stampa di un libro è relativamente semplice, ma come bisogna comportarsi con un e-book? Si calcola solamente il dispendio energetico del file o si prendono in considerazione anche i costi ambientali della produzione del tablet su cui lo si leggerà? Sembra una banalità, tuttavia proprio su questo genere di banalità si poggia un’intera galassia di scontri accademici e aziendali, una galassia in cui i ricercatori fanno metaforicamente a botte per imporre il proprio punto di vista.

C’è dunque la questione di quanto un inquinamento iniziale possa essere giustificato da un eventuale risparmio futuro. Spesso non si tratta di cose da poco: l’addestramento del generatore di testi GPT-3 di OpenAI, azienda fondata da Elon Musk, ha causato una mole di emissioni comparabile a quella che potrebbe essere generata da un ipotetico viaggio automobilistico dalla Terra alla Luna, andata e ritorno, mentre Emma Strubell arriva a stimare che i meccanismi di machine learning possano immettere nell’ambiente quantità di carbonio comparabile a quella generata da cinque autovetture durante il loro intero ciclo vita.

Il digitale “buono”

L’assegnazione dei Premi Nobel ha preso piede perché Alfred Nobel, inventore della dinamite, non voleva che la storia lo ricordasse per aver creato «esplosivi militari» adoperati per causare morte e dolore. Per mondare il suo retaggio, l’uomo si è assicurato di imporre nelle sue ultime volontà che il 94% dei beni da lui accumulati venissero usati per premiare i traguardi intellettuali e accademici dell’umanità. Eppure, a ben vendere, la dinamite non si sarebbe meritata una pubblicità tanto opprimente, di per sé è pura tecnica. Nobel l’aveva progettata perché semplificasse la vita agli scavatori, ogni eventuale abuso è figlio di un “fraintendimento” della sua funzione originaria.

Anche la digitalizzazione è, in senso assoluto, priva di un valore morale intrinseco: non è né buona, né cattiva. Immettere nell’atmosfera una quantità di emissioni comparabile a una piccola flotta automobilistica potrebbe anche essere conveniente, se quello che ne viene fuori è in grado di garantire un risultato che vada a compensare e valorizzare quel primissimo sacrificio. Le intelligenze artificiali, per esempio, hanno già permesso al Regno Unito di notare gli scarichi abusivi di alcune aziende poco rette e le potenzialità di questo genere di strumento sono pressoché illimitate: monitoraggio del clima e dell’ambiente, minimizzazione degli sprechi, ottimizzazione della gestione di traffico ed energia, perfezionamento della filiera alimentare. Non si tratta quindi di definire se la digitalizzazione possa o meno assisterci in maniera ecosostenibile, quanto il decifrare se l’approccio tech del prossimo futuro possa essere adeguato allo stile di vita sostenibile che rincorriamo. Le prospettive non sembrano rosee.

Il “come” fa la differenza

Le macchine possono sicuramente ottimizzare quei processi utili ad attenuare le criticità del nostro stile di vita, tuttavia molte di queste criticità sono state fomentate più dall’ignavia che dall’incapacità di percepirne l’importanza. Non si può certo dire che l’emergenza climatica che sta preoccupando i Governi di tutto il mondo si sia abbattuta su di noi in maniera imprevista e ineluttabile; quelle stesse istituzioni che ora corrono ai ripari hanno lamentato per svariati decenni la necessità di imporre politiche ecologiche più sostenibili, ma per decenni si sono anche assicurate di non fare nulla di significativo, stretti in uno stallo alla messicana condizionato da fobie di natura finanziaria. Il problema non è certamente l’assenza di consapevolezza, quanto l’assenza della volontà di attuare dei cambiamenti.

Il riflesso di questa tendenza passiva viene percepito ancora oggi, con il risultato che quando si discute dei grandi investimenti sulle IA si finisce con il far riferimento al mondo militare, alla finanza e agli interessi commerciali delle Big Tech. Tutto il resto sembra posto a margine di interessi che valicano l’urgenza formalmente denunciata. Nell’implausibile caso si riesca a sovvertire le aspettative e si ribaltassero le priorità in campo, rimane comunque il fatto che la tecnologia non rappresenti una soluzione magicamente capace di risolvere ogni male. Lo abbiamo visto con Immuni, app di tracciamento pandemico nata con i migliori auspici che si è immediatamente scontrata con un coordinamento zoppicante e con una scarsezza di risorse umane. Un panorama omologo lo si potrebbe immaginare in relazione al mercato del lavoro, all’amministrazione pubblica o anche alla sanità: che si usi pure un software per ottimizzare la dimensione gestionale delle realtà manageriali, ma non sarà un programma a risolvere le insidie della gig economy, dell’incomunicabilità tra regioni o della gestione poco attenta del Nomenclatore Tariffario.

