domenica 9 Novembre 2025
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Uso illegittimo dei dati biometrici: il Texas porta Meta in tribunale

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Anche il Texas, nazione simbolo della deregulation, si sta muovendo contro la Big Tech Meta avviando una crociata l’estrazione di profitto dall’uso incontrollato dei dati degli utenti. Il 14 febbraio il Procuratore Generale Ken Paxton ha infatti consegnato ai giudici tutte le carte necessarie a intentare causa contro l’azienda un tempo nota come Facebook, la quale è accusata di aver raccolto i dati biometrici dei texani per ricavarne un tornaconto economico. I documenti fanno riferimento al sistema di riconoscimento facciale della piattaforma, ovvero citano quell’algoritmo che ha lungamente permesso al sistema di scansionare automaticamente le foto caricate sul portale social per identificare i soggetti immortalati negli scatti. Si trattava di una funzione tanto controversa e invasiva che l’UE ne ha imposto la rimozione nel 2012 e che persino gli USA ve ne sono infine ribellati, con il risultato che Meta ne ha annunciato l’abbandono definitivo nel 2021.

Il Texas propone dunque una soluzione tardiva nel reagire all’abuso, tuttavia ha buone possibilità di ricavarne comunque risultati positivi. Paxton ha infatti formalizzato le sue accuse affidandosi alle leggi CUBI che il Governo texano ha passato nel 2009, leggi che prevedevano già allora che le aziende chiedessero esplicitamente il consenso informato da parte di tutti coloro che vengono assoggettati al riconoscimento facciale. Non solo, a inizio 2021 il tanto criticato sistema di tag fotografiche si è già meritato da parte dell’Illinois una class action da 650 milioni di dollari, generando un precedente che ha fatto storia.

Basta leggere tra le righe della nuova causa per capire che chi se ne è fatto autore sta ben pensando di batter cassa: per quanto non sia stata formalizzata una cifra definitiva, vengono richiesti 25.000 dollari per ogni violazione di CUBI e altri 10.000 dollari per ciascun caso riconosciuto di pratica commerciale ingannevole. Le carte stimano che dal 2011 al 2021 gli utenti texani siano aumentati da 12 a 20,5 milioni, quindi tra le righe si evince che un conteggio minuzioso delle violazioni porterebbe a una multa potenziale da centinaia di miliardi di dollari.

Facendo affidamento alla storia, è facile prevedere che un simile traguardo non sarà raggiunto e che piuttosto la causa sia destinata a concludersi con un patteggiamento che rimpinguerà le casse texane senza danneggiare eccessivamente gli interessi di Meta. Anzi, è molto facile che l’accordo si riesca a trovare in tempi relativamente celeri, visto che l’azienda sta passando un periodo orribile a Wall Street e non vede l’ora di levarsi di torno i problemi passati per ricominciare di fresco nel cosiddetto “metaverse”.

La contestazione mossa da Paxton non è certamente rivoluzionaria, tuttavia stranisce notare che anche l’accomodante Texas si stia muovendo contro gli eccessi speculativi delle grandi aziende tecnologiche. O, perlomeno, che lo stia facendo nei confronti di quelle Big Tech che non hanno le loro sedi legali-amministrative all’interno della sfera d’influenza di Austin.

Non solo, un’eventuale, ennesima, multa a Meta potrebbe contribuire a tenere a bada le mire commerciali del social, le quali si stanno progressivamente muovendo verso l’integrazione di realtà virtuali da fruire attraverso visori. Visori che saranno in grado di scansionare ogni elemento degli ambienti che inquadrano, offrendo a chi si occupa di raccolta e vendita dati una vera e propria miniera d’oro di informazioni non ancora debitamente sondate.

