giovedì 18 Settembre 2025
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Le isole di plastica cambiano l’ecologia marina: la fauna ha iniziato a colonizzarle

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Le isole di rifiuti in plastica, che da anni ormai galleggiano sulla superficie degli oceani, hanno delle conseguenze tutt’altro che scontate. Oltre a degradarsi in frammenti inquinanti via via più piccoli, questi ammassi di polimeri industriali stanno letteralmente cambiando l’ecologia del mare. Numerose specie hanno infatti iniziato a colonizzarli, tant’è che alcuni scienziati hanno già coniato il termine relativo alla nuova comunità biologica emergente: ‘neopelagica’. Le isole di plastica, difatti, rappresentano un’opportunità permanente per le specie costiere di invertebrati di transitare nei bacini oceanici, nonché un habitat a lungo termine per far sì che colonizzino l’oceano aperto. Le implicazioni ecologiche sono tante.

La prima conseguenza più diretta è rappresentata da un’alterazione della distribuzione biogeografica. A lungo, per la dispersione delle specie costiere, i vasti bacini oceanici sono stati considerati delle efficaci barriere fisiche. Ma ora, a cambiare le carte in tavola c’è l’appurata esistenza di habitat galleggianti in grado di sostentare le popolazioni in viaggio. La dispersione di una specie da un capo all’altro del mondo, anche fosse a più fasi, ora non è più poi così impossibile. Di conseguenza, la plastica galleggiante potrebbe rappresentare anche un vettore per il movimento di specie potenzialmente invasive. Prima o poi, è infatti inevitabile che le specie veicolate dalle isole di rifiuti raggiungano coste diverse da quelle da cui sono partite. In questo modo, entreranno in diretta competizione con le popolazione native stravolgendo i processi ecologici del luogo. Non a caso, le invasioni biologiche sono ad oggi considerate una delle principali cause di perdita di biodiversità autoctona a livello globale. Tuttavia, la piena comprensione del processo, così come la composizione effettiva di queste nuove comunità marine, ha bisogno di ulteriori studi.

Oggi, le isole costituite da rifiuti galleggianti sono almeno sei. La più estesa è la Great Pacific Garbage Patch, un agglomerato di scarti umani che si stima abbia un’estensione di 1.6 milioni di km². Nel complesso, si ritiene che siano almeno 5 miliardi di miliardi i frammenti plastici sparsi qua e là negli oceani. Non dovrebbe quindi sorprendere che un inquinamento tanto diffuso provochi delle profonde trasformazioni. Gli organismi però, per quanto possibile, si adattano e l’hanno fatto anche in questo caso. In particolare, la colonizzazione di queste isole in plastica è stata documentata per la prima volta nel 2017, dopo lo tsunami che ha colpito il Giappone nel 2011. Centinaia di specie marine costiere giapponesi sono state infatti rinvenute vive su ammassi di detriti nell’Oceano Pacifico settentrionale. Avevano viaggiato per 6.000 chilometri e molte si erano accresciute e riprodotte per anni in mare aperto. Il fenomeno, di per sé, non è però del tutto nuovo: in ecologia, il cosiddetto ‘rafting‘, è noto da tempo. Non è infatti la prima volta che l’una o l’altra specie sfrutti delle strutture galleggianti per colonizzare nuovi ambienti. Tuttavia, queste zattere – prima del 1950, ovvero prima che i rifiuti plastici iniziassero ad accumularsi in mare – erano esclusivamente naturali, come tronchi d’albero o ammassi di detriti biologici. Con un’importante differenza degna di nota: le zattere naturali sono rapidamente biodegradabili mentre le isole di plastica si degraderebbero in tempi talmente lunghi da poterle considerare permanenti. Il che significa che queste ultime aumentano in estensione nel tempo e viaggiano per distanze significative. In sostanza, mentre prima il ‘rafting naturale’ poteva considerarsi un fenomeno effimero, ora, quello ‘artificiale’ appare tutt’altro che trascurabile.