Guidare il futuro e l’approccio alla rete

Perché la digitalizzazione possa servire a migliorare le nostre condizioni di vita e rispettare l’ambiente è necessario che si stabilisca una strategia equilibrata, ovvero che non si indulga in capricci barocchi e distruttivi per il puro fine dell’autoappagamento. Si sta dunque facendo strada il concetto di “parsimonia digitale”, ovvero di una dimensione auspicabile in cui il consumo sia globalmente sottoposto a un’analisi critica e consapevole dei mezzi che abbiamo a disposizione. Ora come ora, inutile negarlo, siamo molto lontani da un simile traguardo. Un esempio: un SMS genera 0,014g di CO2e mentre un messaggio puramente testuale inviato tramite WhatsApp inquina più di 200 volte tanto, eppure per comodità, immediatezza e dinamica sociale finiamo ugualmente con il favorire le app di messaggistica ad alternative meno deleterie. Di sprechi simili è costellato l’intero settore tech, settore che, avendo perlopiù mire imprenditoriali, fa il possibile per convincere le persone che il consumo bulimico di un prodotto sia propedeutico al loro stesso benessere.

Se vogliamo che il PNRR faccia effettivamente la differenza, bisogna esigere che i miglioramenti ventilati dal Governo italiano non si affidino esclusivamente a un pensiero magico che assume fattezze digitali, ma che i cambiamenti siano proposti in chiave più strutturata e radicale. Non basta finanziare e liberalizzare la ricerca tech, si deve formalmente prendere atto del fatto che gli equilibri di potere del mondo globalizzato sono ormai variati, così come sono variati anche i mezzi a disposizione della popolazione e le disparità tra ceti e nazioni. Una digitalizzazione priva di guida finirà solamente con l’enfatizzare le ingiustizie correnti, favorendo i Paesi ricchi a discapito di quelli che, pur non godendosi i vantaggi delle intelligenze artificiali, dovranno comunque subire le conseguenze ambientali legate alle crescenti emissioni. Qualcosa in tal merito si sta facendo attraverso il Digital Markets Act e il Digital Service Act, cornici normative con cui l’UE vorrebbe regolamentare il “far west” della Rete e che irritano terribilmente gli Stati Uniti, i quali ospitano buona parte delle Big Tech che verrebbero colpite. A questo punto non resta che capire se l’Europa sia pronta a imporsi o se finirà ad assecondare le impostazioni di matrice americana.

[di Walter Ferri]

Slovenia: ministro Sanità annuncia stop a vaccino J&J dopo morte di una 20enne

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Il ministro della Sanità della Slovenia, Janez Poklukar, ha annunciato che la sua volontà è quella di interrompere la somministrazione del vaccino Johnson & Johnson dopo che una 20enne è morta per una trombosi da esso indotta. La correlazione tra il decesso e la somministrazione del vaccino è stata infatti confermata da un comitato di esperti che, si legge sul sito del governo, all’unanimità si è schierato a favore dell’esistenza di un «legame diretto tra la vaccinazione e l’insorgenza della sindrome». La sospensione era già stata attuata in via precauzionale dopo la morte a settembre della donna ed ora, ha spiegato Polkulkar, «il protocollo di vaccinazione provvisorio attualmente valido con Johnson&Johnson diventerà permanente».