[di Walter Ferri]

Proroga dello stato di emergenza: il Governo pone l’ennesima fiducia

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Mentre in tutti i Paesi europei si marcia a tappe forzate verso la fine di tutte le restrizioni il Parlamento italiano si appresta a ratificare lo stato di emergenza fino al 31 marzo. Nella seduta della Camera dei deputati di martedì 15 febbraio il Ministro per i rapporti con il Parlamento, Federico d’Incà, ha posto la questione di fiducia sul disegno di legge che dovrà convertire e approvare il decreto 24 dicembre 2021 n. 221 recante proroga dello stato di emergenza nazionale fino al 31 marzo 2022. Il testo è già stato approvato dal Senato e il via libera della Camera dovrebbe arrivare, senza possibilità di presentare emendamenti, nella giornata odierna, quando i deputati voteranno la fiducia a partire dalle 18:20.

La questione di fiducia è diventata negli ultimi tempi un’abitudine, tollerata sì dalla Costituzione ma in particolari ed eccezionali casi, visto che con questo istituto il Parlamento viene limitato nelle proprie funzioni e può soltanto esprimersi o a favore di un provvedimento o, pena le dimissioni del Governo, a suo sfavore. Si tratta di una tendenza emersa in modo particolare con i primi Governi tecnici del nuovo millennio ed esplosa durante la pandemia: prima i due esecutivi guidati da Giuseppe Conte e ora il Governo Draghi, che ha infranto ogni record in materia di questione di fiducia e di “eccezionalità”. Dal suo insediamento a febbraio 2021, fino all’ottobre dello stesso anno, l’esecutivo guidato dall’ex banchiere centrale europeo ha proposto in media 4,2 decreti-legge ogni mese, staccando il Conte II (3,18). Allo stesso tempo ha fatto ricorso all’istituto della fiducia 26 volte, in media tre volte al mese.

La Corte Costituzionale ha bocciato il referendum sull’eutanasia

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La nota è giunta nella serata di ieri: la Corte Costituzionale ha giudicato inammissibile il referendum sull’eutanasia che si sarebbe dovuto svolgere in primavera. Uno scarno comunicato stampa specifica che, secondo i giudici costituzionali, l’eventuale approvazione del referendum minerebbe “la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”. «Una brutta notizia per la democrazia e per le persone costrette a vivere indicibili sofferenze contro la loro volontà», ha commentato Marco Cappato, del comitato promotore del referendum. Nelle prossime ore si attende la decisione della Corte anche sui quesiti relativi a cannabis e giustizia.

Clima, migliorano le previsioni: gli obiettivi di Parigi sono raggiungibili

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Secondo una nuova analisi, gli scenari più apocalittici sul cambiamento climatico non sono i più probabili. Anzi, la possibilità che gli obiettivi fissati a Parigi vengano raggiunti non è poi così astratta. O quantomeno è verosimile, con le nuove misure internazionali adottate, che non ci discosteremo troppo dal target minimo: contenere l’aumento della temperatura al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali, con l’impegno a limitare l’aumento di temperatura a 1,5°C. Al 2100 – secondo lo studio pubblicato su Environmental Research Letters da un gruppo di ricerca dell’università di Boulder – la situazione più probabile è infatti un riscaldamento compreso tra i 2 e i 3°C, con una media che si attesta a 2,2°C.

I ricercatori hanno rivalutato gli scenari dell’Intergovernamental Panel on Climate Change (IPCC) in funzione delle osservazioni reali degli ultimi 15 anni. In particolare, sono stati riconsiderati 1.311 scenari climatici, quelli dai quali, nel 2005, sono stati estrapolati 11 scenari principali diventati i riferimenti nei rapporti dell’Onu. Successivamente hanno confrontato le proiezioni, relative al periodo 2005-2020, con i dati reali arrivando alla conclusione che non più di 500 scenari sono stati in grado di predire accuratamente l’aumento delle temperature. In ultimo, riformulando le previsioni future tenendo conto solo degli studi più verosimili hanno ipotizzato le nuove stime. «I nostri risultati – scrivono gli scienziati – sono, con le dovute cautele, incoraggianti, sebbene limitati agli scenari precedentemente pubblicati, i quali non considerano l’incertezza sulle future emissioni di CO2 o sulla risposta climatica».

