domenica 21 Settembre 2025
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Germania, probabile fine dell’emergenza Coronavirus dal 25 novembre

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Il ministro federale della sanità Jens Spahn si è detto favorevole a una graduale eliminazione dello stato di emergenza in Germania: le alte percentuali di vaccinazione raggiunte hanno al momento eliminato il sovraccarico del sistema sanitario. Casi di infezioni gravi si sono verificati solamente in persone non vaccinate. Il 25 novembre rappresenterebbe quindi una probabile data di fine emergenza, iniziata il 28 marzo 2020. Le misure di sicurezza di base (distanziamento e mascherine) saranno mantenute. La decisione finale spetta al Parlamento federale, che a fine agosto ha esteso l’emergenza per altri tre mesi. Attualmente il numero dei casi è in salita, soprattutto in zone come il sudest della Germania, dove i tassi di vaccinazione sono più bassi.

Ecuador, Lasso dichiara stato di emergenza per i crimini legati alla droga

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Il presidente dell’Ecuador Guillermo Lasso ha dichiarato lo stato di emergenza in seguito all’alto numero di crimini legati al traffico e al consumo di droga. In una diretta televisiva nazionale diffusa lunedì sera, Lasso ha affermato che le strade di tutta la nazione saranno pattugliate dall’esercito e dalla polizia per garantire la sicurezza. L’Ecuador è passato dall’essere uno stato di traffico di stupefacenti a uno di consumo, fattore che, secondo Lasso, ha portato all’aumento di omicidi, furti e rapimenti. Recentemente, l’Ecuador ha anche affrontato una grave crisi carceraria, con 118 detenuti morti nel solo carcere di Guayaquil durante una rivolta lo scorso settembre.

Il piano degli USA per la Siria è semplicemente continuare a destabilizzarla

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Il segretario di Stato statunitense Antony Blinken ha affermato, durante una recente conferenza stampa, che non vi è alcuna intenzione da parte degli Stati Uniti di normalizzare i rapporti con la Siria ed il suo presidente Bashar al-Assad, fino a che non vi siano degli «evidenti progressi in direzione di una soluzione politica». Non si specifica quale sia la “soluzione politica” richiesta, ma tutto lascia intendere che secondo la casa bianca l’obiettivo sia sempre lo stesso che dieci anni di guerra non sono riusciti ad ottenere: la cacciata di Al-Assad. Nessuna intenzione di riconoscere il governo come legittimo e nessun piano per la cessazione delle controverse operazioni “anti-terrorismo” dietro le quali, secondo diverse fonti, si nasconde lo sfruttamento delle risorse petrolifere del paese.

Si tratta di un momento complesso per gli equilibri geopolitici statunitensi, in quanto diversi tra i loro alleati nei Paesi arabi stanno riaprendo la via del dialogo e della cooperazione con al-Assad, dopo l’isolamento perdurato durante gli anni di conflitto. Mentre a New York si svolgeva l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il ministro degli esteri egiziano incontrava quello siriano per la prima volta in dieci anni. A fine settembre la Giordania, storica alleata degli USA, ha riaperto la frontiera con la Siria per supportarne la ripresa economica. Accordi economici di futura cooperazione sono stati siglati tra lo Stato siriano e il ministro dell’economia degli Emirati Arabi Uniti. Questi ultimi hanno inoltre sottolineato come le indiscriminate sanzioni imposte dagli USA hanno reso complesso per la Siria, devastata da un decennio di guerra, rientrare nella Lega Araba. In questo contesto, Blinken ribadisce la linea d’azione americana, che punta sostanzialmente alla destabilizzazione del Paese. Si tratta, a tutti gli effetti, di una battaglia combattuta sul campo economico e politico.