[di Simone Valeri]

Austria: il nuovo cancelliere Karl Nehammer ha prestato giuramento

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Karl Nehammer, il nuovo cancelliere austriaco, nella giornata di oggi ha giurato nelle mani del presidente Alexander Van der Bellen con la formula di rito. L’ex ministro degli interni prende dunque ufficialmente il posto di Alexander Schallenberg, che venerdì ha annunciato le sue dimissioni e che adesso tornerà a ricoprire il ruolo di ministro degli esteri. Nehammer è il diciassettesimo cancelliere dal dopoguerra ad oggi.

I ritardi ferroviari di ieri raccontano molto sui guai della digitalizzazione italiana

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Se viaggiate in treno ve ne sarete accorti: nel week-end l’Italia è stata vittima di atroci rallentamenti e di cancellazioni varie. Tutta colpa del lancio, tutt’altro che trionfale, di un software che avrebbe dovuto ottimizzare la gestione del nodo di Firenze, un software che, a dire della Rete Ferroviaria Italiana (Rfi), è già stato introdotto con successo in altre stazioni, ma che alla metropoli toscana non ha creato che problemi.

Le fonti ufficiali sostengono fondamentalmente che il programma, l’Apparato Centrale Computerizzato Multistazione (ACCM), non sia stato in grado di gestire «la complessità del nodo ferroviario fiorentino e il sofisticato software che ne regola il funzionamento», cosa che ha impantanato una delle tratte essenziali per il trasporto nazionale, riverberando negativamente sulla programmazione di 130 treni con ritardi che hanno superato anche le tre ore.

L’assessore toscano ai trasporti, Stefano Baccelli, ha organizzato per il 7 dicembre una cabina di regia con Trenitalia e Rfi per cercare di trovare una soluzione ai problemi causati dall’aggiornamento e, soprattutto, ai difetti che sorgono a monte del sistema, ovvero quelle “complessità” che il programma non è stato in grado di armonizzare. Il disagio patito dai cittadini lo scorso week-end, insomma, è il perfetto banco di prova che vede come il pensiero magico della digitalizzazione si scontri con limitazioni che sono invece capillari.

Mentre Firenze era bloccata dai suoi guai informatici, la tratta Caserta-Foggia era infatti gravata da un più tradizionale guasto ai sistemi di gestione della circolazione. Tuttavia, pur senza contare l’obsolescenza di alcune delle infrastrutture italiane, il caso fiorentino evidenzia come l’implementazione del digitale sia condizionata a sforzi che difficilmente l’Italia sarà in grado di sostenere, almeno in maniera responsabile. La défaillance dell’ACCM si sarebbe potuta prevenire se il software fosse stato adeguatamente sottoposto ai dovuti test e a simulazioni confezionate sulle specificità del luogo, tuttavia questo genere di operazioni richiede tempo e risorse.

Il virtuale offre ai Governi un mezzo potente, ma la sua attuazione richiede dei costi non indifferenti: dalla progettazione all’aggiornamento, passando per il tutt’altro che secondario problema della sicurezza. I tecnici del settore sono numericamente inferiori alle necessità, in più quelli veramente competenti hanno un cachet dal peso significativo e sono fuori dalla portata delle casse statali. I risultati di questa tendenza li abbiamo visti negli intoppi patiti nelle scorse giornate dall’Rfi, ma anche dalla vulnerabilità dimostrata quest’estate della regione Lazio e da altri casi omologhi in cui strutture amministrative importanti si sono trovate in balia dei cybercriminali.

In un Paese in cui ci dimostriamo incapaci di preservare l’integrità dei ponti, la solidità delle scuole e l’efficacia degli spartitraffico, è possibile che il digitale si dimostri l’eccezione in grado di sopravvivere al passaggio del tempo? Probabilmente no, soprattutto considerando che il digitale evolve a una rapidità ben superiore a quella della corrosione dell’acciaio e richiede pertanto costanti attenzioni, tuttavia sarà compito dei Governi futuri assicurarsi che il sogno di un Paese interconnesso non si trasformi in un incubo traviato da innumerevoli fragilità.