Ad ogni modo non bisogna abbassare la guardia. I ricercatori hanno infatti ricordato che l’unico modo per far sì che la tendenza da loro evidenziata non si inverta è aumentare i tassi di decarbonizzazione dell’80% rispetto al 2015. Se l’abbandono globale delle fonti fossili non tenesse questo passo, gli scenari con un riscaldamento superiore ai 3°C entro il 2100 diventerebbero nuovamente plausibili. Hanno poi precisato che le tecnologie di rimozione del carbonio (CCS), attualmente, non sono mature e che, anche lo fossero, la loro futura plausibilità tecnica e politica è stata già messa in discussione. In sostanza, per quanto ottimistiche siano le loro previsioni, dire addio ai combustibili fossili resta l’unica strada da percorrere diffidando inoltre da false soluzioni – decantate ora come non mai da tutte le grandi compagnie petrolifere – che gettano solo fumo negli occhi.

[di Simone Valeri]

Balneari: ok all’unanimità del Cdm alla riforma delle concessioni

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Il Consiglio dei ministri, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Ansa, avrebbe dato il via libera all’unanimità agli emendamenti al ddl concorrenza, i quali introducono la riforma delle concessioni balneari. Al centro della stessa vi sarebbe la tutela degli investimenti fatti e di chi deve il suo reddito principalmente alla gestione di uno stabilimento balneare, nonché una forte spinta agli investimenti futuri legati al miglioramento del servizio, con contenimento dei prezzi ed un freno al “caro-ombrellone”. Infine vi sarebbe anche una proroga fino alla fine del 2023, con le gare per le nuove assegnazioni che dovrebbero partire dal 2024, mentre le concessioni rilasciate secondo procedure selettive (avviso pubblico di evidenza pubblica) e nel rispetto delle regole Ue resteranno efficaci fino alla scadenza fissata, dunque anche oltre il 2023.

L’Algeria condanna la multinazionale italiana del gas Saipem

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Saipem, società italiana che si occupa di prestare servizi nel settore dell’energia e delle infrastrutture, è stata condannata in primo grado dal Tribunale di Algeri, la capitale dell’Algeria, il quale si è pronunciato ieri nell’ambito del procedimento penale in corso dal 2019 nel Paese avente ad oggetto, tra l’altro, le modalità di assegnazione nel 2008 del “GNL3 Arzew”, un progetto relativo alla liquefazione del gas. A renderlo noto è stata la stessa azienda, la quale tramite un comunicato ha fatto sapere che con la sentenza del Tribunale è stata imposta una multa per complessivi 192 milioni di euro “a carico di Saipem SpA, Saipem Contracting Algérie e Snamprogetti SpA Algeria Branch”. Queste ultime, specifica la società, sono state accusate delle fattispecie sanzionate dalla legge algerina di “maggiorazione dei prezzi in occasione dell’aggiudicazione di contratti conclusi con una società pubblica a carattere industriale e commerciale beneficiando dell’autorità o influenza di rappresentanti di tale società” e di “false dichiarazioni doganali”.

La decisione non sembra però essere condivisa dall’azienda: Saipem infatti ha spiegato che la multa influirà sui conti del 2021 anche se la relativa somma di denaro non verrà al momento versata, in quanto la decisione di condanna del Tribunale di Algeri sarà impugnata in appello con “conseguente sospensione degli effetti della stessa”. A sostegno della sua posizione, Saipem sottolinea inoltre che “l’autorità giudiziaria italiana, all’esito di un procedimento penale in cui sono state analizzate anche le modalità di assegnazione nel 2008 del progetto GNL3 Arzew, ha pronunciato il 14 dicembre 2020 sentenza di assoluzione in via definitiva”. Bisogna infatti ricordare che, in relazione ai medesimi fatti, il Tribunale di Milano aveva assolto la società. Tuttavia il Tribunale di Algeri ha evidentemente giudicato in maniera differente la questione, ed ha altresì condannato “due ex dipendenti del Gruppo Saipem (l’allora responsabile del progetto GNL3 Arzew e un ex dipendente algerino) rispettivamente a 5 e 6 anni di reclusione”, mentre “un altro dipendente del Gruppo Saipem è stato assolto da ogni accusa”.