L’ulteriore stretta sulla Siria (e sui Paesi terzi che ne supportano la ripresa) è giunta con il Caesar Act del 2020, grazie al quale Washington ha impedito qualsiasi ricostruzione economica o sociale del Paese se non fossero prima avvenuti dei mutamenti sostanziali nella garanzia dei diritti umani. Si tratta a tutti gli effetti di un tentativo, da parte degli Stati Uniti, di riconquistare rilevanza in territorio siriano, rendendo impossibile la ricostruzione. A distanza di un anno le sanzioni imposte dal Caesar Act non hanno tuttavia portato i risultati sperati, trovandosi la Siria ancora in uno stato di conflitto. Andando a colpire, tra gli altri, anche il settore delle costruzioni e impedendo così di fatto la ricostruzione del Paese, le sanzioni hanno inoltre avuto un forte impatto in primo luogo sulla popolazione civile. Blinken ha sottolineato come, dall’inizio della presidenza Biden, vi sia stato un grosso impegno umanitario da parte degli Stati Uniti nei confronti della popolazione, ma è chiaro come questo offra solamente una soluzione temporanea e non definitiva a problematiche strutturali di ben altra portata.

È evidente che la strada dell’autodeterminazione siriana non è prevista dalle politiche degli Stati Uniti. Le elezioni presidenziali tenutesi in Siria nel maggio di quest’anno hanno riconfermato il presidente al-Assad, con una percentuale straordinaria di partecipazione ai seggi. Il risultato è stato fortemente screditato dall’Occidente ed etichettato come illecito e non libero. Per quanto scendere nel merito della legittimità delle elezioni in un Paese fortemente instabile sia questione assai complessa, l’Occidente rinnova un atteggiamento già tenuto in varie occasioni in Medioriente. Il presidente Trump, d’altronde, non ha fatto segreto degli interessi statunitensi in Siria (“I like the oil. We’re keeping the oil” erano state le sue affermazioni durante un’intervista). Nel 2020, inoltre, il ministro degli esteri siriano aveva denunciato l’esistenza di un patto tra una compagnia petrolifera americana e e un gruppo di ribelli curdi che controllavano le riserve petrolifere del nord-est del Paese, in un tentativo di sottrarre illegalmente il petrolio siriano. L’amministrazione Biden è subito corsa ai ripari cercando di prendere le distanze dalle affermazioni di Trump e negando lo sfruttamento del territorio siriano per l’estrazione del petrolio, affermando che la propria presenza è finalizzata alla difesa da eventuali attacchi ISIS. Tuttavia bisognerà attendere prima di capire se la linea politica di Biden si muove in una direzione effettivamente differente.

[di Valeria Casolaro]

Bangladesh, in centinaia protestano contro le violenze a sfondo religioso

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Centinaia di persone sono scese per le strade di Dacca, capitale del Bangladesh, per protestare contro l’escalation di violenze a matrice religiosa cominciate venerdì 15 ottobre, quando sui social è comparsa una foto del Corano appoggiato ai piedi di una divinità indù. Nella giornata di venerdì due uomini indù sono morti, a seguito delle proteste dei gruppi musulmani, ma la correlazione tra gli eventi è ancora da accertare. Domenica notte 20 case indù sono state bruciate e depredate. Lunedì centinaia di induisti hanno bloccato le principali strade di Dacca per chiedere giustizia. In Bangladesh gli induisti rappresentano appena il 10% della popolazione, a netta maggioranza musulmana. Si tratta di uno dei peggiori disordini in Bangladesh dal 2009.

Francia, tribunale obbliga il governo a rispettare gli impegni sul clima

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Per la prima volta nella storia, un tribunale ha obbligato uno Stato ad agire per far fronte alla crisi climatica. La Corte amministrativa di Parigi, con una sentenza di giovedì scorso, ha infatti ordinato al governo francese di adottare tutte le misure necessarie per rimediare ai danni ecologici e prevenire un ulteriore aumento delle emissioni di carbonio entro la fine di dicembre 2022. La decisione, non a caso, è stata presa come conseguenza del superamento del budget di carbonio 2015-2018. Una sentenza memorabile – commenta Le Monde che ha visionato il documento – che rafforza quella emanata lo scorso febbraio quando il governo aveva ricevuto solo un semplice richiamo.

