sabato 20 Settembre 2025
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Messico, i contadini battono la multinazionale Monsanto: no al mais OGM

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Al termine di una lunga battaglia Davide ha battuto Golia: un piccolo gruppo di attivisti e contadini messicani ha avuto ragione del colosso degli OGM Bayer-Monsanto, ottenendo dalla Corte Suprema del Messico la proroga del divieto alla coltura di semi di mais transgenici in tutto il territorio dello stato. Dopo otto anni di battaglia legale e decine di impugnazioni da parte dei colossi del settore, la Corte Suprema di Giustizia del Messico si è pronunciata per la prima volta sul contenzioso, respingendo all’unanimità tutti i ricorsi presentati da Monsanto ed altre grandi aziende del settore come Syngenta, PHI e Dow.

Il gruppo di attivisti protagonisti della lunga battaglia si chiama Demanda Colectiva en Defensa del Maíz Nativo. Il tutto ha avuto inizio nel 2013, con la presentazione di una petizione al governo contro l’uso del mais geneticamente modificato, facendo appello alla Costituzione del paese, la quale garantisce il diritto a vivere in un ambiente sano. Il gruppo, costituito per la maggior parte da agricoltori, associazioni ambientaliste e scienziati, ha portato avanti la causa, sostenendo che il mais OGM provoca l’impollinazione incrociata e mette in pericolo quello autoctono, alimento alla base della cucina messicana. 

La Corte Suprema ha quindi ordinato un’ingiunzione cautelare, al fine di impedire alle aziende di piantare mais da laboratorio fino a quando non sarebbe stata presa una decisione definitiva. In questi otto anni, durante cui l’ingiunzione è rimasta in vigore, alcune società – tra cui la Bayer-Monsanto – hanno presentato dozzine di ricorsi, ma invano. I legali degli attivisti, infatti, hanno tenuto duro fino a oggi uscendone vincenti, in quanto i Ministri della Corte hanno ratificato la misura cautelare per mantenere la sospensione della semina di mais OGM. Decisione conforme al decreto presidenziale risalente al dicembre 2020, il quale ha ordinato la revoca delle autorizzazioni per l’uso di granella di mais transgenico negli alimenti entro e non oltre il 31 gennaio 2024.   

[di Eugenia Greco]

Rifiuti speciali, l’Italia continua a non avere idea di come gestirli

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In Italia il progressivo aumento della quantità di rifiuti speciali, ossia quelli prodotti dalle attività economiche, non ha portato alla presenza di nuovi impianti in grado di gestirli: è quanto sottolineato da un rapporto della società indipendente Ref ricerche. Nel 2019 la produzione di rifiuti speciali a livello nazionale ha raggiunto quasi 154 milioni di tonnellate, in crescita del 7% sul 2018 e del 16% rispetto al 2015, per far fronte ai quali l’Italia si è affidata a 10.839 impianti per la gestione dei rifiuti speciali, un numero «in leggera diminuzione rispetto agli 11.209 del 2017 e ai 11.087 del 2016».

Nello specifico, nel 2019 quasi 164,5 milioni di tonnellate sono state gestite in Italia (una quantità maggiore di quelle prodotte per ragioni insite nel ciclo gestionale). Precisamente 132,8 milioni di tonnellate rientrano nelle attività di recupero (81%) mentre 31,6 milioni di tonnellate in quelle di smaltimento (19%), per le quali «i volumi recuperati sono 16,3 milioni di tonnellate (54%) mentre lo smaltimento si attesta al 46% essendo destinati ad esso 14 milioni di tonnellate di rifiuti».

A tali valori però bisogna aggiungere i rifiuti speciali derivanti dal trattamento dei rifiuti urbani: il 52% degli 11,6 milioni di essi viene smaltito in discarica, a fronte del solo 16% avviato a recupero di materia. Per questo nel complesso «è possibile individuare un insieme di 20 milioni di tonnellate di rifiuti speciali da rifiuti avviati a smaltimento ed altresì è evidente che lo smaltimento in discarica riveste ancora un peso preponderante quale forma di gestione dei rifiuti da rifiuti». In tal senso, si deve ricorrere allo smaltimento solo quando esso rappresenti l’unica opzione viabile, e bisogna dunque «implementare un’adeguata dotazione infrastrutturale di impiantistica di trattamento finale che consenta il passaggio verso forme di gestione preferibili in termini di economia circolare». La necessità in pratica è quella di valorizzare scarti che altrimenti finirebbero in discarica e non determinerebbero nessun beneficio a livello ambientale.