Detto ciò, bisogna sottolineare che le accuse nei confronti della società si collocano nell’ambito di un sistema di estrazione del gas in Algeria che sembra essere caratterizzato da criticità di non poco conto. Come sottolineato dall’associazione ReCommon, sembra esservi stato – almeno negli scorsi anni – un collegamento tra l’accaparramento delle riserve di gas del Paese nord-africano ed i diritti umani della popolazione locale, con il Regno Unito che ha infatti cercato di garantire alle aziende britanniche la possibilità di mettere le mani sulle riserve di gas senza preoccuparsi delle conseguenze per la popolazione locale, allora governata con piglio autoritario dal presidente Abdelaziz Bouteflika. L’estrazione del gas è stata inoltre anche contestata dagli algerini in passato: basterà ricordare la protesta che nel 2015 venne fatta da centinaia di persone delle comunità locali contro l’inizio delle esplorazioni di gas di scisto annunciate dal governo. La manifestazione riguardò principalmente In Salah – una delle più importanti zone per la produzione di gas del paese – dove gli abitanti denunciarono la decisione di iniziare le operazioni, che a parer loro il governo prese senza consultare i residenti e senza realizzare una valutazione ambientale degli impatti.

[di Raffaele De Luca]

L’Italia si mobilita per Ocalan, il leader dei curdi in isolamento da 23 anni

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Manifestazione Ocalan

Sabato 12 febbraio si sono svolte diverse manifestazioni tra Milano e Roma per chiedere la liberazione di Abdullah Ocalan, in isolamento da ormai ventitré anni sull’isola di Imrali (Turchia). I partecipanti alle proteste hanno anche chiesto che il Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) da lui fondato sia cancellato dalla lista delle organizzazioni terroristiche e il riconoscimento da parte del Governo italiano dell’Amministrazione democratica della Siria del nord-est, «l’unica realtà che può condurre alla democratizzazione e la convivenza di diverse etnie e religioni», ha detto Alessandro Orsetti (il padre del combattente ucciso in Siria dall’ISIS il 18 marzo 2019) al Manifesto.

Perché Abdullah Ocalan è diventato per molti un simbolo? E perché si trova in isolamento?

Oltre al partito da lui fondato (i cui obiettivi il riconoscimento dei diritti della minoranza curda presente nel Paese e la nascita di uno Stato indipendente), Ocalan è considerato il padre delle dottrine su cui si basa la rivoluzione del Rojava (o Kurdistan siriano). Nato nel 1948 a Omerli, la sua è una figura controversa: eroica per i movimenti curdi, nemica per lo Stato turco.  

Dal 1998 si trova nel carcere di Imrali, dove sconta una condanna all’ergastolo perché i suoi ideali sono reputati una minaccia per la Turchia. Nello specifico, è accusato di attività separatista armata, considerata come terrorismo da Turchia, Stati Uniti e Unione europea. Anche se nel 2018 la Corte di Giustizia Europea ha dichiarato che non erano stati soddisfatti i requisiti per includere il PKK nell’elenco delle attività terroristiche, ad oggi la lista non è stata ancora aggiornata. Secondo Yilmaz orkan, responsabile di Uiki (Ufficio informazione del Kurdistan in Italia), «Quando la Turchia guarda al Rojava e vede che arabi, curdi, assiri, turkmeni costruiscono insieme un sistema democratico, capisce che lo stesso potrebbe avvenire sul proprio territorio e ne ha paura».

Quello di Ocalan è un isolamento, tra l’altro, che pare peggiorare con il tempo. La piccola isola del mar di Marmara in cui si trova il carcere, ospita esclusivamente la struttura. È un penitenziario che per molti anni è stato riservato a lui (ma che da poco ospita altri tre detenuti). Il suo avvocato ha detto che non lo incontra da dieci anni e che «ora sono diciotto mesi che non ne abbiamo notizie. L’ultimo contatto è stato a marzo 2021 quando era girata la voce che fosse morto di Coronavirus». Un comportamento da parte delle autorità turche che va contro le regole, dal momento che l legge locale garantisce ai detenuti il diritto di parlare coi propri avvocati.

