venerdì 18 Luglio 2025
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Farm to Fork: in Europa lo scontro tra interessi ambientali e agrobusiness

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Nell’ultimo periodo le politiche europee che hanno a che fare con la sostenibilità ambientale stanno generando un vero e proprio scontro tra coloro che fanno parte del mondo agricolo e gli ambientalisti, con i primi che cercano di porre un limite al perseguimento della tutela dell’ambiente a tutti i costi ed i secondi che, invece, non sono disposti ad accettare mezze misure.

A tal proposito, innanzitutto bisogna ricordare che dopo il primo ok del Parlamento Ue alla riforma della politica agricola comune (PAC), con la Commissione parlamentare Agricoltura che ha approvato l’accordo di giugno del trilogo (Parlamento, Commissione, e Consiglio Ue) sui tre regolamenti che disciplineranno la PAC 2023-2027, la stessa Commissione Agricoltura (AGRI) e la Commissione Ambiente (ENVI) hanno approvato con un voto congiunto la relazione sulla Strategia Farm to Fork, presentata dalla Commissione europea nel maggio del 2020. Essa, così come la PAC, rappresenta un tassello fondamentale del Green Deal europeo (piano con cui si mira a raggiungere la neutralità climatica in Europa entro il 2050) e in tal senso con l’adozione della relazione, che «dovrebbe essere discussa e votata in plenaria ad ottobre», gli eurodeputati hanno sostenuto l’obiettivo della Farm to Fork di rendere sostenibili i sistemi alimentari dell’Ue, riducendo la loro impronta ambientale e climatica, pur continuando a garantire la sicurezza alimentare e l’accesso ad un’alimentazione sana.

Gli stessi eurodeputati che hanno dato il via libera al testo sulla strategia, hanno però anche adottato 48 “emendamenti di compromesso” ed hanno chiesto, tra l’altro, di imporre un tetto massimo nei confronti delle emissioni del settore agricolo e di «ripristinare e migliorare i pozzi di carbonio naturali». Tuttavia, proprio in seguito alle proposte dei membri delle commissioni si sono palesate le tendenze conservatrici dell’agrobusiness. Critiche sono infatti arrivate da parte di “Copa-Cogeca”, il più forte gruppo di interesse per gli agricoltori europei che esprime la voce unanime di questi ultimi e delle cooperative agricole dell’Ue, il quale tramite un comunicato ha precisato che gli eurodeputati «hanno deciso di andare oltre la strategia proposta dalla Commissione e di rendere la necessaria transizione insostenibile per gli agricoltori». Ciò poiché sono state fatte «proposte che superano il limite e mettono in pericolo la nostra sovranità alimentare, il futuro della nostra agricoltura e delle nostre zone rurali». Perciò, si legge ancora nel comunicato, Copa-Cogeca chiede a «tutti gli eurodeputati, che dovranno prendere posizione in plenaria, di sostenere la riformulazione delle proposte più penalizzanti approvate da AGRI ed ENVI così da garantire la fattibilità della transizione verso un sistema alimentare più sostenibile».

Diversa invece la posizione di Paolo De Castro, coordinatore del gruppo socialisti e democratici (S&D) alla commissione AGRI, secondo cui gli emendamenti costituiscono una «robusta correzione di rotta verso la dimensione economica e sociale». La sua visione, però, è stata criticata dal responsabile Agricoltura del Wwf Italia, Franco Ferroni, che ci ha rilasciato un commento in merito. Egli, dopo aver premesso che «le Strategie UE non sono vincolanti per gli Stati membri e devono tradursi in Direttive o norme regolamentari» e che «con l’approvazione dei nuovi Regolamenti della PAC si è persa l’occasione di recepire gli obiettivi delle due Strategie UE Farm to Fork e Biodiversità 2030, motivo per cui ora lo strumento più importante per l’attuazione di tali strategie è il Piano Strategico Nazionale della PAC (la cui redazione in Italia è in grave ritardo)», ha criticato «l’uso strumentale che alcuni parlamentari italiani (Paolo De Castro in particolare) hanno fatto con le loro dichiarazioni sul voto delle Commissioni Ue AGRI e ENVI in relazione al dibattito in corso a livello nazionale sulle due Strategie UE, con la contrapposizione della sostenibilità ambientale alla sostenibilità economica delle aziende agricole».

