martedì 11 Novembre 2025
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Usa: la Corte Suprema boccia l’obbligo vaccinale voluto da Biden

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La Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha emesso una sentenza che da un lato conferma l’obbligo vaccinale per i lavoratori del settore sanitario voluto dall’amministrazione Biden, ma dall’altro blocca l’obbligo di vaccino per le aziende con più di 100 dipendenti. Si tratta di una questione fortemente dibattuta negli Stati Uniti, dove la maggior parte della popolazione si dichiara favorevole al vaccino ma l’imposizione dell’obbligo vaccinale è vista come una violazione dei diritti sanitari e personali dei cittadini.

Proseguono le vertenze in materia di obbligo vaccinale negli Stati Uniti. La misura è fortemente voluta dall’amministrazione Biden, ma vede l’opposizione di alcuni settori lavorativi e dei Repubblicani. Già a novembre dello scorso anno l’obbligo di vaccinazione per i lavoratori privati delle grandi aziende (con 100 o più dipendenti) era stato bloccato da una Corte d’Appello (ma poi riconfermato), così come a dicembre un giudice aveva sospeso l’obbligo di vaccinazione per i lavoratori del settore sanitario. Imprenditori e repubblicani avevano segnalato come l’imposizione di un obbligo di tale portata avrebbe causato non poco disagio alla popolazione, senza contare il rischio della mancanza di manodopera nei posti di lavoro.

La sentenza della Corte Suprema ha riconfermato l’obbligo per i sanitari ma sospeso quello per i dipendenti delle grandi aziende private, in vigore dal 4 gennaio ed effettivo a partire dal 10. “Sebbene il Congresso abbia indiscutibilmente dato all’OSHA (l’Agenzia che si occupa di garantire la sicurezza e la salute sul lavoro) il potere di regolare i pericoli sul posto di lavoro, non ha dato a quell’agenzia il potere di controllare la salute pubblica in modo più ampio” scrive la Corte, che aggiunge “Richiedere la vaccinazione di 84 milioni di americani, scelti semplicemente perchè lavorano per aziende con più di 100 dipendenti, sicuramente ricade nella seconda categoria”. La misura è stata definita una “significativa invasione” nella vita privata dei dipendenti ed è stata contestata l’autorità del governo federale di prendere decisioni di tale portata.

Non tutti i giudici si sono mostrati d’accordo, affermando che è la Corte ad agire “al di fuori delle proprie competenze” e ostacolando “l’abilità del Governo Federale di contrastare la minaccia senza pari che il Covid-19 pone ai nostri lavoratori”. Secondo alcuni, l’obbligo vaccinale dovrebbe essere applicato a discrezione dei singoli Stati.

La diatriba legale non termina qui: entrambe le misure dovranno infatti essere nuovamente discusse dai tribunali inferiori. Nel frattempo, le grandi aziende come Starbucks stanno organizzando con politiche vaccinali da sottoporre ai propri dipendenti. Per quanto riguarda i lavoratori della sanità, l’obbligo afferisce ai dipendenti delle strutture che sottostanno a Medicare e Medicaid, i programmi federali sanitari destinati ad aiutare i cittadini sopra i 65 anni e quelli con basso reddito salariale. Il presidente Biden si è detto “deluso dal fatto che la Corte Suprema abbia deciso di bloccare un provvedimento “di buon senso” che avrebbe potuto imporre la sicurezza nei luoghi di lavoro.

[di Valeria Casolaro]

Il governo Draghi resuscita il ponte sullo stretto, di nuovo

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Riecco il ponte sullo stretto. Anche il governo Draghi è tornato a parlare del progetto, che definire annoso è un eufemismo. Recentemente il ministro delle infrastrutture e della mobilità sostenibile Enrico Giovannini ha reso al Consiglio dei ministri un’informativa per avviare uno studio di fattibilità sulla realizzazione del ponte sullo stretto. L’acquisizione del documento sarà gestita da Rete Ferroviaria Italiana Spa, tramite procedura di evidenza pubblica. Come si legge in un’agenzia, “Lo studio dovrà prendere in esame la soluzione progettuale del ponte aereo a più campate, in relazione ai molteplici profili evidenziati nella relazione presentata il 30 aprile 2021 dall’apposito gruppo di lavoro istituito nel 2020 presso il Mims, valutandone la intrinseca sostenibilità sotto tutti i profili indicati, mettendola a confronto con quella del ponte ‘a campata unica’ e con la cosiddetta opzione zero. Inoltre, lo studio deve fornire gli elementi, di natura tecnica e conoscitiva, occorrenti per valutare la realizzabilità del sistema di attraversamento stabile dello Stretto di Messina, anche sotto il profilo economico-finanziario”. Il governo ha fatto sapere che si sta già impegnando nel miglioramento delle interconnessioni ferroviarie nei territori calabresi e siciliani e al potenziamento dell’attraversamento navale dello stretto, con lo stanziamento di 510 milioni derivanti dai fondi del Pnrr “favorendo – qui non si teme la retorica – la transizione ecologica della mobilità marittima e la riduzione dell’inquinamento”.