La presa di posizione giudiziaria rientra nel più ampio contesto di un’azione legale battezzata ‘l’affaire du siècle‘ – l’affare del secolo – avviata nel 2019 da diverse organizzazioni non governative con il supporto di oltre due milioni di cittadini francesi. In questo caso, i giudici amministrativi si sono espressi sottolineando la necessità di compensare le emissioni di gas serra prodotte in eccesso. Ovvero, oltre le soglie massime che lo stesso governo si era fissato dopo l’approvazione dell’Accordo di Parigi. La Francia – secondo il tribunale – avrebbe infatti rilasciato in atmosfera ben 62 milioni di tonnellate equivalenti di CO2 in più. Pur tenendo conto della mitigazione offerta dalla condizione pandemica, rimarrebbero comunque da compensare almeno 15 milioni di tonnellate equivalenti entro la fine del 2022.

La novità, dicevamo, sta poi nel carattere vincolante della sentenza. Sebbene non siano previste sanzioni o altre pene, lo stato ha l’obbligo di agire rimediando alla propria inadempienza. E se si tratta della prima imposizione riguardo la questione climatica, non è tuttavia la prima volta che la Francia viene condannata: ad agosto la più alta Corte amministrativa francese aveva già multato lo stato per 10 milioni di euro per non aver migliorato la qualità dell’aria. Anche nel resto d’Europa, sebbene in misura diversa, la giustizia sembra essere dalla parte di chi chiede obiettivi climatici ambiziosi e misure concrete. In Germania, ad esempio, la Corte suprema ha stabilito che il paese deve aggiornare la sua Legge sul clima entro la fine del prossimo anno di modo da stabilire come effettivamente intende ridurre le emissioni di carbonio quasi a zero entro il 2050. Nei Paesi Bassi, invece, l’Alta Corte ha ordinato al governo di intensificare la sua lotta contro il cambiamento climatico e di ridurre le emissioni di gas serra più rapidamente.

[di Simone Valeri]

 

 

Russia: dal primo novembre stop a relazioni con la Nato

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La Russia sospenderà dal primo novembre la sua missione presso la Nato e, dal medesimo giorno, l’ufficio informazioni della Nato a Mosca verrà chiuso. Lo ha reso noto il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov, citato dall’agenzia di stampa Tass. «Non ci sono più le condizioni di base per lavorare insieme», ha affermato Lavrov, il quale ha aggiunto che «la Russia non continuerà a fingere che un cambiamento nelle relazioni con la Nato sia possibile nel prossimo futuro». Si tratta di scelte di ritorsione dopo che l’Alleanza Atlantica ha deciso di revocare l’accreditamento di otto funzionari della missione russa.

La Turchia sta usando armi chimiche contro i curdi?

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Fumo bianco armi nucleari

In alcuni video pubblicati di recente sia da alcuni media che dagli stessi combattenti curdi (che da aprile sono in conflitto con le forze armate turche), si vedono grosse nuvole bianche, presumibilmente gas proveniente da armi chimiche, fuoriuscire dagli ingressi di tunnel e grotte scavati nelle montagne del nord dell’Iraq, mentre i combattenti si muovono con maschere antigas e luci. Si tratta di zone nascoste, al cui interno, in virtù della posizione “favorevole”, accadono gli scontri più violenti tra militanti locali e forze turche. Negli ultimi mesi proprio i combattenti e comandanti curdi hanno riferito con costanza che in questi luoghi la Turchia avrebbe impiegato armi chimiche nelle operazioni militari che sta conducendo, in particolare nelle regioni di Zap, Avashin e Metina che dall’aprile di quest’anno chiedono urgenti indagini internazionali.

Non è possibile, al momento, verificare con certezza che si tratti di fumo da armi chimiche, ma le vicende sollevano ancora una volta interrogativi sul presunto uso improprio di gas chimico da parte della Turchia.