[di Walter Ferri]

La sanguinosa repressione in Birmania nel silenzio della comunità internazionale

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Questa mattina Aung San Suu Kyi è stata condannata a quattro anni di carcere per incitazione al dissenso e violazione delle norme contro il Coronavirus. La leader birmana si trova in stato di detenzione dallo scorso febbraio, quando fu deposta in seguito al colpo di stato militare che rovesciò il suo governo. Da allora, i militari hanno messo in atto una violenta repressione del dissenso, uccidendo migliaia di manifestanti che chiedono il ritorno alla democrazia e la scarcerazione di San Suu Kyi. La comunità internazionale, per il momento, si è limitata a guardare.

Violazione delle norme contro la pandemia: queste le accuse rivolte a San Suu Kyi dal governo militare, per le quali dovrà scontare una prima condanna a quattro anni di carcere. La misura ha l’aria di essere un evidente pretesto detenere la leader democratica, che nel frattempo dovrà fare i conti con le numerose altre accuse rivolte contro di lei e che, nel complesso, potrebbero valerle una condanna a più di un secolo di detenzione. Tra queste vi sarebbero diversi reati di corruzione, violazione della legge sui segreti di Stato e frode elettorale.

Dopo il colpo di stato militare del 1° febbraio, l’autoproclamato governo del generale Min Aung Hlaing ha messo in atto una violenta repressione contro la popolazione civile che da 10 mesi richiede la scarcerazione di San Suu Kyi e degli altri leader e il ritorno a un governo democratico. Fino ad ora sono più di 1300 gli oppositori assassinati. L’ultimo episodio risale alla scorsa domenica, quando un veicolo delle forze militari ha travolto un gruppo di persone che protestavano, uccidendone almeno cinque. Secondo alcuni testimoni i militari avrebbero picchiato i manifestanti caduti in terra e puntato i fucili contro coloro che assistevano dalle finestre degli edifici circostanti.

Diversi critici hanno definito il processo contro San Suu Kyi una farsa. Il gruppo ASEAN Parlamentarians for Human Rights, che si occupa di promuovere i diritti umani nel Sudest asiatico, ha dichiarato che “Dal giorno del colpo di stato, è stato chiaro che le accuse contro Aung San Suu Kyi e le decine di altri parlamentari detenuti, non sono state altro che una scusa della giunta per giustificare la loro presa di potere illegale“.

Aung San Suu Kyi, Nobel per la pace nel 1991, si è sempre strenuamente battuta per opporsi al regime militare che governa la Birmania, motivo per il quale ha scontato in totale quasi 15 anni di carcere o arresti domiciliari. Il suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia (LND), aveva ottenuto una vittoria schiacciante già nel 1990, ma i militari ne avevano impedito la salita al potere. La storia è oggi tornata a ripetersi: dopo aver nuovamente vinto ai seggi nel 2015 e nel novembre 2020, i militari hanno accusato San Suu Kyi di frode elettorale e, il 1° febbraio 2021, hanno rovesciato il suo governo. Da allora i manifestanti che chiedono il ritorno al regime democratico sono stati uccisi o torturati, nell’oblio della comunità internazionale.

Nonostante, infatti, l’instancabile attenzione internazionale per gli equilibri politici e la tutela della democrazia in determinate aree geopoliticamente strategiche (vedi il costante aggiornamento delle liste elettorali per le elezioni presidenziali in Libia), nessun media mainstream o governo sembra aver dato particolare peso alla vicenda. Le violenze contro la popolazione civile birmana, che chiede la fine dell’oppressione militare, si svolgono nel disinteresse della comunità internazionale.

Human Rights Watch ha ricordato come le violazioni dei diritti umani in corso in Birmania dovrebbero essere oggetto di preoccupazione internazionale e che le Nazioni Unite e i governi dovrebbero adottare soluzioni quali sanzioni, embargo sulle armi e restrizioni finanziari per destabilizzare il regime militare.