Le tappe del nulla di fatto

Una storia infinita quella del ponte, mai realizzato ma già costato molti soldi ai contribuenti, tra studi, progetti e primi incarichi poi sfumati. L’idea di collegare la Calabria e la Sicilia parte da lontanissimo. Le prime testimonianze risalgono alla Roma avanti Cristo. Poi se ne discuterà nell’Italia post-unificazione, passando per il dopo guerra e arrivando ai giorni nostri. L’accelerazione nel 1981, quando il governo Forlani fonda la Società “Stretto di Messina Spa”. I lavori non partono ma la Società resta in piedi e si continua a produrre documentazione. Tra le principali questioni quello delle campate. Un ponte marittimo a campata unica sarebbe il più lungo del mondo – esteso per 3,3 Km e supererebbe quello giapponese. Altri pensano a realizzare tre campate, ma il fondale è troppo profondo per pensare a una soluzione del genere. Con Craxi al potere si annuncia che il ponte sarebbe stato pronto nel ’94. Fu lettera morta.

Passano gli anni e il sogno del ponte viene riscoperto da Silvio Berlusconi. Nel 2002 l’annuncio: “Il ponte si farà”. Ne è sicuro anche l’allora ministro delle infrastrutture Pietro Lunardi. Si decide che nel 2003 sarebbero iniziati i primi espropri sulle due sponde e nel 2005 “la prima pietra”. Proprio in quell’anno infatti viene assegnata la gara d’appalto, vinta dalla cordata di imprese Eurolink, capitanata dalla Impreglio, per un costo pari a 6 miliardi. In quell’anno però, la Direzione investigativa antimafia segnala possibili infiltrazioni e l’iter rallenta. Quando il nuovo governo di Romano Prodi si insedia, il ponte non è negli obiettivi. Arriviamo al 2011 e il progetto riparte su impulso di Mattioli, ma poi Mario Monti lo blocca. Nel 2013 la Società Stretto di Messina viene posta il liquidazione. Si stima che dal 1982 ad oggi ci sia costata oltre 300 milioni. Ma il peso del contenzioso che lo Stato potrebbe trovarsi a sostenere ora è anche superiore. Furono chiesti come risarcimento 700 milioni.

Entusiasmo nuovo, problemi vecchi

L’Odissea delle opere pubbliche italiane è un luogo comune che conosciamo bene. Il governo Draghi rischierebbe di esserne anch’esso un attore. Ma la rinnovata attenzione ai grandi interventi, ispirata dal Pnrr, non può che rianimare il sogno del grande ponte. Difficile però la realizzazione. Pietro Lunardi è tornato a parlare, spiegando che il ponte è assolutamente un’opera fondamentale ma che non è pensabile fare più campate, vista la profondità del fondale. I problemi risiedono anche nella forte concentrazione ventosa e nei rischi di ordine sismico, con oscillazioni nella norma di cui già bisogna tenere conto. Per non dire ovviamente dell’impatto ambientale (non ha nascosto perplessità anche il ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani). Molte le criticità che più volte ha evidenziato anche Legambiente.

La vera alternativa, quindi, potrebbe essere un piano di investimenti per rendere più efficiente l’attraversamento navale e il potenziamento dei collegamenti ferroviari in entrambe le sponde. Soluzioni più pratiche che i tanti cittadini chiedono da tempo. Vedremo se, almeno su questi punti, i soldi del Pnrr saranno efficaci.

[di Giampiero Cinelli]

Djokovic, cancellato visto per la seconda volta: a rischio espulsione

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Il governo australiano ha cancellato per la seconda volta il visto del tennista Novak Djokovic, che rischia ora l’espulsione dall’Australia. La decisione è stata motivata dal ministro dell’Immigrazione Hawke con ragioni “di salute e di ordine pubblico”. Le alternative per il campione del tennis sono ora accettare la decisione o presentare appello, richiedendo un procedimento d’urgenza che permetta il dibattimento nel fine settimana. In caso di esito positivo Djokovic potrebbe così partecipare agli Australian Open che avranno inizio lunedì 17 gennaio. Secondo la stampa locale, nel caso in cui non venisse presentato appello Djokovic potrebbe essere nuovamente posto in detenzione presso il Park Hotel in attesa dell’espulsione.

Alla fine è successo: Germania, il tracciamento Covid usato per scopi di polizia

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Magonza, cittadina poco distante da Francoforte, ha infine ceduto al peccato capitale del tracciamento del coronavirus: ha usato l’app sanitaria locale, Luca, per rintracciare i cittadini a scopi polizieschi. Si tratta di una mossa che infrange apertamente la posizione dei Governi europei, i quali hanno sempre promesso di usare i software di monitoraggio della pandemia esclusivamente per il loro scopo originale, con massima attenzione alla tutela della privacy degli utenti.

Inutile dire che si sta già sollevando un polverone attorno a coloro che hanno dato il via a questo disastro politico-amministrativo, se non altro per le dinamiche dubbie che sono state applicate per aggirare le regole. Tutto è partito da un possibile omicidio: il 29 novembre, un uomo è crollato al suolo uscendo da un ristorante, ricoverato in ospedale è morto dopo appena undici giorni di terapia intensiva a causa delle gravi ferite subite. Nel tentativo di risolvere i punti rimasti in sospeso, a dicembre la polizia ha cercato di rintracciare testimoni appoggiandosi a un comunicato stampa, ma il successo di un tale sforzo dev’essere stato tanto scarso poiché gli investigatori hanno immediatamente deciso di cercare controverse soluzioni alternative.

Secondo le prime ricostruzioni, l’azienda sanitaria di Magonza, su richiesta della polizia, avrebbe contattato il gestore del ristorante direttamente tramite l’app per chiedere i dati di coloro che erano presenti in sala la notte del presunto delitto. Tutte ricostruzioni ufficiose, visto che gli unici che non hanno ancora voluto commentare la dinamica dei fatti sono proprio le Forze dell’ordine. Quello che è certo è che la Procura di Magonza ha confermato la richiesta dei dati dell’app Luca e che questo abbia portato a rintracciare 21 potenziali testimoni.