Analizzando il saldo della bilancia commerciale dei rifiuti speciali in termini di differenze import/export si nota che il bilancio complessivo a livello nazionale chiude in positivo di 3,1 milioni di tonnellate, con un import pari a 7,1 milioni e un export pari a 3,9 milioni. Bisogna però contestualizzare tali dati: innanzitutto i 3,9 milioni di tonnellate di rifiuti esportati nel 2019 sono maggiori rispetto ai 3,1 che venivano esportati nel 2016. Il saldo attivo deriva quasi esclusivamente da sole due regioni, ossia la Lombardia ed il Friuli-Venezia Giulia, ed infatti i 10.839 impianti sopracitati sono situati in larga parte al Nord. Gli stoccaggi nell’ultimo quinquennio sono cresciuti, il che è sinonimo delle difficoltà nei trattamenti finali rilevate in diverse aree del nostro Paese.

È per tutti questi motivi che, conclude il report, nel nostro Paese «il saldo tra la produzione di rifiuti speciali da avviare a recupero energetico ed a smaltimento e la capacità di gestione di tale ammontare è negativo per oltre 2,4 milioni di tonnellate».

[di Raffaele De Luca]

La Francia scappa dal Mali: doveva sconfiggere il terrorismo, gli attentati sono quintuplicati

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Guinean Special Forces soldiers conduct weapons range training for both close quarters rifle and sniper skills during FLINTLOCK 20 in Nouakchott, Mauritania, February 17, 2020. Flintlock is an annual, integrated military and law enforcement exercise that has strengthened key partner-nation forces throughout North and West Africa since 2005. Flintlock is U.S Africa Command’s premier and largest annual Special Operations Forces exercise. (U.S. Navy photo by Mass Communication Specialist 2nd Class Evan Parker)

La Francia ha iniziato a ritirare le truppe dalle sue basi situate nelle zone più a nord del Mali, nella regione africana del Sahel, arrivate lì nel 2013 per portare avanti l’operazione “Barkhane” finalizzata a combattere il terrorismo jihadista. Le sedi di Kidal, Tessalit e Timbuktu saranno chiuse entro la fine dell’anno e riconsegnate all’esercito maliano. Al momento le 5.100 truppe francesi sul territorio saranno ridotte a 3.000. Il Mali ha forti legami storici con la Francia in quanto sua ex colonia. Infatti, proprio nella zona del Sahel, la Francia, come potenza occidentale, detiene un grosso controllo.

Ma questi otto anni di lotta anti-jihadista non hanno portato i risultati sperati. Ancora vaste aree del territorio del Mali sfuggono al controllo delle autorità locali e le proteste continuano a farsi sentire. Hamidou Cissé, appartenente al gruppo “Patriots of Mali” ha detto che bisogna voltare pagina, perché “Dopo che sono arrivati [i francesi], abbiamo pensato che avremmo avuto la pace. Ma se si ritirano oggi, tra sei mesi o un anno, soffriremo, ma è meglio soffrire che restare nelle loro mani per sempre”.

All’epoca fu il ministro Hollande ad annunciare la notizia della collaborazione tra Francia e Mali, sostenendo che “Le truppe francesi si uniscono alla lotta del Mali contro gli elementi terroristici islamisti”. L’intenzione inizialmente dichiarata era quella di schierare le truppe francesi in Mali, insieme all’esercito locale, per contrastare l’avanzata delle forze islamiste che si dirigevano verso sud. Molti, invece, hanno sostenuto e continuano a sostenere che l’obiettivo dell’intervento francese fosse proteggere più da vicino gli interessi economici francesi nella regione del Sahel e dell’Africa occidentale. Perché? Probabilmente perché ci sono pochi risultati concreti ed effettivi sul territorio, e in otto anni la situazione della sicurezza nel paese non ha fatto altro che peggiorare, giorno dopo giorno.

Dati alla mano, gli attacchi terroristici nel Sahel sono quintuplicati dal 2016. Oltre alle vittime civili, sono aumentati notevolmente gli attacchi ai militari e alle forze internazionali. Secondo il Global Terrorism Index 2019 paesi come il Mali e il Niger sono ancora tra i primi 10 stati maggiormente colpiti dal terrorismo in Africa. Durante l’ultimo trimestre del 2019, quasi 200 soldati, tra cui 100 nigerini e oltre 90 maliani, sono stati uccisi dagli estremisti. L’esercito francese ha perso in totale più di 50 uomini.