Tweet curdiÈ pur vero, però, che negli ultimi tempi, centinaia di abitanti del villaggio di Kanimasi sono stati portati negli ospedali più vicini a causa di problemi di salute che potrebbero essere causati dal contatto con gas chimici. Le persone ricoverate in ospedale hanno manifestato bruciore agli occhi, visione offuscata, cecità temporanea, mal di testa acuto, sangue dal naso, mancanza di respiro ed eruzioni cutanee. Di fatto, le esposizioni alle radiazioni provocano solitamente malattie acute e lungo termine, spesso mortali, ed effetti sulla salute genetici e intergenerazionali.

La dottoressa Gisela Penteker, dell’International Physicians for the Prevention of Nuclear War, ha affermato che “Non siamo specialisti della composizione di armi chimiche, guardando quelle immagini, ovviamente, non ci sono prove. Ma ci sono molti, molti segnali che ci fanno pensare che siano usate armi chimiche, e ovviamente ci uniamo al popolo curdo nel chiedere agli organismi internazionali di dimostrarlo. Non possiamo tacere se un membro della NATO usa armi chimiche”.

La Turchia non è nuova ad accuse di questo tipo, che si susseguono nel tempo a partire dagli anni ’90, periodo in cui crebbe di molto la resistenza curda e la presa di coscienza internazionale che una questione curda c’era. In quegli anni l’esercito turco fu accusato di utilizzare armi chimiche: metodo che si aggiungeva ad altri non meno violenti e pericolosi, come torture, incendi di villaggi e spopolamento forzato.

L’intervento della comunità internazionale, però, non è servito a molto. Così come l’attenzione pubblica, che spesso si spegne nel giro di poche settimane per spostarsi altrove. Un silenzio che ha incoraggiato la Turchia a continuare a fare esattamente quello che stava facendo: violare sistematicamente gli accordi internazionali che vietano l’uso di armi chimiche. La Turchia infatti è ufficialmente membro dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (OPCW) e firmataria della Convenzione sulle armi chimiche.

Invece le segnalazioni riguardo alla frequenza dell’uso di queste armi stanno aumentando negli ultimi mesi. Si parlerebbe di oltre 300 utilizzi, separati fra loro. E moltissimi altri non segnalati. Seppur non definitive, anche le prove di questi crimini internazionali stanno crescendo. Secondo resoconti dei media internazionali, diversi combattenti curdi sono rimasti uccisi dall’utilizzo di armi chimiche nel 2009, 2013 e 2017. Le testimonianze dicono che la Turchia avrebbe aumentato l’impiego di queste armi dopo aver occupato parti del nord-est della Siria (Rojava) che si erano precedentemente liberate dell’ISIS grazie ai combattenti siro-curdi e alla coalizione internazionale.

La comunità internazionale, intanto, insieme ai suoi media, ha finora mostrato poco o nessun interesse per ciò che sta accadendo. Sono pochi i paesi che fino ad ora hanno criticato la Turchia per aver occupato territori vicini utilizzando metodi illegali e con un uso della forza spropositato. Bisognerebbe che “Il personale dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche vada lì e controlli e lo dimostri, o dimostri che non è vero”, ha detto Gisela Penteker. E probabilmente il sostegno internazionale accelererebbe la ricerca della verità.

[di Gloria Ferrari]

Ravenna: protesta contro il Green Pass al porto, bloccato il traffico

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Secondo quanto riportato dal giornale RavennaToday, questa mattina, intorno alle ore 7:00, al porto di Ravenna è iniziata una protesta contro il Green Pass. I manifestanti, portuali ma non solo, sono divenuti circa 500 nel corso della mattinata ed intorno alle 10:00 hanno fatto partire un corteo verso il Porto San Vitale. Il corteo – al quale però stando alle immagini hanno partecipato anche più di 500 persone – ha bloccato il traffico in uscita su entrambe le corsie della Classicana. Alcuni manifestanti si sono seduti per terra, tuttavia, poco prima della 15:00, gli agenti in assetto antisommossa li hanno fatto alzare ed è stata riconsentita la circolazione in uscita. Un nuovo blocco si è creato poi «all’altezza della Metalsider», dove sono presenti le forze dell’ordine ed al momento non sono stati registrati problemi di ordine pubblico.