Culture4life, l’azienda che ha sviluppato l’app, sostiene di essere contattata «quasi quotidianamente» dalla polizia tedesche perché i dati di tracciamento vengano usati a fini investigativi, ma l’impresa non potrebbe fornire loro alcun dato neanche volendo, visto che tutte le informazioni vengono criptate attraverso un codice gestito dalle autorità sanitarie. Per questo motivo si ipotizza che, su suggestione poliziesca, il Servizio Sanitario abbia simulato un caso di contagio per recuperare le informazioni sensibili degli avventori del locale, aggirando i sistemi di controllo che dovrebbero evitare proprio questo genere di abusi.

Le leggi sulla privacy indicano che le app quali Luca e Immuni non possano essere adoperate per denunce e persecuzioni legali, una violazione di questo tipo viene pertanto vissuta al pari di un terribile precedente e, soprattutto, come una prova tangibile che le preoccupazioni di coloro che urlano alla minaccia della sorveglianza digitale non sono poi così tanto delle fobie. La pandemia ha innegabilmente limitato le libertà degli individui, inoltre molte Amministrazioni stanno gestendo la crisi fomentando una scissione nel tessuto sociale dei rispettivi Paesi, le tensioni sono alle stelle e una simile “gaffe” non potrà che acuire le già incolmabili distanze tra establishment e voci d’opposizione.

Quello di Magonza è per l’Europa un caso più unico che raro, tuttavia sarà ora importante capire come questo grave abuso verrà gestito dalla Germania e dall’Unione Europea, ovvero se questi sarà condannato con voce ferma o se si cercherà di sminuire la portata, col rischio che questo stratagemma possa un giorno essere replicato altrove.

[di Walter Ferri]

Russia: Ue proroga sanzioni economiche per situazione in Ucraina

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L’Unione europea ha deciso oggi di prorogare di sei mesi, fino al 31 luglio 2022, le misure restrittive attualmente destinate a specifici settori economici della Federazione russa a causa della destabilizzazione dell’Ucraina: a comunicarlo è il Consiglio dell’Unione europea, il quale tramite una nota fa sapere che tale decisione fa seguito all’ultima valutazione dello stato di attuazione degli accordi di Minsk tenutasi presso il Consiglio Europeo il 16 dicembre 2021. «Alla luce del fatto che la Russia non ha attuato completamente questi accordi, i leader dell’UE hanno deciso all’unanimità di rinnovare le sanzioni economiche in vigore contro il paese», si legge nel comunicato.

Il governo ha realmente messo fuorilegge la cannabis light?

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Nella giornata di ieri 12 gennaio è stato approvato un decreto interministeriale mirato a regolare la produzione di foglie e infiorescenze nelle piante di canapa. A prima lettura, e secondo quanto riportato su diversi media, la norma sembra imporre il divieto al consumo della cosiddetta “cannabis light”, cioè le infiorescenze di canapa a contenuto non psicoattivo di THC, equiparandola alle sostanze stupefacenti e scatenando un certo allarmismo all’interno del settore di produzione. Tuttavia l’analisi dell’avvocato Carlo Zaina, esperto in materia di disciplina delle sostanze stupefacenti, inquadra la vicenda in un’ottica diversa. Secondo la lettura di Zaina, infatti, il decreto, un puro atto amministrativo e quindi privo della valenza giuridica di una legge, evidenzia la poca competenza nel settore da parte degli enti governativi, i quali sembrano solamente voler mirare a rafforzare il potere discrezionale delle Forze dell’Ordine e della magistratura in ambito di sequestri e iniziative giudiziarie.

Il decreto interministeriale approvato ieri dai Ministeri per le politiche agricole, alimentari e forestali, della Transizione Ecologica e della Salute mira a limitare la produzione di foglie e infiorescenze a contenuto legale di THC, il decreto costringerebbe gli agricoltori italiani “a rinunciare alla possibilità di destinare le produzioni di foglie e infiorescenza da varietà a basso THC alla produzione di aromi, sostanze attive non psicotrope, semilavorati per la cosmesi, rinunciando alla parte di pianta in cui risiedono le principali proprietà officinali”. Si tratterebbe inoltre di una misura che muove passi da gigante nella direzione opposta di molti altri Paesi europei, che si sono invece impegnati a legalizzare l’utilizzo di fiori e foglie per l’estrazione della canapa.

Secondo la lettura dell’avvocato Carlo Zaina, tuttavia, la portata delle conseguenze del provvedimento andrebbe decisamente ridimensionata. Come ricorda l’avvocato, la natura in sé di un decreto ministeriale (o interministeriale, come in questo caso, perché afferisce a diversi Ministeri) è puramente amministrativa e non può essere equiparata alla valenza che hanno misure legislative. Di conseguenza il decreto, se considerato illecito, può essere impugnato di fronte al TAR. “In buona sostanza” spiega Zaina “un atto puramente amministrativo non può derogare, quanto al contenuto, alla Costituzione e agli atti aventi forza di legge sovraordinati, né può avere ad oggetto incriminazioni penali, stante la riserva assoluta di legge che vige in detta materia (art. 25 della Costituzione)”. Si tratta quindi di un atto giuridicamente ininfluente, sia nei termini della materia che vuole disciplinare, ovvero l’utilizzo delle piante officinali, sia in quelli di eventuali ricadute penali per i supposti trasgressori.