Il problema di fondo è che non è possibile intervenire in “missioni di pace” senza effettivamente conoscere il territorio, le sue caratteristiche e la storia presente e passata. Ad esempio, mentre la Francia si impegnava a combattere il terrorismo, la crisi nella regione si è trasformata in un conflitto etnico interno. Nello specifico, nella regione di Mopti c’è conflitto tra Fulani e Dogon, così come tra Bambara e Fulani. A Timbuctù e Gao c’è un conflitto tra i Tuareg e gli Arabi da un lato, e tra i Tuareg e i Songhai dall’altro.

E ancora. La Francia è stata inoltre accusata da molti maliani di proteggere e sostenere gruppi separatisti armati a Kidal, a nord del Mali. Spieghiamo meglio. Durante il suo intervento l’esercito francese, aiutato da altri eserciti africani, ha cacciato da Kidal i jihadisti legati ad Al-Qaeda, ma non ha fatto niente per liberare il territorio dai 50.000 abitanti tuareg che la occupano ingiustamente.

Dall’altra parte il crescente interesse della Russia nella regione ha attirato l’attenzione di governo ed abitanti, speranzosi di trovare soluzioni alternative. Le truppe russe sarebbero sufficienti a rimpiazzare immediatamente quelle francesi. Al momento pare che l’opinione pubblica del Mali favorisca l’arrivo dei russi, soprattutto per tentare di far fronte alla precaria situazione politica del Paese. Dopo il colpo di stato dei mesi scorsi, a luglio il nuovo presidente del governo di transizione, il colonnello Assimi Goïta, è stato vittima di un tentato omicidio alla Grande Moschea di Bamako.

Cosa si prospetta per il Mali?

Le scelte, se possiamo definirle tali, sono due. Stabilire un nuovo accordo di cooperazione con la Russia, ad esempio, ritenuta più adatta a gestire la situazione, addestrando l’esercito locale e fornendo protezione. Oppure trattare con i jihadisti, mossa totalmente esclusa dalla Francia.

[di Gloria Ferrari]

Dal carcere i leader Forza Nuova accusano Lamorgese e polizia: guidati all’assalto della CGIL

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L’assalto del 9 ottobre alla sede della CGIL a Roma potrebbe essere stato concordato con la polizia: è quanto emerge dagli interrogatori degli arrestati per l’ormai noto blitz alla sede del sindacato, riportati dal Tg La7. Un dettaglio che, se confermato, genererebbe non pochi dubbi sulla gestione dell’ordine pubblico e dunque sull’operato del ministero dell’Interno guidato da Luciana Lamorgese. Secondo quanto spiegato dal leader di Forza Nuova Giuliano Castellino, infatti, dopo la decisione di dirigersi verso la sede della CGIL, l’ex Nar (Nuclei armati rivoluzionari) Luigi Aronica sarebbe stato mandato a «parlare con i funzionari della Digos e della Questura in piazza» che avrebbero autorizzato «il corteo da Piazza del Popolo fin sotto il palazzo della CGIL».

Una versione praticamente confermata dallo stesso Luigi Aronica, il quale si è soffermato sulla trattativa con le forze dell’ordine ed ha riportato le parole che sarebbero state pronunciate dai membri della Digos in seguito alla proposta: «Parliamo con i nostri dirigenti e vi facciamo sapere, torna tra mezz’ora». Una volta passato tale lasso di tempo sarebbe dunque arrivato il via libera, con le forze dell’ordine che secondo Aronica avrebbero affermato: «L’ok è arrivato, adesso ci mettiamo d’accordo per il tragitto ed andiamo su». Non solo: Aronica ha anche dichiarato che alla testa del corteo ci sarebbero stati proprio i dirigenti di polizia, i quali «dicevano dove andare».

I nomi degli individui con cui ha parlato, Aronica però non li ha fatti per «una questione morale ed etica». Tuttavia, grazie all’insistenza del giudice nei confronti dei vari arrestati uno dei nomi è uscito fuori: tale «dottor Silvestri», ovvero sia «uno dei massimi responsabili della Digos di Roma». Ad ogni modo, ha precisato Aronica, «non è che si trattasse solo del dottor Silvestri, in quanto era accompagnato da tutta una serie di altri dirigenti non essendo un colloquio avvenuto in una stanza con un gruppo limitato di persone».