I polli del supermercato sono ancora pieni di antibiotici

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Una pratica comune all’interno degli allevamenti intensivi consiste nel somministrare antibiotici agli animali: secondo un recente rapporto dell’Ema (Agenzia europea per i medicinali), infatti, nel 2020 circa 689 tonnellate di antibiotici venduti in Italia sono stati destinati agli «animali da produzione alimentare». Tra questi vi sono anche i polli: nella nostra nazione sono più di 500 milioni quelli allevati ogni anno e come testimoniato dall’associazione Essere Animali, che ha effettuato un’indagine sotto copertura in un allevamento di polli Aia, gli animali ricevono abitualmente antibiotici tramite il mangime e l’acqua e la maggior parte di essi non viene somministrata per curare le malattie bensì per prevenirle. Non si tratta però certamente di un caso singolo: negli allevamenti intensivi la somministrazione dei medicinali è attualmente praticamente indispensabile in quanto gli animali possono facilmente sviluppare malattie.

Come sottolineato da Essere Animali, infatti, i polli vengono normalmente allevati in grandi numeri ed in condizioni igienico-sanitarie pericolose. Generalmente però i polli d’allevamento rischiano fortemente di ammalarsi non solo per questo motivo ma anche a causa delle loro caratteristiche. In tal senso, gran parte di quelli utilizzati per produrre carne sono “broiler”, un tipo di pollo che deriva da incroci di varie razze e che è in grado di fornire una risposta migliore alla domanda di carne crescendo velocemente (normalmente il suo ciclo di vita varia dai 40 ai 60 giorni) ed avendo un petto molto di dimensioni enormi, spropositate rispetto a quelle degli arti. Tralasciando il fatto che per questo tende ad avere problemi allo scheletro e dunque a soffrire, bisogna ricordare che il broiler è tendenzialmente debole in quanto ha delle difese immunitarie basse a causa di un patrimonio genetico limitato.

È dunque facile comprendere perché, come detto precedentemente, è al momento indispensabile somministrare gli antibiotici a questi animali: non facendolo la possibilità che essi si possano ammalare sarebbe molto elevata. Tale pratica però rappresenta la principale causa del fenomeno dell’antibiotico resistenza: come sottolineato all’interno di un documento dell’Associazione medici per l’ambiente – Isde Italia, l’elevato uso di antibiotici negli allevamenti contribuisce ad essa, che è trasmissibile all’uomo. Abbiamo quindi a che fare con un grave problema per la salute globale: l’antibiotico resistenza, infatti, è responsabile di circa 33.000 decessi all’anno nella sola Unione europea e si stima che costi all’UE 1,5 miliardi di euro all’anno. Con ogni probabilità, dunque, è anche per tale motivo che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha recentemente lanciato un appello chiedendo di smettere di somministrare gli antibiotici agli animali sani e così «prevenire la diffusione della resistenza ad essi».

[di Raffaele De Luca]

Firenze, Gkn: azienda riapre procedura licenziamenti

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«Dopo aver ritardato l’avvio della procedura di licenziamento collettivo fino alla fine di novembre, siamo costretti a iniziare la procedura legale»: è quanto comunicato dall’azienda Gkn Driveline Firenze ai dipendenti della fabbrica di Campi Bisenzio tramite una raccomandata datata 26 novembre ed arrivata ieri ai lavoratori. In tal senso, secondo quanto affermato dal Collettivo di Fabbrica dello stabilimento, la procedura di licenziamento nei confronti degli oltre 400 dipendenti dovrebbe ripartire nella giornata di oggi.

Litio dalla geotermia per batterie più sostenibili, al via primo impianto

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L’estrazione del litio è a un passo dalla sostenibilità. Si fa sempre più concreta, infatti, la possibilità di ricavare questo ormai indispensabile metallo dalla cosiddetta salamoia geotermica, una soluzione di fluidi ipersalini generalmente impiegata nel ciclo di produzione di energia dal calore sotterraneo. Il primo impianto commerciale che sfrutterà questo processo partirà proprio in Europa, nell’Alta Valle del Reno, grazie al progetto Zero Carbon Lithium della società australiana Vulcan Energy Resources. L’obiettivo sarà quello di fornire idrossido di litio al produttore di veicoli Stellantis con cui è stato firmato un accordo quinquennale vincolante. A beneficiare della rivoluzione saranno tre futuri stabilimenti situati, rispettivamente, a Termoli, in Italia, a Kaiserslautern, in Germania, e a Douvrin, in Francia.