Quali sono le aspettative per la vita di Ocalan? Il suo avvocato intende appellarsi al “diritto alla speranza”, riconosciuto dal Consiglio d’Europa, per cui passati diversi anni, il detenuto ha diritto a chiedere una revisione della sentenza (soprattutto per Ocalan che ormai ha più di settant’anni). Secondo i manifestanti, è ingiusto che un uomo che ha cercato una soluzione pacifica del conflitto tra i turchi e i curdi in Turchia viva ancora in quelle condizioni.

«Tutto questo accade a un passo dall’Unione Europea. È come se un carcere del genere si trovasse vicino a Parigi, Roma o Berlino: inaccettabile», ha ribadito il legale.

[di Gloria Ferrari]

Vaccini Covid: Ema esamina nuovamente casi irregolarità ciclo mestruale

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L’Agenzia europea per i medicinali (Ema) sta esaminando nuovamente i casi di irregolarità del ciclo mestruale – ossia quelli relativi alle mestruazioni abbondanti nonché all’assenza delle stesse – segnalati in seguito alla somministrazione dei vaccini anti-Covid ad mRna. A renderlo noto è stata proprio l’Ema tramite una nota, nella quale si legge che il Comitato di valutazione dei rischi per la farmacovigilanza (Prac) dell’agenzia aveva in passato concluso che “le prove non supportassero l’esistenza di un nesso causale tra questi vaccini e i disturbi mestruali”, tuttavia ora, alla luce delle segnalazioni spontanee aventi ad oggetto i disturbi mestruali e dei risultati a cui è giunta la letteratura scientifica, il Prac ha deciso di valutare ulteriormente l’incidenza di tali disturbi dopo la vaccinazione.

Il Tar del Lazio impone il reintegro dei militari non vaccinati

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La Prima Sezione bis del Tar del Lazio, con un decreto cautelare pronunciato dal Presidente Riccardo Savoia, ha accolto il ricorso presentato da alcuni individui appartenenti alle forze militari sottrattisi all’obbligo vaccinale, con cui è stato chiesto l’annullamento previa sospensione dell’efficacia dei provvedimenti di sospensione dal lavoro e l’accertamento del diritto ad essere reintegrati ed a percepire lo stipendio non versato durante il periodo di sospensione. Il Presidente, accogliendo il ricorso, ha dunque temporaneamente messo fine alla sospensione dal lavoro e conseguentemente dallo stipendio degli appartenenti alle forze militari.

A tal proposito, all’interno del decreto si legge che l’efficacia dei provvedimenti sospensivi impugnati viene sospesa “medio tempore”, ossia fino alla decisione definitiva che sarà presa in seguito alla trattazione collegiale in camera di consiglio, fissata per il prossimo 16 marzo. Ciò in quanto la decisione in questione è stata presa tramite un decreto cautelare, cui ci si rifà nel caso in cui sia indispensabile emanare una decisione rapida, ossia quando una decisione in via ordinaria comprometterebbe le ragioni del richiedente in maniera irrimediabile. Tramite lo stesso vengono infatti eliminati i tempi necessari per instaurare il contraddittorio e il pronunciamento viene assunto in forma monocratica dal giudice, che prende una decisione basandosi esclusivamente sul ricorso e non attendendo che vi sia un contraddittorio con la controparte. Se il giudice ritiene validi i motivi su cui si fonda il ricorso, il decreto annulla provvisoriamente ciò che è stato impugnato fino alla successiva fase di giudizio a cognizione piena, che in questo caso si terrà il 16 marzo.