Insomma si tratta di affermazioni che, seppur da verificare, forniscono nuovi elementi per valutare la gestione dell’ordine pubblico attuata quel giorno. A tal proposito, vi è oltretutto il dubbio che la Questura fosse a conoscenza della partecipazione di Castellino alla manifestazione già prima dello svolgersi della stessa. Il leader di Forza Nuova ha infatti scritto una lettera all’agenzia di stampa Adnkronos in cui si è difeso dalle accuse ed ha inoltre sostenuto di aver fatto sapere alla Questura che si sarebbe recato in piazza a Roma quel giorno. «Non avevo nessun braccialetto, né Daspo per le piazze o divieti specifici. La mia sorveglianza speciale mi imponeva di comunicare alla Questura la mia partecipazione a manifestazioni autorizzate. Cosa che ho sempre fatto tramite pec, anche sabato 9 ottobre».

[di Raffaele De Luca]

Referendum cannabis: depositate in Cassazione 630mila firme

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Nella giornata di oggi sono state depositate in Cassazione le oltre 630.000 firme per il referendum sulla cannabis. Dopo il conteggio delle stesse – raccolte in poco più di un mese – i quesiti passeranno al vaglio della Consulta e, se ammissibili, sarà fissata la data del referendum. «Le sottoscrizioni sono arrivate dalle grandi città ma anche dai piccoli comuni, un’omogeneità che sottolinea la portata e l’interesse del tema», ha affermato il presidente del comitato promotore, Marco Perduca. Con un Parlamento «immobile sui diritti, l’arma referendaria è l’unico mezzo con cui i cittadini possono far sentire la loro voce», ha inoltre aggiunto Perduca.

Pensioni, la riforma Draghi non è altro che il ritorno alla Fornero (ma non si può dire)

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L’ennesima riforma del sistema pensionistico è approdata al consiglio dei ministri, pronta ad essere approvata in tempi record e sostanzialmente senza opposizione, come ormai di costume da quando Mario Draghi siede sulla poltrona di presidente del Consiglio. Ieri l’ex capo della BCE si è guadagnato anche l’apertura di credito dei sindacati confederali. Cgil, Cisl e Uil si sono fatti bastare una riforma diluita su più anni e la promessa di “riparlarne” il prossimo anno per rinunciare ad ogni forma di mobilitazione di protesta del mondo del lavoro. Ma la linea tracciata da Mario Draghi è molto chiara e incontrovertibile: in massimo quattro anni si tornerà alla legge Fornero, in pensione non prima dei 67 anni. Piaccia o meno, si preferisce avere lavoratori sempre più vecchi, limitando l’entrata dei giovani, pur di far quadrare i conti e rispettare l’austerità di bilancio.

Rimarrà una proroga per l’uscita anticipata per i lavori gravosi e per le donne, ma anche su questo l’esecutivo preannuncia una stretta. L’antifona è che “i tempi di vacche grasse sono finiti” e i soldi stanziati saranno a scalare: 600 milioni per il 2022, 450 nel 2023, 510 nel 2024. Le quote spariranno via via, ma al di là delle ipotesi che erano circolate su come abbandonarle (una progressione con quota 102, 103 e 104 nel triennio), per adesso dall’ultima cabina di regia è emerso che l’unico elemento certo è quota 102 per il 2022 (64 anni d’età per la pensione), poi da gennaio 2023 si riaprirà il tavolo coi sindacati.

Nel complesso certamente cambiano le cifre degli assegni, di un importo che però è variabile a seconda del livello di contributi e della relativa parte retributiva. Per molti l’importo minimo potrebbe anche variare di poco ma, come detto all’inizio, a preoccupare è la tendenza. La spesa per pensioni, con questa impostazione, è destinata a scendere sempre di più fino al 2050, arrivando dal 17% del Pil a una cifra tra il 13 e il 14%. E se un bilancio non si valuta solo per quanto è generoso, va però considerato che anche il reddito dei pensionati è importante ai fini dell’economia e il 36% di essi lo riceve sotto i mille euro. Calmierare la previdenza è sterile se non si incrementa l’occupazione, specie giovanile. Sostanzialmente di quelli che questi assegni di fatto dovranno pagarli. Sembra che ciò non preoccupi le sentinelle di Bruxelles, e neppure la stessa Elsa Fornero, la quale, ricordiamo, è attualmente consulente del governo e si è detta felice che le sue opinioni vengano di nuovo reputate importanti.

Matteo Salvini prova a fare finta di niente. Non può certo dire ai suoi elettori che il governo da lui appoggiato sta di fatto smontando Quota 100. Il governo su questo cerca di aiutarlo, e nessuno si sente di affermare quello che è ovvio, cioè che sta rientrando in campo la riforma Fornero. Troppo impopolare, per tutti. Il leader leghista in particolar modo prova a giocare con le parole, quota 102 non suona poi troppo dissimile da quota 100 e pare una via d’uscita dignitosa, poi l’anno prossimo ci si penserà.