L’idrossido di litio – grazie agli ioni, atomi dotati di carica elettrica derivanti dalla sua dissociazione – è ad oggi materia prima essenziale per la produzione di batterie ricaricabili. La transizione ecologica, specie del settore dei trasporti, ha portato ad un’impennata nella domanda del metallo che lo costituisce, il litio per l’appunto. Secondo le stime della società NS Energy, la sua produzione mondiale, nel 2019, è stata di 77.000 tonnellate e si ritiene possa arrivare a 120.000 nel 2024. Motivo per cui, alla luce delle attuali modalità di estrazione, è stato messo da tempo l’accento sulla dubbia sostenibilità dell’intero ciclo di vita delle batterie. Ad oggi, il metallo della transizione è infatti ricavato perlopiù attraverso due fonti distinte: acqua salata o roccia. Nel primo caso, si sfrutta un processo di evaporazione forzata che richiede ingenti quantitativi di acqua e consumo di suolo. Nel secondo, invece, si tratta di aprire delle vere e proprie miniere a cielo aperto con impatti sul territorio e l’atmosfera, nonché sociali, tutt’altro che trascurabili. Ma non finisce qui. Il litio così estratto, infatti, va poi raffinato. Allo scopo, sono necessari impianti di lavorazione basati sui combustibili fossili che, di fatto, vanificano ogni taglio delle emissioni derivante dal ricorso all’energia elettrica. Per questo, quindi, si parla di “paradosso della transizione”. Non a caso l’Europa, anche a causa di un approvvigionamento instabile in rapporto alla crescente domanda, ha inserito il litio nelle Critical raw materials, materie prime critiche per cui bisogna muoversi, e in fretta, verso una produzione totalmente sostenibile.

Il progetto della Vulcan potrebbe quindi cambiare le carte in tavola. Il processo che sfrutterà, tuttavia, non è nuovo. Recentemente però è stato affinato – come ha evidenziato un recente studio – fino a far sì che possa generare un idrossido litio di alta qualità. Finora, infatti, il limite maggiore, che ha favorito le modalità di estrazione più impattanti, è che solo queste permettevano di ottenere un prodotto qualitativamente elevato. Nel dettaglio, il progetto che avrà sede fisica in Germania prevede che un fluido ricco in litio proveniente dal sottosuolo venga fatto passare attraverso delle colonne di estrazione in cui il metallo di interesse precipiterà e potrà quindi essere raccolto. Il tutto sfruttando calore ed energie rinnovabili che, se in eccesso, potranno essere reimmesse nella rete. Di conseguenza, l’impronta di carbonio potrebbe risultare persino negativa. Alla luce quindi di un pressoché totale azzeramento delle emissioni di CO2 e un decisivo taglio dei costi produttivi, la strada si conferma quella giusta. Conflitti geopolitici permettendo. Ma questo è un altro discorso.

[di Simone Valeri]

Blitz anti camorra nel Napoletano: 19 arresti

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Nella giornata di oggi i carabinieri del Gruppo di Torre Annunziata hanno dato esecuzione ad un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip del Tribunale di Napoli – su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia – nei confronti di 19 individui. Questi ultimi, ritenuti appartenenti ai contrapposti clan camorristici “Gionta” e “IV Sistema” operanti nel territorio di Torre Annunziata, sono accusati a vario titolo di: associazione mafiosa, estorsione aggravata dal metodo mafioso, porto e detenzione di armi da sparo.

Una piattaforma analizza ciò che scrivi sui vaccini

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Il grande occhio dei social osserva e registra per poi vendere quanto ha scoperto sotto forma di comodi pacchetti dati da distribuire ad aziende, privati e Governi. Non sorprende pertanto che lo European Union’s Health Programme abbia deciso di avvantaggiarsi di un simile escamotage per portare avanti un progetto che monitora «la fiducia nei confronti dei vaccini su web e social media».

Stiamo parlando dell’European Joint Action on Vaccination (EUJAV) e, più nello specifico, dell’8 work package (8WP), uno strumento coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e dall’Istituto Finlandese per la Salute e il Welfare (THL) che, tra le altre, raccoglie le tendenze di Twitter, Reddit, Wikipedia e Google per offrire mezzi inediti con cui impattare «sulle attività di sorveglianza dei programmi vaccinali, e in particolare sulle attività di comunicazione istituzionale con il pubblico». Volendo essere provocatori, lo strumento è stato pensato per attenuare la portata del potenziale “colpo di Stato cognitivo” di coloro che discutono dei vaccini in una prospettiva che non sia allineata a quella della narrazione ufficialmente riconosciuta, cosa che da alcuni è stata letta come una forma di propaganda in salsa Big Data.