A tal proposito, continua Ferroni, per il Wwf e la Coalizione Cambiamo Agricoltura (lanciata in Italia da diverse associazioni tra cui il Wwf) è «un grave errore contrapporre ambiente ed economia e subordinare la sostenibilità ambientale a quella economica: entrambe sono collegate e dipendenti l’una dall’altra, e tale contrapposizione ha la sola finalità di condizionare la redazione del Piano Strategico Nazionale della PAC post 2022 riducendo al minimo gli impegni ambientali degli agricoltori pur garantendo comunque i sussidi della PAC». Dunque in questo contesto, precisa il responsabile Agricoltura del Wwf Italia, «si collocano le dichiarazioni di De Castro». Ma, aggiunge, «gli effetti dei cambiamenti climatici e della perdita di biodiversità sull’agricoltura europea e italiana sono evidenti, e continuare a rinviare l’adozione di provvedimenti efficaci per contrastare queste emergenze ambientali in nome della tutela del reddito delle aziende agricole è un grave errore. La nostra posizione critica – conclude Ferroni – non è quindi sul voto in sé del Parlamento ma sull’uso strumentale di esso da parte di alcuni Parlamentari Ue italiani, gli stessi parlamentari che hanno votato una pessima riforma della PAC post 2022».

[di Raffaele De Luca]

Missione spaziale da record per la Cina: tornati oggi sulla Terra gli astronauti protagonisti

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Nie Haisheng, Liu Boming e Tang Hongbo sono tornati oggi sulla Terra; i tre astronauti  dell’Agenzia Spaziale Cinese (Cnsa) sono rimasti in orbita per tre mesi e la loro missione (Shenzhou-12) è partita il 17 giugno, quando i tre sono partiti dal deserto del Gobi (al Nord-ovest del Paese) verso la stazione spaziale Tiangong. La suddetta missione è stata per la Cina la più lunga mai effettuata e oggi è stato confermato il corretto atterraggio della capsula takonauti, avvenuto con successo alle 7:35 (ora italiana).

La resistenza dei popoli indigeni contribuisce anche a salvare il Pianeta

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I moti di resistenza guidati dalle popolazioni indigene sono salvifici per l’ambiente. Lo si specifica nel recente rapporto Indigenous Resistance Against Carbon di Indigenous Environmental Network (IEN) e Oil Change International (OCI): basti pensare che negli ultimi dieci anni, le lotte da parte degli indigeni contro ventuno diversi progetti di combustibili fossili negli Stai Uniti e in Canada, hanno fatto la differenza. La quantità di emissioni di gas serra ritardata o del tutto fermata grazie alla resistenza voluta e portata avanti dagli indigeni è infatti equivalente ad almeno un quarto delle emissioni totali annue degli Stati Uniti e del Canada.

Una lotta che riguarda il bene di tutti

Nonostante i violenti tentativi volti a contrastare l’azione degli indigeni – dall’incarcerazioni di manifestanti pacifici a ingenti multe, alla promulgazione di leggi anti-protesta fino all’uccisione di attivisti – questi ultimi hanno portato avanti la loro battaglia anche e soprattutto impedendo fisicamente alcuni lavori per progetti già approvati e avviati. Progetti, ovviamente, molto redditizi – motivo per cui spesso le compagnie petrolifere sono arrivate a ingaggiare dei vigilantes privati, i quali hanno compiuto svariate violenze – che avrebbero portato fino a 780 milioni di tonnellate di gas serra all’anno.

Il rapporto sopracitato vuole evidenziare quanto realmente positivo e particolarmente tangibile sia il risultato che deriva dall’impegno continuo dei popoli indigeni contro i devastanti progetti di combustibili fossili, e non solo. Quello delle popolazioni indigene – e di chi appoggia queste ultime – è un impegno quotidiano da parte di chi dedica la propria vita a difendere il Pianeta. Contro coloro intenti a distruggere il mondo con l’estrazione, la risposta degli attivisti è sempre molto decisa ma non violenta; c’è stata, però, una vera e propria demonizzazione degli attivisti, senza che ci siano basi reali. Come dimostra il rapporto redatto da Dallas Goldtooth e Alberto Saldamando (leader, rispettivamente, di IEN e OCI), le diverse battaglie avvenute non hanno fatto altro che del bene al mondo e rappresentano un reale contrasto alla devastazione ambientale in atto: con i dati raccolti analizzando nove diversi gruppi di regolamentazione ambientale e petrolifera, sono state fermate 1.587 miliardi di tonnellate di emissioni annuali di gas serra, nonché l’equivalente delle emissioni di circa 400 nuove centrali elettriche a carbone (un dato che dovrebbe far riflettere, considerando che recentemente il buco dell’ozono ha raggiunto una delle estensioni più grandi e profonde degli ultimi anni, pari per dimensione al territorio dell’Antartide).

“Difensori della Madre terra”

Non solo, l’importante resistenza indigena sta avendo – e ha avuto – un essenziale impatto sociale e politico. Oltre al fatto di quanto le proteste abbiano seriamente contribuito all’intensificazione del dibattito sui combustibili fossili, la battaglia per contrastare la crisi climatica è di matrice polisemica: è anche un flusso naturale volto a contrastare l’attuale società dei consumi schiava dell’avere e combattere i sistemi coloniali e neocoloniali.