Detto questo, scendendo nel merito della questione, la bozza del decreto mira a disciplinare l’utilizzo delle piante officinali, ovvero “le piante cosiddette aromatiche, medicinali e da profumo” (art. 1 comma 2 dl 75/2018). Si tratta di piante comunemente utilizzate per la correzione del gusto dei farmaci, per le quali non è necessariamente prevista una coincidenza con la natura medicinale. Le piante medicinali contengono infatti strutturalmente sostanze utili in campo medico o terapeutico.

A parere di Zaina, il decreto è discutibile perché il presunto divieto di coltivazione di foglie e infiorescenze configge con il fatto che proprio in tali parti della pianta siano presenti sostanze cannabinoidi come la CBD, che possono essere destinate a usi officinali. Si tratterebbe di un elemento di grave contraddizione che sarebbe di per sé sufficiente a rendere discutibile la valenza del decreto. Inoltre dal testo non è chiaro se con il termine “Cannabis” si intendano le piante ad alto contenuto di THC e quindi considerate stupefacenti e rese illecite dal decreto presidenziale 309/90 (nel qual caso si tratterebbe di una lapalissiana ripetizione, che priverebbe di valenza il decreto) o di un goffo tentativo di collegare foglie e infiorescenze all’uso medicinale. In quest’ultimo caso, sostiene Zaina, si tratterebbe di una misura che agisce in supporto al procedimento deliberativo tutt’ora in corso che vuole impedire la produzione del CBD al di fuori del circuito delle grandi multinazionali farmaceutiche, dopo che l’AIFA l’ha classificato come cannabinoide farmacologicamente attivo.

“La volontà di criminalizzare la coltivazione delle piante, con specifico riferimento alle foglie e alle infiorescenze, costituisce una scelta governativa, che si fonda su di una spiccata carenza di conoscenze scientifiche specifiche e su una mala applicazione di criteri normativi da parte degli organi governativi emittenti”. Il decreto costituirebbe quindi uno sgraziato tentativo di criminalizzare un intero settore, con l’unica conseguenza di apportare danni economici e morali potenzialmente ingenti per gli imprenditori.

[di Valeria Casolaro]

Solvay di Rosignano: un caso esemplare di inquinamento e sperpero di risorse

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Il Gruppo Solvay fu fondato in Belgio da Ernest Solvay nel 1863. La multinazionale, con sede a Bruxelles, opera a livello internazionale nel settore chimico e delle materie plastiche. Attualmente è presente in 64 paesi ed ha un numero di dipendenti complessivo pari a circa 24.100 unità. Nel 2019 ha realizzato un fatturato di 10.2 miliardi di euro. L’industria Solvay è particolarmente nota per la produzione di carbonato di sodio, il cui processo produttivo viene realizzato mediante l’applicazione del cosiddetto “processo Solvay all’ammoniaca”, ideato dallo stesso fondatore della fabbrica ed oggi internazionalmente utilizzato. La multinazionale Solvay rappresenta attualmente uno dei più importanti gruppi chimici presenti in Italia. La forza lavoro italiana è formata da 1.900 unità, distribuite all’interno di sette siti produttivi localizzati a: Ospiate (Milano), Spinetta Marengo (Alessandria), Mondovì (Cuneo), Livorno, Massa, Rosignano Solvay (Livorno) e Bollate (Milano). In quest’ultima località è presente la direzione nazionale e uno dei più importanti centri di ricerca del Gruppo su scala mondiale. Un’attività che da sempre comporta danni ambientali e di salute rilevanti, sui quali non vi è mai stata la volontà politica di fare chiarezza né tantomeno di agire per proteggere lavoratori e cittadini.

L’accordo di programma del 2003

Nel luglio 2003 la Solvay firmò con gli enti territoriali coinvolti un accordo di programma che prevedeva sostanzialmente tre punti: la riduzione degli scarichi a mare del 70% entro l’anno 2007 (da 200.000 a 60.000- tonnellate annue di solidi sospesi); la cessazione del processo produttivo di produzione di cloro e di soda caustica basato sull’elettrolisi a mercurio (altamente inquinante) e sostituzione con quello basato su tecnologia a membrana; la diminuzione dei consumi di acqua dolce di 4 milioni di metri cubi l’anno. In aggiunta ai 30 milioni di euro stanziati in seguito alla firma dell’accordo di programma del luglio 2003, l’anno successivo la Solvay ha ricevuto ulteriori 13 milioni di euro di risorse pubbliche provenienti dal Ministero dell’Ambiente in collaborazione con la Regione Toscana, la Provincia, il Comune e ARPAT e finalizzate al miglioramento delle condizioni ambientali dello stabilimento di Rosignano. Infine, nel 2017, il Ministero dello Sviluppo economico e la Regione Toscana hanno dato il via libera a degli investimenti da parte di Solvay: 52 milioni di euro per un piano di sviluppo per la “tutela ambientale” ma tramite Invitalia hanno dato contributi pubblici per circa 9,5 milioni, che sono ancora oggi da rendicontare.