Detto ciò, è interessante ricordare anche un altro punto del decreto, nel quale si prospetta la “remissione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 del decreto legge n. 172 del 26.11.2021″, ossia quello che ha introdotto l’obbligo vaccinale per alcune categorie di lavoratori, tra cui quella in questione. Si tratta di un’ipotesi importante dato che, se il Tar Lazio alla camera di consiglio di marzo ritenesse la questione di legittimità costituzionale rilevante e non manifestamente infondata, la Consulta sarebbe chiamata ad esprimersi nei confronti dell’obbligo vaccinale per tutte le categorie obbligate dall’articolo.

[di Raffaele De Luca]

In Sardegna è riesplosa la protesta dei pastori

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A tre anni dalla guerra del latte, ricomincia la mobilitazione dei pastori sardi che ieri sono scesi in strada per chiedere l’intervento statale e protestare contro l’aumento del costo di mangimi e concimi, gasolio ed energia elettrica. La mobilitazione è ripartita da dov’era iniziata nel 2019, dal ponte sulla strada Bitti Sologo, in cui avvennero i primi sversamenti di latte sull’asfalto.

Nell’inverno del 2019 gli allevatori sardi decisero di unirsi in protesta per rivendicare prezzi più giusti rispetto ai 55 centesimi al litro per il latte di pecora e 44 centesimi per quello di capra pagati dalle aziende. “Meglio gettarlo via che accettare prezzi così bassi” era uno degli slogan della protesta che, nel febbraio 2019, rischiò di diventare sommossa, con la promessa da parte dei pastori sardi di bloccare le elezioni regionali del 24 febbraio in caso di mancato accordo con le istituzioni: “Non entrerà nessuno a votare: non è che non andiamo a votare, non voterà nessuno, blocchiamo la democrazia” annunciò allora il coordinamento dei pastori. Prima dell’intervento delle istituzioni, tutta l’Isola mostrò solidarietà: dai calciatori del Cagliari Calcio che a San Siro indossarono una maglietta con su scritto “solidarietà ai pastori sardi”, fino ai commercianti di Nuoro che annunciarono una mezza giornata di chiusura collettiva. Le proteste si conclusero con un aumento dei prezzi pagati ai pastori, centinaia di denunce e diversi processi. Due di questi si terranno proprio nelle prossime settimane, quando gli imputati saranno chiamati a rispondere del reato di blocco stradale. “Entrambi i processi appaiono gli unici in Sardegna per i quali si procede per il reato di blocco stradale” scrive a riguardo l’associazione indipendentista Libertade.

«A tre anni di distanza dalla guerra del latte abbiamo avuto il risultato del prezzo che si è alzato, con conguagli che hanno superato abbondantemente l’euro, ma oggi la situazione è anche più grave di quella che si viveva allora» dice Gianuario Falchi, uno dei portavoce dei pastori. L’aumento dei prezzi di tutte le materie prime nelle scorse settimane è solo l’ultimo tassello di un domino problematico che ha avuto inizio in estate, con caldo anomalo, incendi e siccità. Il risultato è una riserva di fieno insufficiente ad alimentare le greggi, che quindi «dev’essere importato dalla Penisola con prezzi per il trasporto che oggi lievitano anche a 25.600 euro per un solo carico. Per evitare il fallimento è necessaria la dichiarazione dello stato di calamità». Nel frattempo le campagne continuano a spopolarsi e l’agricoltura in Sardegna rischia di scomparire nel silenzio più totale. Si parla di un settore che conta oggi 12 mila aziende e circa 50 mila impiegati, con più di 3 milioni di pecore e capre che ogni anno garantiscono una produzione media di 300 milioni di litri di latte. «Dalla guerra del latte sono cambiate poche cose e l’umore delle campagne è nero: temo che succederà qualcosa di nuovo» conclude Gianuario Falchi.

Intanto la Coldiretti Sardegna ha annunciato per giovedì 17 febbraio una manifestazione a Cagliari, e contemporaneamente in altri capoluoghi di Regione, davanti all’Ufficio Territoriale del Governo con l’obiettivo di sensibilizzare le istituzioni e avanzare loro le proprie richieste.

[di Salvatore Toscano]