Anche se continuano le razzie e le ingiustizie nei confronti degli indigeni, il ruolo che essi riescono ad avere come “difensori della Madre Terra” è reale e di grande importanza: lo dimostra anche un recente rapporto della Fao, dal quale si evince quanto le popolazioni indigene lasciate vivere liberamente abbiano letteralmente salvato le sorti delle foreste. Dove sono presenti le popolazioni indigene, le foreste si sono conservate in maniera eccellente rispetto al resto dei territori in cui gli indigeni non riescono a condurre la propria esistenza liberamente. Ovviamente, le grandi multinazionali e le aziende in generale sono ben coscienti di come le popolazioni indigene siano un vero e proprio “antidoto” per la devastazione ambientale. Non è dunque un caso se si continua a contrastare in più modi e a più livelli un modo di vivere naturale che – come dimostrato – aiuta a salvare il Pianeta. Come il caso del parlamento indonesiano, il quale non ha approvato un importante disegno di legge sui diritti degli indigeni, già ritardato da tempo. Il motivo è sempre relativo a interessi commerciali – dove gli stessi legislatori svolgono attività legate alle industrie estrattive – che verrebbero compromessi se ci fosse il riconoscimento dei diritti alla terra degli indigeni.

[di Francesca Naima]

La Nigeria al centro della strategia anti-cinese degli Usa in Africa

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La Nigeria risulta essere sempre di più sotto l’influenza e il controllo statunitense: lo dimostrano gli avvenimenti, oltre che una serie di documenti che forniscono la cornice di riferimento entro cui tali avvenimenti si compiono. Perché il paese africano è importante per gli USA? La risposta è: idrocarburi e presenza geostrategica in funzione anticinese.

Le relazioni tra USA e Nigeria si sono andate intensificando parallelamente alla rumorosa “ritirata” dall’Afghanistan effettuata da Washington. Esercitazioni militari, addestramenti, cessioni di aerei e calorosi inviti presidenziali hanno riguardato i rapporti tra i due paesi che si sono succeduti negli ultimi mesi.

Sull’onda della ritirata afgana, lo scorso agosto, il Presidente nigeriano Muhammadu Buhari, dalle colonne del Financial Times, ha rivolto un accorato appello alle istituzioni statunitensi affinché l’Africa e il suo paese ricevano il giusto aiuto da parte degli Stati Uniti, e non solo nel settore militare e dell’antiterrorismo: energia, infrastrutture, trasporti, servizi.

Il 31 agosto scorso, alti funzionari del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, ospitati dal Ministro della Difesa nigeriano Bashir Salihi Magashi e dall’aeronautica nigeriana hanno partecipato alla cerimonia di introduzione dell’aereo A-29 Super Tucano. Come parte di un più ampio programma di partnership, il Corpo degli ingegneri dell’esercito USA sta fornendo 36,1 milioni di dollari in supporto infrastrutturale alla base aerea di Kainji, per la partenza degli A-29 Super Tucano. «La Nigerian Air Force è uno dei nostri partner chiave che svolge un ruolo fondamentale nel promuovere la sicurezza e la stabilità regionale», ha dichiarato il generale Jeff Harrigian. Numerose esercitazioni congiunte si sono svolte nel corso degli ultimi decenni, specie dopo l’istituzione da parte degli USA del comando militare AFRICOM, nel 2008, la cui creazione era già stata paventata in una pubblicazione dello United States Army War College nel 2000, stesso anno dello U.S.- Nigerian Cooperation on Peacekeeping and Military Reform.

Joint Combined Exchange Training, del luglio di questo anno, è soltanto l’ultimo esempio della partnership militare che i due paesi portano avanti in ogni settore militare. La volontà statunitense è quella di contrastare la penetrazione cinese in Africa, nell’ottica della strategia globale anti-cinese.

La Nigeria, nel 2018, ha firmato un memorandum d’intesa con la Cina per l’adesione del paese alla Belt and Road Initiative e l’anno successivo il gigante asiatico ha messo sul piatto 16 miliardi di dollari di investimenti nel settore petrolifero nigeriano. Gli Stati Uniti non voglio permettere alla Cina di attecchire con il proprio potere economico, Nigeria compresa, cercando di rendere costose le scelte cinesi: creare danni economici, politici o mediatico-narrativi in ogni parte del globo, così come da noi esposto nel maggio scorso, circa lo Strategic Competition Act del 2021.

L’importanza della Nigeria nello scacchiere geopolitico africano e nelle sue possibili proiezioni strategiche globali, lo si evince da due differenti documenti. Un documento è stato prodotto nel 2007 dallo Strategic Studies Institute, all’interno del quale viene delineata la strategia di contrasto alla Cina nei paesi africani ritenuti rilevanti e in cui essa cerca di operare. L’altro documento è una tesi prodotta presso la Naval Postgraduate School di Monerey, in California, ove si spiega l’interesse strategico statunitense per il Golfo di Guinea e, dunque, per la Nigeria, in ragione dei suoi immensi giacimenti di idrocarburi e per la sua posizione nella regione in merito agli interessi strategici di concorrenti come Cina, Giappone, India e stati europei.