Le indagini del 2008 e il patteggiamento di Solvay

Nel 2008 l’Associazione “Medicina Democratica” presentò un esposto alla Procura di Livorno nei confronti della Solvay in merito al non rispetto dell’Accordo di programma del 2003 e alla presenza di quattro scarichi abusivi sconosciuti all’ARPAT (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale della Toscana) e all’utilizzo di una procedura finalizzata a diluire i fanghi di scarico, aggirando così i limiti all’emissione di sostanze nocive previsti dalla normativa vigente. Nel maggio 2013 «dopo quattro anni di indagini, la Procura di Livorno accertò lo scarico illecito di fanghi da parte di Solvay nell’area delle spiagge bianche attraverso “un sistema di scarichi non mappati che permettevano all’azienda di diluire sostanze come mercurio, piombo, selenio e fenoli affinché nel momento in cui questi arrivavano a valle risultavano in regola con i parametri previsti dalle normative di legge».

Sversamenti di ammoniaca e morie di pesci lungo le coste di Rosignano

Nel corso degli anni si sono verificati episodi di sversamento ingente di sostanze tossiche nel tratto di costa prospiciente l’impianto Solvay di Rosignano Marittimo. Il 19 giugno del 2007, un black-out elettrico, originò uno sversamento di azoto ammoniacale nelle acque antistanti lo scarico dello stabilimento e l’emissione di fumo dalla torcia dell’impianto di stoccaggio etilene e dalla torcia dell’impianto di produzione polietilene. L’ARPAT quantificò lo sversamento di azoto ammoniacale in circa 11,7 tonnellate (in un periodo di 24 ore) rispetto alle circa 3,67 tonnellate che l’impianto avrebbe scaricato in condizioni di normale funzionamento. La stessa Agenzia in un rapporto conclusivo sottolineò che il disservizio elettrico occorso, pur rappresentando una situazione eccezionale, aveva fatto emergere diversi aspetti critici legati alla sicurezza dell’impianto e relativi, in particolare, alle procedure e dispositivi d’emergenza finalizzati al confinamento di ammoniaca 11. A distanza di dieci anni, in data 29 agosto 2017, in conseguenza di un ulteriore black-out elettrico, si è verificato un nuovo sversamento in mare di ammoniaca che ha determinato una moria di pesci. Le analisi realizzate da ARPAT evidenziarono un aumento della presenza di ammoniaca in mare in una quantità tuttavia non elevatasi al di sopra dei limiti di legge. Le analisi effettuate sui pesci prelevati dall’Istituto di Zooprofilassi di Pisa non vennero effettuate in quanto il cattivo stato di conservazione dei campioni raccolti non ne permise l’analisi.

Le problematiche ambientali derivanti dallo stabilimento Solvay di Rosignano: alcuni dati

Nella relazione ARPAT Toscana del 7 giugno 2017 (doc. 2049/1/9), citata nella Relazione Territoriale sulla Regione Toscana, viene elencato, tra i siti oggetto di attività di bonifica, quello di Solvay, avente un’estensione di oltre 220 ettari, che «presenta una contaminazione dei terreni, nonché delle acque sotterranee (falda superficiale e falda profonda) da arsenico, mercurio, composti organoclorurati e PCB [policlorobifenili]. In particolare, per quanto riguarda i composti organoclorurati, le concentrazioni nelle acque sotterranee risultano superiori alle CSC (concentrazioni soglia di contaminazione) di 3-4 ordini di grandezza. La contaminazione è dovuta alle lavorazioni che sono state effettuate nel corso degli anni nello stabilimento Solvay e ai rinterri di scarti delle lavorazioni avvenuti nel passato. I bersagli della contaminazione delle acque sotterranee sono: 1) i lavoratori esposti ai vapori indoor/outdoor; 2) i pozzi ad uso irriguo delle abitazioni ubicate nelle immediate vicinanze del sito; 3) le acque superficiali del fiume Fine; 4) le acque superficiali del Mar Ligure (spiagge bianche di Rosignano e Vada)».

Scriveva la giornalista Marta Panicucci nel 2015: «Secondo le stime infatti, nel mare turchese delle Spiagge bianche sarebbe concentrato il 42,8% dell’arsenico totale riversato nel mare italiano. Ed il mercurio scaricato dal fosso bianco inquina il tratto di mare di fronte alla fabbrica fino a 14 chilometri dalla costa. La Solvay dai primi anni del ‘900 tramite il fosso che collega direttamente gli impianti al mare, sversa in mare solidi pesanti e metalli come mercurio, arsenico, cadmio, cromo, ammoniaca e solventi organici potenzialmente cancerogeni». Secondo le stime per difetto realizzate dal Cnr (Consiglio Nazionale delle Ricerche) di Pisa nella sabbia bianca la Solvay avrebbe scaricato 337 tonnellate di mercurio ed altri veleni tra i quali figurano arsenico, cadmio, nickel, piombo, zinco, dicloroetano.

Secondo Legambiente nel tratto di mare antistante lo stabilimento Solvay di Rosignano Marittimo sarebbero state scaricate 500 tonnellate di mercurio, dato riportato anche nel Verbale dell’Osservatorio sull’accordo di programma 2003, vergato presso il Ministero dell’ambiente nel luglio 2009.