[di Valeria Casolaro]

Russia e India, nuovo accordo di cooperazione tecnico-militare

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Il presidente russo Putin si è recato di persona in India per siglare un patto di cooperazione tecnico-militare tra i due Paesi per il periodo 2021-2030. Il patto è volto a rafforzare la cooperazione tra i due Paesi, dopo l’inasprirsi dei rapporti tra Mosca e Washington. L’India, molto vicina alla Russia dalla Guerra fredda, si trova infatti anche all’interno di un’alleanza tattica con Giappone, Australia e USA. Mosca fornisce inoltre armi all’India, che rischia per questo sanzioni a causa di una legge statunitense del 2017 volta a dissuadere dall’acquisto di armi russe. Per tale motivo negli ultimi anni l’India ha incrementato gli acquisti di equipaggiamento americano diminuendo quelli russi.

L’Italia ha approvato la messa al bando definitiva delle mine antiuomo 

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La Camera dei deputati ha approvato, in via definitiva, le Misure per contrastare il finanziamento delle mine antipersona e delle munizioni a grappolo. La votazione unanime del 2 dicembre, con 383 voti a favore e nessun contrario, impedirà il coinvolgimento dell’Italia nella produzione di questi ordigni, messi fuori legge da due Convenzioni internazionali. Il risultato (in realtà già ottenuto nella XVII Legislatura ma reso inapplicabile da un vulnus costituzionale evidenziato dal Presidente Mattarella) è frutto della mobilitazione portata avanti dalla Campagna Italiana contro le Mine. 

“Se lo Stato democratico rifiuta il coinvolgimento diretto nell’utilizzo, nella produzione e nel commercio di alcuni tipi di armamento, non può essere permesso nemmeno un coinvolgimento indiretto finanziario”. Accoglie così questa presa di posizione la Rete Italiana Pace e Disarmo, la più importante associazione del Paese per il disarmo. “Attendiamo ora la controfirma del Presidente della Repubblica che farà entrare in vigore la Legge.”

Nonostante gli ordigni vennero messi al bando nel 1997 con il Mine Ban Treaty, sono circa 50 milioni quelli pronti a scoppiare nel mondo. Il Landmine Monitor, il rapporto sulle mine antiuomo, ha svelato che nel 2020 sono state 7.073 le vittime di mine/residui bellici: 2.492 i morti e 4.561 i feriti. Inoltre, solo 164 paesi hanno ratificato la Convenzione sulla messa al bando degli arsenali. Tra le potenze più importanti, mancano ancora all’appello Stati Uniti, Russia, India, Cina.

[di Iris Paganessi]

Super green pass, da oggi in vigore fino al 15 gennaio

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Entra oggi in vigore il decreto super green pass, attivo fino al 15 gennaio con possibilità di ulteriori proroghe. Il complesso sistema messo in atto dal governo differenzia chi non ha il pass, chi ha quello “classico” (valido anche con tampone negativo) e chi è dotato del certificato “super”, ottenibile solo con le due dosi di vaccino o guarigione dal covid. Il tutto per garantire ai vaccinati libero accesso ai luoghi pubblici durante le feste, senza dover ricorrere a chiusure in caso di aumento dei contagi. Restano alcuni nodi da sciogliere, come la possibilità di tampone gratis per i ragazzi non vaccinati sopra i 12 anni, per poterne permettere l’accesso a mezzi e luoghi pubblici. In diverse città, in seguito ai controlli, sono già scattate le prime multe.

Trame oscure: ‘Ndragheta e servizi segreti deviati pianificarono l’evasione di Riina

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È davvero esplosivo il contenuto dell’informativa della Dia depositata negli scorsi giorni al Processo d’Appello “’Ndrangheta Stragista”, già sfociato in condanne di primo grado all’ergastolo per il capomafia palermitano Giuseppe Graviano e per il boss calabrese Rocco Santo Filippone. Gli elementi di prova raccolti nella documentazione indirizzata alla Procura di Reggio Calabria riguardano le trame eversive che collegano l’universo dei servizi segreti deviati a quello della criminalità organizzata nell’era dei sequestri di persona e degli attentati mafiosi. Una collaborazione che arrivò fino al pianificare l’evasione dal carcere di Totò Riina, boss dei boss di Cosa Nostra.