Tornando alla riforma in sé, è vero che la questione delle pensioni non può essere affrontata se non la si guarda anche da una prospettiva macroeconomica. Le risorse a cui un anziano avrà diritto e l’età alla quale le otterrà influiscono su economia e bilancio, nonché indirettamente sui livelli di reddito e il tutto si lega alla demografia. La popolazione italiana è in costante invecchiamento e negli ultimi anni i redditi sono calati. Come fa notare in una interessante analisi l’economista e docente Felice Roberto Pizzuti, dal 1996 (anno della riforma Prodi in cui si passa al sistema contributivo) gli squilibri tra spese previdenziali e entrate previdenziali, al netto delle ritenute fiscali, sono stati sanati e già da 20 anni il saldo è attivo. Il rapporto tra spesa pensionistica e Pil avrà una curva discendente. Come pure la relazione tra salari e pensioni. Tradotto: non è affatto vero che l’ennesima stretta sulle pensioni è necessaria per i bilanci dell’Inps né per evitare che i giovani di oggi si trovino a ripagare i debiti provocati dalle pensioni dei sessantenni di oggi, i quali la loro pensione se la sono in verità ampiamente pagata attraverso i contributi versati. La nuova riforma delle pensioni nasconde semplicemente l’ennesima scelta in favore della austerità, figlia di una ideologia liberista che continua a raschiare il fondo del barile anziché fare leva su un rilancio della spesa e della crescita.

[di Giampiero Cinelli]

 

India: Corte Suprema ordina indagine contro governo per spionaggio

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La Corte Suprema dell’India ha ordinato di creare un comitato indipendente per indagare e capire se il governo abbia spiato illegalmente oppositori politici, giornalisti ed attivisti attraverso il software di sorveglianza israeliano Pegasus: le leggi indiane, infatti, vietano l’hacking anche da parte dello stato. La delegazione sarà formata da tre esperti di sicurezza informatica, il cui operato sarà supervisionato da un giudice della Corte Suprema in pensione. L’ordine rappresenta una risposta ai diversi giornalisti e attivisti indiani che avevano segnalato di essere stati vittime di Pegasus.

Il mondo si muove verso la legalizzazione della cannabis

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Dopo almeno 50 anni di proibizionismo a livello globale, sono forti le spinte verso il cambiamento, a favore di una decriminalizzazione delle droghe leggere se non di una loro completa legalizzazione. Nella maggior parte dei paesi del mondo la cannabis è ancora completamente illegale, anche se spesso e volentieri il consumo non è effettivamente perseguito. Praticamente in tutto il continente africano, come anche in quello asiatico, l’uso di cannabis non è tollerato. In alcuni paesi come Arabia Saudita e Malesia, addirittura, sia il consumo che il possesso sono puniti con il carcere, mentre per il traffico si rischia la condanna capitale. Spesso non c’è alcuna distinzione tra droghe pesanti e droghe leggere.

L’Uruguay di Pepe Mujica ha aperto la strada

In America Latina, grande vittima del proibizionismo di matrice statunitense, la cannabis è per lo più illegale ma depenalizzata. Fa eccezione l’Uruguay, il primo paese al mondo ad aver legalizzato l’uso non solo medico, ma anche ricreativo della cannabis nel 2013. Con la legge 19172 del 19 luglio 2017, voluta dall’allora presidente José “Pepe” Mujica, è anzi diventata monopolio di stato, con un prezzo fissato a 70 centesimi al grammo. È legale anche coltivarla in casa, purché ci si iscriva ad uno dei vari circoli di coltivatori istituiti dal governo, ed è legale acquistarla, in farmacia, con un tetto mensile di 40 grammi. Produttori e consumatori sono poi tenuti ad iscriversi ad un registro presso il ministero della salute. Almeno per i cittadini uruguaiani, insomma, tutto è regolato.

La situazione in Europa

Anche in buona parte del continente europeo la cannabis resta una sostanza illegale e criminalizzata, ma la situazione, tra i vari stati, è piuttosto eterogenea. Si va da paesi come l’Ungheria, dove al pari di paesi come l’Arabia Saudita non esiste alcuna distinzione tra droghe leggere e pesanti e i reati legati alla cannabis sono puniti nello stesso modo in cui sarebbero puniti quelli legati, per esempio, all’eroina, a posti come i Paesi Bassi, dove invece regna una politica di tolleranza. Anche in Olanda, conosciuta in tutta Europa come la patria della cannabis legale, la legislazione è complessa a riguardo. In realtà la produzione è vietata e anche la vendita può essere punita, ma se a gestirla è un coffee shop autorizzato, che vende fino ad un limite di 5 grammi a consumatore, allora non viene avviata un’investigazione. Si tratta insomma di una politica più permissiva e orientata alla regolamentazione, volta a prevenire i rischi di un mercato nero della droga sia per gli individui che per la società.