Per sapere quali sono le sostanze scaricate attualmente in mare dalla Solvay è necessario consultare la dichiarazione PRTR raccolta nell’E-PRTR, l’European Pollutant Release and Transfer Register, un registro che contiene le informazioni su inquinanti in aria, terra e acqua di tutti gli stabilimenti presenti sul territorio europeo. Consultando la dichiarazione relativa all’anno 2016 si evince che Solvay ha scaricato in mare 2,67 tonnellate di arsenico e derivati (erano 1,449 t. nel 2011), 248 kg di cadmio (erano 91 kg nel 2011 e 183 kg nel 2012), 1,59 t di cromo e 52,6 kg di mercurio (erano 71 kg nel 2011 e 46 kg nel 2012). Rispetto all’anno 2012 nel 2016 è aumentata la quantità scaricata di cadmio e di mercurio mentre è diminuita la quantità scaricata di arsenico e derivati. All’ultima rilevazione disponibile, nel solo 2017, Solvay dichiara di aver scaricato in mare 3,88 tonnellate di arsenico, 3,7 tonnellate di cromo, 59 chili di mercurio e svariati altri inquinanti.

Cloruri

Un “inquinante” del tutto particolare riversato in mare sono i cloruri: non tanto per l’impatto sul mare stesso, ma per quanto dimostra circa l’inefficienza del processo Solvay e per lo spreco di risorse preziose come il sale del volterrano: 901.000 tonnellate nel 2015, 663.000 t. nel 2016, 890.000 t. nel 2017, secondo le dichiarazioni della stessa Solvay al Registro europeo, su un totale di 2.000.000 tonn/anno prelevate da Solvay dalle saline di Volterra: quasi la metà del prelievo di salgemma viene sistematicamente sprecato in mare , con l’aggravante che lo stesso prelievo è costato 6,5 milioni di metri cubi di acqua dolce, sottratta all’uso prioritario della popolazione. L’inefficienza del processo Solvay nel non riuscire a utilizzare tutto il sale immesso nel processo è d’altra parte noto da sempre: lo testimonia il libro celebrativo di Jacques Bolle, Solvay 1863-1963.

L’abuso di acqua dolce e la rivendicazione di un dissalatore di acqua di mare

Abbiamo già visto che il Rapporto Cheli-Luzzati (Università di Pisa) stimava nel 48% l’uso di acqua dolce del territorio da parte di Solvay. L’altra metà della risorsa idrica doveva e deve soddisfare i consumi prioritari di popolazione ed agricoltura. Un rapporto invertito rispetto ai criteri stabiliti dalla Legge Galli (1994). Nel 2011 la Provincia di Livorno per contrastare “l’uso sconsiderato” dell’acqua da parte dell’industria (non solo Solvay) alza il canone del 3%, che viene fissato in 16.932,11 euro a modulo, cioè 3 milioni di metri cubi, cioè 5 millesimi di euro al metro cubo. Se abbiniamo questo canone stracciato dell’acqua dolce a quello altrettanto stracciato del salgemma, fissato dal Ministero delle finanze (oggi Min. Economia e finanze MEF) in lire 1700 a tonnellata (in euro 0,87 centesimi) nel 1996, si capisce perché Solvay resista a costruire un dissalatore di acqua di mare, da cui ricavi acqua e sale, necessari al suo stabilimento di Rosignano.

Le emissioni in atmosfera

Le emissioni in atmosfera di Solvay nel 2016 erano dichiarate in 168 tonn. di ossidi di azoto, 327.000 tonn. di anidride carbonica, 6.260 tonn. di ossido di carbonio, 365 di Ammoniaca (NH3), oltre ai biocidi contenuti nei vapori, mai dichiarati dall’azienda.

Si noti che il polo Solvay, comprese le due centrali elettriche a gas metano, è il secondo emettitore di CO2 in Toscana con 2.200.000 tonn/anno, preceduta dalla geotermia, con 3.000.000 tonn/anno circa, e seguita dalla raffineria ENI di Livorno con 1.100.000 tonn/anno. Il mercurio disperso in atmosfera, inoltre, è stato rilevato in 4 grammi per 1000 kg di cloro prodotto, corrispondenti a 480 kg di mercurio l’anno in atmosfera.

Grossi finanziamenti pubblici alla Solvay di Rosignano

Ai finanziamenti pubblici già visti sopra, si aggiungono anche i 108 milioni di euro concessi dal MISE (Governo Renzi) e dalla Regione Toscana il 1 dicembre 2016, senza alcuna contropartita, sia occupazionale che ambientale da parte di Solvay.

Alcuni aspetti epidemiologici

Rosignano Marittimo è un comune della costa toscana di 30.807 abitanti, che ospita con grande disagio dal 1913 l’unica sodiera italiana, con forti scarichi in aria e in mare (spiagge bianche), due centrali elettriche a gas, un impianto per la produzione di cloro e soda caustica, un altro di polietilene ed uno di acqua ossigenata. Dal 1953 al 1978 ha marciato nell’ambito Solvay l’impianto CVM (cloruro di vinile monomero), chiuso nel 1978 per un’indagine epidemiologica che dimostrava gli effetti cancerogeni e teratogeni dello stesso CVM sulla popolazione di Rosignano Solvay, la frazione più popolata (l’indagine è disponibile presso l’autore e sul sito di MD Livorno). Fuori dagli impianti, Solvay ospita con grande disagio dal 1982 la discarica di Scapigliato, una delle più grandi della Toscana, e dal 2001 il porto turistico Cala dei Medici per 600 posti barca a motore. Vi transita l’Autostrada Genova-Rosignano.