Un crogiuolo di rapporti e attività criminali inscindibilmente legati ad un altro capitolo da sempre particolarmente oscuro: quello inerente la “Falange Armata”, sigla con cui furono rivendicati moltissimi attentati attribuiti a Cosa Nostra (tra cui l’omicidio Lima, le stragi di Capaci e via D’Amelio e le bombe del ’93), alla ‘Ndrangheta, alla Camorra, alla Sacra Corona Unita, alla Banda della Uno bianca e numerose altre azioni terroristiche di cui, nel tempo, la matrice è rimasta ignota. Tale sigla fu utilizzata per la prima volta nell’aprile del 1990, in seguito all’omicidio dell’operatore carcerario Umberto Mormile, il quale prima di essere ucciso sarebbe venuto a conoscenza di accordi indicibili tra esponenti di spicco dell’organizzazione mafiosa calabrese e membri dei servizi segreti e si sarebbe opposto ai “generosi” benefici carcerari concessi al boss ‘ndranghetista Domenico Papalia, allora detenuto ad Opera.

Soffermandosi sull’uccisione di Mormile, il pentito di ‘ndrangheta Vittorio Foschini riferì che «Antonio Papalia (mandante dell’omicidio assieme al fratello Domenico, ndr), come ci disse, parlò con i servizi che, dando il nulla osta all’omicidio (…), si raccomandarono di rivendicarlo con una sigla terroristica che loro stessi indicarono»: per l’appunto, quella della Falange Armata. Nell’informativa si legge che tale sigla sarebbe stata “costruita in laboratorio dalla ‘ndrangheta” su impulso di frange deviate dei servizi e che la struttura che la incarnava sarebbe stata parte interna di Gladio (organizzazione paramilitare italiana promossa dalla CIA per operazioni di stay-behind in ottica anticomunista), avrebbe inglobato membri scelti dei servizi e avrebbe coadiuvato per anni la mafia in affari e omicidi. L’uomo che materialmente uccise Mormile, Antonio Schettini, identificò la Falange Armata in una «creatura della ‘ndrangheta (…) creata per sopperire alla mancanza (…) degli approvvigionamenti derivanti dai sequestri di persona» che si verificò quando quella fase criminale estremamente redditizia si concluse. Fino a quel momento, infatti, nei «riscatti da un miliardo, i sequestratori prendevano 500, gli altri 500 li prendevano questi apparati che servivano per finanziare altre attività. Venuto meno questo bisognava creare qualcosa, un diversivo dove attingere i fondi». Corroborando il contenuto delle dichiarazioni dello Schettini, nel giugno 2017 il pentito Nicola Rocco Femia aveva riferito che «I servizi ci mangiavano con i sequestri…se arrivavano cinque miliardi, due miliardi se li prendono i Servizi…e una parte invece andava a chi gestiva il sequestro».

Dalle carte processuali è emerso inoltre che, nei mesi successivi al suo arresto (datato 15 Gennaio ’93), i servizi segreti italiani e la ‘Ndrangheta avrebbero collaborato attivamente per pianificare l’evasione del capo dei capi di Cosa Nostra Salvatore Riina dal carcere in cui era recluso. A sottolinearlo è stato il collaboratore di giustizia Pasquale Nocera, ex ufficiale della legione straniera, ‘ndranghetista ed informatore dei servizi segreti. Nel marzo del 2019, al processo ‘Ndrangheta stragista, il pentito ha infatti raccontato che Maurizio Broccoletti, ex alto dirigente dei servizi che venne arrestato nel 1993 per lo scandalo dei fondi neri del Sisde nel 2000, pochi mesi dopo la cattura di Riina avrebbe discusso del progetto di evasione del numero uno di Cosa Nostra con un agente libico. «Vittorio Canale (membro dei cavalieri di Malta, legato alla ‘ndrangheta e massone, ndr) poi mi disse che Broccoletti e questo soggetto lo avevano incaricato di organizzare l’evasione di Riina dal carcere – ha riferito Nocera -. E gli consegnarono anche una prima rata con un acconto di centomila dollari. Ma il totale era molto di più. A cosa servivano i soldi? Ad assoldare un gruppo di 20 mercenari e procurare un elicottero. Da quello che ricordo questi mercenari dovevano essere serbi. Perché io, che militavo con la legione straniera, ero già rientrato a Belgrado dopo la Guerra del Golfo. C’erano già contatti con questi mercenari». Il progetto, però, naufragò.