Una preoccupazione legittima. Nonostante buona parte del progetto si leghi a dati aggregati poco invasivi della privacy, la piattaforma si prefigge anche lo scopo di identificare i «“nodi” cruciali delle comunità coinvolte» e sorvegliare gli «utenti più coinvolti nella diffusione di disinformazione», elementi che danno a intendere ci si stia preparando a una vera e propria caccia alle streghe. A risultare qui esposti sono gli influencer di Twitter, azienda che si è dimostrata pronta a mettere sul mercato i profili dei propri utenti a patto che gli acquirenti selezionino delle frasi chiave di riferimento, in questo caso frasi inerenti ai vaccini. Il documento ufficiale non spiega con esattezza come la EUJAV abbia intenzione di interfacciarsi con i “nodi” no-vax, cosa che ha prevedibilmente portato la Rete e gli osservatori vari a prospettarsi una situazione d’allarme. Per comprendere appieno le dinamiche del contesto, abbiamo provveduto a contattare fonti interne al progetto, le quali ci hanno assicurato che non siano previste alcun tipo di «azioni correttive», ma che ci sia solamente l’intenzione di comprendere appieno i temi di cui si parla «per poi cercare di costruire dei messaggi di comunicazione che possano chiarire quegli aspetti che non sono chiari».

L’intenzione dell’ISS, del THL e dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, il quale ha collaborato al progetto, è quella di mettere in campo un mezzo analitico con cui Governi e personaggi pubblici possono tarare la propria comunicazione per aprirsi al confronto, consapevoli dei dubbi e delle perplessità che affliggono le società. «Ci sono persone che semplicemente hanno paura, andrebbero date loro delle risposte che non hanno», ribadisce la fonte. Il lecito dubbio è che un simile approccio sia ormai irrealizzabile. Tra medici da salottino televisivo che si rifiutano di parlare con chi reputano ignorante e Senatori che invitano ad adottare «modalità meno democratiche» con cui gestire la libertà di parola, i toni sono quanto mai esacerbati. Se ciò non bastasse, le Amministrazioni non sembrano affatto intenzionate a cambiare rotta, anzi premono su strategie coercitive o sul mettere alla gogna pubblica coloro che rientrano sotto l’ombrello dei no-vax e dei no-Green Pass.

Proprio per questo motivo, lo strumento – sviluppato esclusivamente in-house e attraverso fondi della Commissione Europea – rischia di naufragare ancor prima del suo debutto ufficiale. La piattaforma verrà infatti resa pubblica a breve, tuttavia non è scontato che i Paesi Membri, ormai presi da crociate portate avanti a colpi di lockdown, decidano effettivamente di utilizzarla, cosa che si tradurrebbe quasi certamente in un colpo fatale ai finanziamenti dell’opera.

[di Walter Ferri]

Livorno: incendio in raffineria Eni

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In queste ore si è verificato un incendio all’interno della raffineria Eni di Stagno, in provincia di Livorno. A riportare la notizia è il quotidiano locale LivornoToday, il quale specifica che l’incendio è divampato nel primo pomeriggio di oggi in seguito ad una esplosione. Una colonna di fumo nero si è dunque sollevata intorno alla raffineria, motivo per cui la Protezione civile del Comune, a livello precauzionale, ha invitato i cittadini a tenere le finestre chiuse. Sul posto si stanno recando i vigili del fuoco, che hanno ricevuto diverse segnalazioni, mentre sono già arrivate due ambulanze. Al momento, però, non è possibile sapere se vi siano feriti.