Dal sito di ARS (Agenzia regionale sanità) risultano i seguenti dati riguardanti il comune di Rosignano. La mortalità per tutte le cause è in eccesso sulla Toscana di 13,53 punti nel decennio 2007-2016. La mortalità per malattie dell’apparato genito urinario è in eccesso sulla Toscana di 2,58 punti, 2007-2016. La mortalità per tumore alla mammella è in eccesso a Rosignano sulla Toscana di 9,02 punti, equivalenti al 27,6% di eccesso nel decennio 2006-2015 nella vecchia versione del sito ARS. Sulla nuova versione questo dato di mortalità non appare più, incomprensibilmente. Su 86 femmine decedute nel decennio 2006-2015 per tumore alla mammella, 23,7 sono decedute in eccesso sulla Toscana. I ricoveri per tumori sono in eccesso sulla Toscana di 0,20 punti, 2015-2019. I ricoveri per tumore alla mammella sono in eccesso sulla Toscana di 0,19 punti, 2015-2019. Malformazioni: i nati vivi o soggetti a Interruzione Volontaria Gravidanza che presentavano almeno una malformazione nel decennio 2005-2014 sono in eccesso sulla Toscana di 4,12 punti. I nati vivi di basso peso alla nascita sono in eccesso sulla Toscana di 0,77 punti nel decennio 2009-2018. I malati cronici di diabete mellito sono in eccesso sulla Toscana di 4,1 punti nel 2019. I malati cronici di demenza sono in eccesso sulla Toscana di 0,81 punti nel 2019. Gli Accessi per visite specialistiche sono in eccesso a Rosignano sulla Toscana di 61,19 punti nel 2019.

Mesoteliomi, malattie del sistema nervoso ed Alzheimer

Nello studio a cui partecipò Claudio Marabotti, 2016, si traccia un paragone epidemiologico tra Rosignano (con industria e discarica) e Cecina: “In tutta la Bassa Val di Cecina si sono osservati valori significativamente elevati per i tassi standardizzati di mortalità dovuti a mesotelioma, cardiopatie ischemiche, malattie cerebrovascolari, Alzheimer e altre malattie degenerative del sistema nervoso. Nel comune di Rosignano è stato confermato un eccesso significativo di mortalità per tutte le patologie di questo gruppo. Al contrario, il comune di Cecina mostra solo un tasso significativamente elevato di mortalità dovuta a cardiopatie ischemiche.” “Un legame causale tra la vicinanza agli impianti industriali e il mesotelioma sembra confermato dai presenti dati che mostrano un incremento di mortalità per mesotelioma solo nell’area industrializzata di Rosignano Marittimo.” (…) ” Sia la mortalità per l’Alzheimer che per le malattie cerebrovascolari è significativamente elevata nel comune di Rosignano Marittimo, ciò suggerisce un possibile ruolo patogenetico delle sostanze inquinanti in queste malattie.”

[di Maurizio Marchi – Medicina Democratica]

Avanza la ricerca per produrre energia sulla Luna

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L’University of Technology (TalTech) di Tallinn, in Estonia, sta studiando un nuovo metodo per fornire energia agli insediamenti lunari tramite la creazione di celle solari rivoluzionarie direttamente sulla Luna. La ricerca mira a sfruttare materiali facilmente reperibili nel suolo del satellite, con la previsione di impiegarli nel rifornimento di elettricità per i futuri avamposti dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) – e dei suoi partner internazionali – la quale ha individuato il polo sud della Luna come potenziale sito per una base. Questo, infatti, non solo è sempre esposto alla luce del sole, ma potrebbe anche rivelare la presenza di acqua.

La chiave della creazione di queste particolari celle solari, risiederebbe nei piccolissimi cristalli di pirite (FeS2) i quali sono costituiti da ferro e zolfo, elementi reperibili con facilità nella regolite (insieme eterogeneo di sedimenti e polvere che compone lo strato più esterno della superficie dei pianeti rocciosi come la Terra, e dei corpi celesti come le lune) della Luna. L’obiettivo è quindi creare una tecnologia formata da diversi strati di polimeri e integrare in ognuno di questi cristalli di pirite grandi come un granello di sabbia (circa quattro centesimi di millimetri), capaci di assorbire la luce del sole e convertirla in energia. Nello specifico si tratterebbe di una cella solare a strato monogranulo, in cui ogni minuscolo cristallo funzionerebbe come cella solare individuale. Anche se l’energia generata da ognuna di queste non sarebbe tanta, non ci saranno limiti in termini di dimensioni e forma.

L’innovazione principale della ricerca consiste nello strato di assorbimento della luce costituito dalla polvere monocristallina contenente elementi abbondanti e a basso costo. Un aspetto rivoluzionario considerando che, da anni, numerose realtà – compresi molti governi – si stanno impegnando nella ricerca di tecnologie che consentano di stabilire una base sulla Luna o su altri corpi celesti (Marte). Per fare ciò, è fondamentale tenere in considerazione come sostenere le persone in luoghi così lontani dal nostro Pianeta. Ecco perché la questione energetica è la prima da risolvere cercando, senza abusarne, di produrla con materia prima rintracciabile in loco, e la TalTech sembra sulla buona strada. Questa ha spiegato di aver iniziato le ricerche mettendosi in contatto con l’ESA circa sei anni fa, e di aver testato l’idoneità e la resistenza del progetto in un ambiente spaziale considerato ostile. La tecnologia ha superato il test.