15 Stati Usa hanno legalizzato l’erba

Forse il caso più interessante è quello degli Stati Uniti, i padri della war on drugs e oggi attraversati in lungo e in largo da una spinta riformatrice che sta interessando anche gli stati più tradizionalisti. Nel 2012, il Colorado e Washington hanno per primi intrapreso la strada della legalizzazione: al referendum, la maggior parte degli elettori ha votato sì. Da allora, sono quindici gli stati in cui l’uso della marijuana non comporta più severi iter legali (tra cui la California, il più popoloso), così come il distretto di Columbia.

In tutti gli stati della West Coast – da Washington all’Arizona – i soggetti dai 21 anni in su possono legalmente fare uso di marijuana. Per quanto riguarda la marijuana medica, gli stati ad averne legalizzato il consumo sono – comprendendo anche i quindici sopracitati – trentasei. Mentre in New Jersey, Arizona, Montana e South Dakota gli elettori sono andati alle urne solo a novembre 2021, votando per legalizzare la cannabis ricreativa, per Idaho, Wyoming, Kansas, Tennessee, Alabama e South Carolina la Marijuana è ancora del tutto illegale. In Texas, tra gli Stati più conservatori, è ora legale solo l’olio di CBD, principio attivo della cannabis avente proprietà rilassanti e mediche, ma non psicoattive.

Venerdì 4 dicembre 2020, la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato un disegno di legge per porre fine al divieto federale sulla cannabis, una delle tappe che segue il Marijuana Opportunity Reinvestment and Expungement Act del 2019 (MORE Act), il quale legalizzerebbe effettivamente la cannabis rimuovendo la marijuana dal Controlled Substances Act, cosicché ci sia un piano federale condiviso tra tutti gli stati. Gli altri punti fondamentali del MORE Act sono: l’eliminazione delle precedenti condanne per crimini legati alla marijuana, l’introduzione di tasse sulla marijuana e la creazione un nuovo programma di spesa del governo.

Il 14 luglio 2021, i senatori Chuck Schumer, Cory Booker e Ron Wyden hanno presentato un disegno di legge per legalizzare e regolamentare la cannabis a livello federale: il Cannabis Administration and Opportunity Act. Come ha affermato Wyden, il proibizionismo ha causato gravi danni alle piccole comunità, soprattutto alle comunità afroamericane. Ha inoltre diffuso falsi miti e promosso una politica di terrorismo psicologico. Legalizzare la cannabis, per anni, è stato sinonimo di incontrollato disastro: si parlava di aumento della criminalità, grande facilità nel passare all’uso di altre sostanze (la cosiddetta “gateway drug theory”), incidenti stradali, omicidi, stupri, furti ed altri cataclismi. Insomma, i proibizionisti prefiguravano l’avvento di una società “drogata” e un paese sull’orlo dell’abisso.

La legalizzazione migliora la società?

I dati che dimostrano che si sta verificato l’opposto. In Colorado e Washington i consumi di cannabis tra i minori di diciotto anni sono iniziati a calare appena dopo la legalizzazione (dato indirettamente proporzionale rispetto al resto della nazione, dove invece il consumo – non ancora legale – andava aumentando). Non solo, ma l’uso delle droghi pesanti è diminuito, smentendo così la teoria del passaggio. Senza parlare dello svuotamento delle carceri per crimini relativi alla detenzione e al consumo di marijuana, che porta chi di dovere a una maggiore attenzione per crimini realmente gravi. La criminalità organizzata, poi – che da sempre ha lucrato sulla sostanza in quanto illegale – si è vista messa con le spalle al muro: tutto di guadagnato per l’economia dello Stato, con nuove e ingenti entrate fiscali.

Un rilancio dell’economia e un nuovo settore lavorativo che possa fruttare in più sensi, questa la vera “conseguenza” della legalizzazione, e parlano i dati: gli stati ad avere legalizzato la cannabis non hanno assolutamente riscontrato un aumento degli incidenti mortali, tantomeno a un aumento dei reati e della criminalità in generale.