Al porto di Trieste il “governo dei migliori” mostra il suo volto

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Lacrimogeni, idranti, cariche e manganelli: questo il modo in cui questa mattina il potere pubblico ha scelto di liquidare il presidio contro l’obbligo di green pass in atto da venerdì al porto di Trieste. Oltre tre ore di assedio contro lavoratori e cittadini che si sono limitati a cercare di resistere passivamente, sedendosi e tenendosi per mano di fronte all’avanzata delle forze dell’ordine in tenuta antisommossa. Nessun atto di reazione violenta, nonostante questo la brutalità della repressione è progressivamente cresciuta fino a raggiungere l’obiettivo.

Quanto accaduto questa mattina non riguarda tanto il tema del green pass, ma delle garanzie democratiche per tutti in un Paese dove l’abituarsi ai governi tecnici sembra stia aprendo le porte alla tecnocrazia, intesa come forma di esercizio del potere che non tollera nessun dissenso usando contro di esso ogni arma, dalla delegittimazione sui media fino alla repressione più feroce. Il “governo dei migliori” procede come un carrarmato nel proseguimento degli scopi, inclusa l’introduzione del regolamento sul green pass più severo d’Europa, spazzando via ogni forma di opposizione sociale possa frapporsi tra i suoi ingranaggi.

Bene precisare che il presidio dei portuali non aveva compromesso il regolare svolgimento delle attività lavorative. Gli operai avevano scelto di non cercare di bloccare l’attività, garantendo il passaggio alle merci, ai camion ed ai portuali che intendevano non aderire alla protesta e continuare a lavorare. Quello dei manifestanti era quindi semplicemente un presidio, volto a dar voce a chi fosse contrario alle politiche messe in atto dal Governo.

Contro questa espressione pacifica di dissenso questa mattina si è alzata la violenza repressiva dello stato. Il Governo tecnocratico, che punta all’efficienza dei suoi meccanismi, prosegue dritto per la propria strada, non tollerando intoppi né disservizi, gli oppositori sono letteralmente spazzati via a colpi di idrante. Non vi è accenno nemmeno all’apertura di un dialogo: la voce di chi si oppone (migliaia nel porto di Trieste) è silenziata a forza di botte. Un modo di procedere che dovrebbe provocare la pronta e ferma protesta di tutti (a prescindere da come la vedano sul tema green pass) e a cominciare da quei giornali, partiti e sindacati che in questi giorni si sono sollevati contro “tutti i fascismi”.

Nel frattempo i manifestanti a Trieste non si arrendono, dopo essere stati dispersi, sono riusciti a improvvisare un corteo che si è diretto verso il centro di Trieste. Ma la polizia non è rimasta a guardare nemmeno in questo caso: i poliziotti hanno cercato di disperdere i manifestanti all’interno della città e un video mostra come i lacrimogeni siano finiti addirittura all’interno del cortile di una scuola media. I dimostranti sono comunque riusciti a ritrovarsi in piazza Unità d’Italia, di fronte all’edificio del Comune, dove prosegue la protesta. La piazza al momento è strapiena, con migliaia di cittadini accorsi per unirsi alla voce dei portuali.

 

Migranti: naufraga imbarcazione in Tunisia, 4 morti e 19 dispersi

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Il bilancio attuale del naufragio di un’imbarcazione con a bordo almeno 30 migranti, verificatosi nella giornata di ieri al largo di Mahdia, in Tunisia, è di 4 morti, mentre altre 19 persone risultano disperse. Sette migranti, invece, sono stati tratti in salvo: a riportarlo è l’agenzia di stampa Ansa, che cita le parole di Farid Ben Jha, portavoce del tribunale di Mahdia e Monastir. Quest’ultimo ha sottolineato che i migranti sono in gran parte giovani ed ha inoltre aggiunto che quattro persone sono state arrestate per aver preso parte all’organizzazione della traversata.