Stop a estrazione dell’oro e narcotraffico: la protesta degli indigeni colombiani

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Da più di un mese centinaia di persone, riconducibili a dieci popoli indigeni della Colombia, resistono sotto la pioggia battente di Bogotà, con le temperature che la sera possono sfiorare i meno sette gradi. Si tratta per la maggior parte di individui appartenenti al gruppo embera katío, costretti ad abbandonare la propria casa e il proprio territorio in seguito alle ripetute violenze per via del narcotraffico e alle estrazioni illecite di oro. Sono accampati qui, nel parco Enrique Olaya Herrera, con alloggi di fortuna situati nelle vicinanze del congresso della repubblica e del palazzo presidenziale. Il 19 ottobre la Personería di Bogotá, un ufficio che si occupa dei diritti dei cittadini, ha detto che nell’accampamento ci sarebbero 400 persone, 70% delle quali donne incinte e bambini. Alcuni sostengono che un altro gruppo di 1.460 persone sarebbe stanziato in un parco in periferia. Altri, come Ati Quigua, consigliera comunale di Bogotá con il Movimento alternativo indigeno e sociale, ha scritto sui social che ci sarebbero in realtà 1300 indigeni.

Il territorio degli embera katío, che ospita circa 50.000 indigeni, comprende alcune zone molto selvagge, dove scorrono diversi fiumi e la quantità di oro presente nel sottosuolo fa gola a multinazionali e non. La regione dell’Alto Andágueda, ad esempio, è una delle più incontaminate e ha subito per cinque secoli continue estrazioni di oro, nascosto all’interno delle sue montagne. “Negli ultimi anni il controllo delle miniere ha creato uno scontro tra le multinazionali del settore, le comunità e i minatori locali. Queste battaglie hanno ignorato i diritti ancestrali sulle terre delle comunità indigene”, si legge sui giornali locali.

Basti pensare che negli anni ’80 tredicimila ettari (su un totale di cinquantamila) erano nelle mani di terzi e altri ventimila erano in attesa di concessioni. Fenomeno a cui si sono aggiunte la violenza dei gruppi armati, i bombardamenti della polizia locale e la piaga del narcotraffico. Tutti elementi che hanno contribuito inevitabilmente a spingere migliaia di profughi a scappare dalle proprie terre, abbandonandole e lasciandole in balìa di alcuni gruppi addetti al narcotraffico e all’estrazione mineraria illegale. I cartelli della droga, infatti, preferiscono inserirsi direttamente nei territori e gestire l’intera filiera, dal principio.

Ma gli indigeni non riescono ad ottenere giustizia, neppure davanti ad un tribunale. Nel 2013 un giudice ha imposto all’Agencia nacional de minería di sospendere i contratti di concessione già in corso e negare quelli richiesti da imprese minerarie non appartenenti alla comunità in questione. Dopo la sentenza, però, non è accaduto niente di concreto e il problema continua a persistere, nonostante l’anno successivo anche il tribunale superiore di Antioquia avesse stabilito la restituzione di alcuni territori strappati alle comunità indigene. In totale, negli anni, sono state più di cinquanta le ingiunzioni ai danni di entità statali, con il fine di garantire il ritorno a casa degli sfollati e l’accesso a servizi necessari quali acqua potabile, istruzione, cibo, salute, nell’arco di poco. “Ma dopo quasi tre anni sono poche le istituzioni che hanno eseguito la sentenza”, ribadiscono le autorità locali. E a chi ritorna non è concessa alcuna garanzia. Sei bambini, tornati a casa nel 2016 insieme ad altre 300 persone, sono morti per malattie come l’influenza.

Secondo Global Witness, in Colombia ci sono quattro morti ogni settimana fra chi difende il proprio territorio. L’anno scorso sono morte 227 persone, e 212 nel 2019. È il paese più pericoloso al mondo in cui battersi per l’ambiente e allo stesso tempo quello che ospita la metà delle specie animali e vegetali esistenti. Ma difendere questa biodiversità significa ancora firmare la propria condanna.

[di Gloria Ferrari]

I governi autoritari usano l’Interpol come mezzo di persecuzione politica

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L'Interpol, Organizzazione Internazionale della Polizia Criminale, potrebbe essere suo malgrado uno strumento nelle mani dei governi autoritari, i quali ne sfruttano le falle nel sistema per arrestare i dissidenti politici. Tramite il meccanismo degli avvisi rossi e di accuse fittizie vengono emanati mandati d'arresto internazionali nei confronti di target specifici, i quali trascorrono anche diversi mesi in carcere prima che venga alla luce l'infondatezza delle accuse (se mai succede). Dopo l'elezione della controversa figura del generale al Raisi -sospettato di essere parte della tortura di ...

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