Il caso del Canada

Un altro Stato da prendere come esempio, in cui la cannabis è stata legalizzata e ha prodotto effetti tutt’altro che negativi, è il Canada. Nel mese di giugno di due anni fa, il paese ha approvato in via definitiva la legalizzazione della cannabis a scopo ricreativo. Successivamente, nel mese di ottobre, la vendita e il consumo a scopo ricreativo della Marijuana sono stati ufficialmente legalizzati. Come primo grande paese industrializzato – e prima nazione del G7 e del G20 – a fare un passo avanti considerevole per l’argomento marijuana, il Canada è stato preso come esempio e “fonte d’ispirazione”.

La legalizzazione della cannabis ha permesso alle comunità scientifiche di fare passi avanti, visto che la centenaria scia del proibizionismo ha compromesso in maniera considerevole la veridicità di informazioni, oltre a rendere più complicata la ricerca. Il Canada ha scelto di legalizzare la cannabis anche per contrastare il mercato illegale e sono stati fatti passi avanti, anche se le vendite illecite – seppur diminuite – ci sono ancora andando a insistere principalmente sui quartieri popolari. Le cose sono cambiate per ciò che concerne la situazione legale, le carceri non sono più affollati da semplici consumatori e sono diminuiti gli arresti nella comunità afroamericana. Rimane invece strada da fare per risanare tutte le ingiustizie derivanti dalla criminalizzazione dell’erba in passato, visto i tanti che ancora si trovano in carcere per scontare pene comminate negli anni passati.

La cannabis nel rilancio dell’economia

Il fruttuoso business che l’erba avrebbe generato era stato stimato dal capo economista del CIBC World Markets, Avery Shenfeld, in uno studio del 2016: Growing Their Own Revenue: The Fiscal Impacts of Cannabis Legalization. Lo studio – che prevedeva le possibili entrate per il governo sulla base di previsioni di vendita – ipotizzava entrate da un minimo di tre miliardi a un massimo di dieci miliardi di dollari. L’ultimo studio che analizza i cambiamenti nel mercato canadese risale all’estate 2021 ed è stato pubblicato da alcuni ricercatori su Drug and Alcohol Review. Nello studio viene specificato come il mercato legale della Cannabis sia aumentato del 648%: da 158 negozi un mese dopo la legalizzazione, a 1.183 negozi due anni dopo la legalizzazione.

Insomma, diversi paesi nel mondo hanno avviato un processo di graduale decriminalizzazione della cannabis e molti altri stanno appena iniziando a prendere questa strada. Persino gli Stati Uniti, il paese che ha inventato la guerra alla droga, si stanno muovendo in questa direzione, anche se in modo discontinuo ed eterogeneo. La strada è ancora lunga, ma il cambio di direzione appare segnato. 

[di Francesca Naima e Anita Ishaq]

Presidente Taiwan: Stati Uniti ci difenderanno in caso di attacco cinese

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La presidente di Taiwan Tsai Ing-wen, durante un’intervista rilasciata alla Cnn, ha dichiarato di essere certa e fiduciosa del fatto che gli Usa difenderanno l’isola nel caso in cui essa venisse attaccata dalla Cina. Tali affermazioni fanno seguito a quelle del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, che negli scorsi giorni aveva appunto dichiarato che gli Usa si sarebbero schierati con Taiwan in caso di aggressione da parte di Pechino, anche se la Casa Bianca aveva poi riformulato il tutto sostenendo che la linea di Washington non sarebbe cambiata.

Cosa chiedono gli studenti dell’OSA che stanno occupando le scuole superiori

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Spesso delle lotte che si muovono al di fuori del mainstream il lettore ha notizia solo nel momento in cui si verificano casi di cronaca ritenuti degni di nota dai professionisti dell’informazione. Solitamente quando vi è un qualche chiave di lettura utile per screditarli. È stato evidente nel caso delle proteste contro il green pass, lo è ancor di più di fronte ai movimenti di protesta che stanno cominciando ad attraversare il mondo delle scuole superiori protestando contro un’istituzione scolastica che definiscono sempre più simile a una gabbia asservita agli interessi privati. il 21 ottobre vi avevamo dato (unici o quasi) la notizia delle violenze subite da parte della polizia dagli studenti del liceo artistico Ripetta di Roma. Ora, visto l’interesse suscitato in molti lettori dalla loro protesta, abbiamo deciso di dargli direttamente parola, per raccontare cosa li spinge (uniti sotto la sigla OSA – Opposizione Studentesca d’Alternativa) a protestare e soprattutto cosa stia diventando la scuola (post) pandemica. Quello che segue è uno scritto redatto dagli studenti dell’OSA per L’Indipendente che volentieri pubblichiamo, nella convinzione che compito di un media senza padroni sia anche quello di permettere a realtà di opposizione sociale di far sentire la propria voce senza filtri né censure:

“Già è difficile parlare di scuola con chi di questo mondo ne fa parte e lo vive quotidianamente, lo è ancora di più se ciò che scriviamo è rivolto a lettori che questo mondo necessariamente non lo vivono tutti. Questa però è una difficoltà che vogliamo e dobbiamo assumerci se pensiamo (e lo pensiamo) che la scuola sia un pilastro irrinunciabile di ogni società e che debba tornare a essere un tema centrale nel dibattito politico del paese, che interessa tutti e di cui dunque tutti si devono interessare. Perché l’istruzione riguarda la collettività, il suo benessere e le sue prospettive.

Siamo l’OSA – Opposizione Studentesca d’Alternativa e in quanto organizzazione di studenti medi la nostra riflessione si incentra necessariamente sulle scuole superiori: è su queste che verteranno i contenuti di questo contributo, che volentieri facciamo dopo che ci è stato chiesto di articolare meglio alcune delle posizioni che come OSA abbiamo espresso pubblicamente nell’ultimo periodo.

Sì, quando abbiamo definito la scuola “una vera e propria gabbia asservita agli interessi dei privati”, una gabbia da rompere e a cui opporsi frontalmente, sapevamo che questo avrebbe destato attenzione. Il nostro contrasto netto, diretto e inequivocabile nei confronti dell’attuale modello scolastico esprime una rottura non solo rispetto al clima di pacificazione sociale voluto e creato dal Governo Draghi – con il ruolo complice dei media mainstream asserviti all’attuale compagine governativa – ma anche rispetto alla tradizione classica delle strutture politiche del mondo scuola (comitati, associazioni, sindacati, collettivi, organizzazioni studentesche, etc etc) di difendere a spada tratta la scuola pubblica. Noi pensiamo che non ci sia più nulla da recuperare o difendere in un modello scolastico che è stato svuotato di ogni sua funzione emancipatrice.

Se da una parte il progressivo smantellamento dell’istruzione pubblica italiana viene da lontano, dall’altro è chiaro che la Pandemia ha accelerato le tendenze in atto, segnando un prima e dopo per la scuola pubblica italiana. Le problematiche date dalle carenze storiche dei nostri istituti (precariato, istituti insicuri e fatiscenti, mancanza di personale scolastico, classi pollaio etc etc) si sono accentuate e mostrate nella gestione critica delle attività didattiche in relazione alle normative anti-Covid che l’epidemia ha obbligato. Dall’altro, il modello di formazione vigente ha mostrato tutti i suoi limiti strutturali e ha condannato noi studenti a una crisi pedagogica senza precedenti perché ha stravolto la funzione emancipatrice che la formazione dovrebbe avere.

La formazione nozionistica, incentrata sulla valutazione e sulle famigerate competenze piuttosto che sull’aspetto didattico e pedagogico ha fallito la sua funzione educativa in modo palese. Se si chiede oggi a uno studente perché studia, nella stragrande maggioranza dei casi ci si sentirà rispondere che lo fa perché ancora gli manca il voto in quella materia, o perché ha una verifica o un’interrogazione. Non per imparare, sviluppare un sapere duraturo o formarsi. Questo è il prodotto di un modello scolastico costruito negli ultimi 30 anni con riforme che hanno progressivamente allontanato la scuola dalla sua funzione emancipatrice, didattica e pedagogica, per avvicinarla alle necessità delle aziende e dei privati. In questo processo vi è stata una sostanziale linea di continuità fra i vari governi che si sono succeduti in questi anni, indipendentemente dall’appartenenza politica al centro destra o al centro sinistra, Governo Draghi incluso. È per questo che definiamo la nostra scuola una Gabbia, perché è priva di elementi progressivi e impedisce l’emancipazione degli studenti. Per questo la nostra lotta non può che essere contro questo modello di scuola e contro questo Governo.

In questa fase di profondi cambiamenti, su scala globale e nazionale, in cui sono tanti a parlare di giovani, noi pensiamo che noi studenti possiamo essere motore del cambiamento sociale nel nostro paese solo se sapremo riabbracciare collettivamente un’ipotesi di lotta e mobilitazione di massa, di rottura con questo sistema che ci incatena in questo drammatico presente mentre ci nega il futuro. Questa è la sfida che con OSA abbiamo davanti e che siamo pronti ad affrontare, con la determinazione di chi non ha più nulla da perdere e tutto da conquistare”.

[a cura di OSA – Opposizione Studentesca d’Alternativa]