I legami tra ‘ndrangheta, massoneria e servizi segreti sono stati così raccontati dal pentito: «In ogni loggia della massoneria c’era un componente della ‘Ndrangheta, un uomo dei clan, e lo stesso succedeva nei Servizi. Praticamente si incorporava nella massoneria il santista di una locale. Era così che si controllavano i voti, i lavori pubblici, il riciclaggio, gli appalti, i posti di lavoro, i grandi affari ed anche il narcotraffico. Se una cosca deve avere rapporti con il cartello colombiano o con i trafficanti in Libia non è che ci va un semplice camorrista, ma quello che della cosca è inserito nelle famose massonerie deviate. La massoneria ha usato molto la ‘Ndrangheta».

Che il bandolo di una matassa intrisa di sangue innocente e ingarbugliata da decenni a causa di squallidi silenzi e gravissimi depistaggi sia stato finalmente individuato?

[di Stefano Baudino]

USA, UE e altre 20 nazioni condannano talebani per esecuzioni sommarie

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Unione Europea, Stati Uniti e 20 altre nazioni hanno condannato il governo dei talebani per aver commesso esecuzioni sommarie contro ex agenti della polizia in Afghanistan, e richiesto un’indagine in merito. L’iniziativa è stata presa in seguito alla pubblicazione di un report di Human Rights Watch che denuncia le violenze in atto nonostante l’amnistia. Secondo il report, almeno un centinaio di ex ufficiali sono stati rapiti e giustiziati dal 15 agosto, data della caduta del governo afghano in seguito al ritiro degli Stati Uniti. Human Rights Watch avverte inoltre che le esecuzioni potrebbero continuare, prendendo di mira chiunque venga associato al precedente governo.

Era quasi estinta, ora la tigre siberiana sta riconquistando il territorio

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Per la prima volta, in 50 anni, sono state avvistate le impronte di zampe di una tigre siberiana nel distretto più grande della Russia, Yakutia. A trovare le tracce del grande felino è stato Viktor Nikiforov, dirigente della fondazione di beneficenza Tigrus, il quale ha specificato che le impronte delle tigri sono state individuate sulla riva dell’affluente destro dell’Aldan, nella parte sud orientale di Yakutia. L’avvistamento è un significativo segnale che i grandi felini si stanno riprendendo, dopo essere stati spinti sull’orlo dell’estinzione. Verso la metà del ‘900, infatti, la caccia e la successiva urbanizzazione della Siberia – con la costruzione di infrastrutture e l’estrazione del petrolio -, hanno comportato una quasi totale eliminazione della specie. Oggi, invece, nell’estremo oriente russo vivono circa 600 esemplari (il 95% della popolazione mondiale), quasi il doppio dei 330 individuati nel 2005.

Secondo Viktor Nikiforov, l’ingresso delle tigri dell’Amur – le quali solitamente vivono nel massiccio montuoso costiero del Sichoté-Alin’ (patrimonio dell’umanità UNESCO) – si deve al progetto Northern Tiger attuato nel territorio di Khabarovsk, con la creazione di un nuovo parco nazionale di 429.000 ettari, e lo stanziamento di fondi da parte della Fondazione Tigrus per la preservazione del gruppo di felini più settentrionale del mondo. Il fatto che questi siano riusciti ad arrivare nello Yakutia dove, considerata la mancanza di foreste decidue e cinghiali, non c’è molto cibo a disposizione, è importante: il numero degli esemplari nelle zone più nordiche non è più eccessivamente basso. Fatto analogo in Nepal, dove il divieto di bracconaggio e i conseguenti controlli con pattugliamenti effettuati tramite militari, droni e telecamere di sorveglianza, ha comportato un aumento degli esemplari: delle 121 tigri rilevate nel 2010, oggi se ne contano circa 240 nei parchi nazionali e nelle aree protette limitrofe. 

[di Eugenia Greco]