[di Eugenia Greco]

Covid: introvabile in tutta Italia antibiotico più utilizzato

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Risulta essere introvabile nelle farmacie italiane da giorni l’antibiotico maggiormente utilizzato per evitare che i malati covid contraggano eventuali infezioni batteriche concomitanti, lo Zitromax, così come il generico, l’Azitromicina. Secondo quanto riporta l’agenzia di stampa Ansa, a mancare sarebbe la molecola necessaria per produrre il farmaco, il quale viene prescritto in associazione con gli antiinfiammatori. Negli ultimi 2 mesi le persone hanno usufruito molto dell’antibiotico in questione a causa della crescita dei contagi, motivo per cui il medicinale è divenuto introvabile. Inoltre, sottolinea sempre l’Ansa, ciò potrebbe però essere dovuto anche alle persone che, nonostante non abbiano contratto la malattia, per paura del contagio si sono assicurate il farmaco.

Covid, l’odissea burocratica dei positivi in Lombardia

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La nuova ondata pandemica ha visibilmente generato svariati inghippi gestionali in tutta Italia. Un rebus burocratico che accomuna buona parte del Paese ma con differenze territoriali, come ovvio in un sistema sanitario gestito a livello regionale. In seguito alle segnalazioni ricevute, L’Indipendente ha raccolto testimonianze e dati per capire la realtà di un caso specifico, quello della regione Lombardia. Tante le storie di chi ha incontrato importanti difficoltà nel riottenere il green pass dopo il famigerato tampone risultato positivo. Tanto i residenti quanto i domiciliati nella regione Lombardia e soprattutto nella popolosa città di Milano, hanno lamentato gravi ritardi nel ricevere assistenza sanitaria. Uno dei punti più complessi per i cittadini, specialmente prima del Decreto-legge n. 229, è stato ricevere la necessaria chiamata dell’ATS (Agenzia Tutela della Salute) per effettuare il tampone di fine isolamento. Fino al 31 dicembre 2021 infatti, giorno in cui è entrato in vigore il Decreto-legge n. 229, per i positivi era previsto l’isolamento di dieci giorni e se ancora positivi al decimo giorno, altri sette giorni obbligatori fino a un massimo di ventuno. Al decimo giorno, con un tampone molecolare negativo si poteva porre fine alla quarantena.

Con il centralino dell’ATS spesso saturo e problemi riscontrati anche sul sito per il troppo sovraccarico, il cittadino positivo in attesa di prenotare il tampone e impossibilitato a seguire tempi ancora più lunghi del previsto, si è trovato costretto spesso a dover “fare da sé”. Intere famiglie hanno dovuto pagare ingenti somme presso strutture private vista la mancata assistenza pubblica. Ad alcuni, la famigerata chiamata da parte dell’ATS è giunta dopo ben 14 giorni, ad altri, invece, non è mai arrivata. Nonostante la segnalazione da parte di farmacie, medico di base o strutture competenti arrivi immediatamente, così come l’sms con link in cui inserire i propri dati e segnalare eventuali ultimi contatti stretti, prenotare un tampone dopo dieci giorni è risultato, per molti e il più delle volte, una procedura ai confini dell’impossibile. Tra l’altro, la misura del tampone, rigorosamente molecolare, per potere terminare il proprio isolamento è stata abbandonata secondo quanto previsto dal nuovo DPCM, dove basta anche un tampone rapido per mettere fine all’isolamento. Probabilmente anche prendendo nota dell’impossibilità pratica di portare avanti la procedura di fronte al picco dei contagi. 

Novità utile per snellire le procedure ma che ha generato un senso di frustrazione in chi, fino al giorno prima, ha incontrato svariate difficoltà per il tanto necessario tampone molecolare. Viene da chiedersi cosa sia cambiato, visto che il cosiddetto tampone rapido rimane comunque di gran lunga meno efficace del molecolare. Lo scoppio della pandemia di SARS-CoV-2, ha senza dubbio messo in crisi svariati settori e a dura prova il Servizio sanitario nazionale. Con la consapevolezza della comprensibile crisi generatasi, risulta comunque difficile “giustificare” alcune importanti mancanze, tanto più a due anni di distanza dall’inizio della pandemia. È stata poi sì, presa la scelta di introdurre procedure semplificate che, comunque, generano interrogativi. Se in tanti, dopo le peripezie vissute in quanto positivi, hanno avuto ulteriori problemi e snervanti attese per ottenere nuovamente il Green Pass, per altri la revoca del certificato verde non è mai avvenuta, anche e soprattutto dopo il 31 dicembre 2021. Il paradosso più smaccato è quello vissuto da tanti positivi a quali, per ritardi burocratici, è stato lasciato il green pass attivo per gran parte del periodo di positività (potendo quindi formalmente continuare ad accedere ai locali) per poi essere sospeso a pochissimi giorni dalla fine della quarantena, trovandosi di conseguenza privi di green pass anche per diversi giorni dopo l’esser tornati negativi.

Ora, con il nuovo Dpcm, riavere il Green Pass in quanto guariti sembra invece un processo meno complesso, vista la possibilità di effettuare il tampone di fine isolamento o quarantena anche rapido e anche presso una farmacia, la quale può provvedere per consegnare direttamente il certificato verde. Intanto, però, dall’inizio della nuova ondata la confusione ha regnato sovrana, con pecche nel sistema e gravi crisi da parte dei cittadini, sentitosi abbandonati e all’interno di un vortice in cui ogni organo competente sembrava “passarsi il testimone” della responsabilità, in quelle volte in cui finalmente il centralino era reperibile. In molti infatti – e le foto di alcune città come Milano parlano da sé – hanno preso iniziativa andando a cercare disperatamente di effettuare tamponi, con file di persone fuori dalle farmacie e strutture private libere di richiedere somme molto importanti perché, spesso, rappresentavano l’unica soluzione.

[di Francesca Naima]