In Africa, la Nigeria riveste un ruolo importante nella strategia statunitense di lotta al terrorismo, specie negli ultimi anni, vista la presenza del sedicente Stato Islamico della Provincia dell’Africa Occidentale (ISWAP), oltre che altri movimenti di vario stampo religioso, politico oppure etnico.

Il paese africano conta più di 200 milioni di abitanti molto diversi tra loro per cultura, religione e lingua. La Nigeria potrebbe essere una potenza economica e invece è afflitta dalla povertà, dalle sanguinose divisioni interne, dalla corruzione alimentata dalle multinazionali delle energie fossili e dai loro squadroni della morte, nonché dal disastro ambientale prodotto per l’ingente profitto di pochi e per la soddisfazione dei bisogni occidentali. Nel riassetto del potere globale la Nigeria è luogo ideali per scontri per procura, oltre che essere base stessa della proxy war statunitense in Africa nei riguardi della Cina e di tutti coloro che intendono ostacolare gli interessi USA.

[di Michele Manfrin]

Con l’inizio delle elezioni in Russia, l’app di Navalny è stata rimossa

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Nello stesso giorno dell’inizio delle elezioni parlamentari in Russia, Google e Apple hanno rimosso l’app creata per fare rimanere Alexei Navalny in contatto con i propri sostenitori. Gli alleati di Navalny, avevano infatti ideato l’app anche col fine di organizzare una campagna di voto tattica per dare un colpo a Russia Unita. È stato il FAS (Servizio Federale Antimonopoli russo) a chiedere di eliminare l’app entro il 30 settembre dagli store, accusando le aziende tecnologiche statunitensi di interferire negli affari interni russi.

Estensione Green Pass: via libera del Cdm al nuovo decreto

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Il Consiglio dei ministri ha dato il via libera all’unanimità al nuovo decreto legge avente ad oggetto l’estensione del Green Pass a tutti i luoghi di lavoro, pubblici e privati. Attualmente è in corso la conferenza stampa sul decreto in questione, a cui stanno partecipando la ministra per gli affari regionali e le autonomie, Mariastella Gelmini, il ministro per la pubblica amministrazione, Renato Brunetta, il ministro del lavoro e delle politiche sociali, Andrea Orlando, e il ministro della salute, Roberto Speranza. Quest’ultimo, ha affermato che tale estensione scatterà a partire dal 15 ottobre e che essa servirà a rendere «più sicuri i luoghi di lavoro e più forte la campagna di vaccinazione».

Afghanistan: Talebani tengono prima riunione di governo

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Nella giornata di oggi in Afghanistan, precisamente presso il Palazzo presidenziale di Kabul, si è svolta la prima riunione di gabinetto del governo dei Talebani. Lo si apprende dall’agenzia di stampa locale Afghan Islamic Press, la quale sottolinea che la riunione è stata presieduta dal primo ministro dell’Emirato islamico, Mullah Mohammad Hasan Akhund, e che al centro della stessa c’è stata una discussione sul tema della sicurezza politica ed economica del Paese.

Migranti, la Corte dei conti europea vuole più rimpatri

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Lunedì 13 settembre, la Corte dei conti europea (ECA) ha pubblicato un report che è passato relativamente in sordina, ma che ci offre uno spaccato trasparente sulla direzione verso cui si sta muovendo la politica migratoria europea.

In “EU readmission cooperation with third countries: relevant actions yielded limited results”, gli analisti di Lussemburgo si sono detti insoddisfatti dal come le nazioni europee si stiano interfacciando con i canali di transito dei clandestini, argomento quanto mai attuale se si tiene conto che lo “straniero” sia al centro delle retoriche dei Governi di ogni fazione.

Vista la natura dell’indagine, gli autori non hanno preso in analisi come l’Europa, realtà geopolitica che si fa portavoce dei diritti umani, spenda risorse ed energie per respingere lavoratori e rifugiati non dotati della corretta documentazione, piuttosto si sono concentrati sul fatto che non faccia abbastanza per rimpatriarli una volta che questi riescono a superare abusivamente il confine.

Ogni anno, i tribunali europei decretano infatti che debbano essere rimpatriati circa mezzo milione di immigrati non autorizzati, tuttavia solamente il 29% di questi sottostà effettivamente all’ingiunzione ricevuta. La statistica cala poi al 20% se si prendono in considerazione esclusivamente le nazioni extraeuropee.

In pratica, un solo migrante illegale su cinque viene effettivamente espulso dall’area UE, dettaglio che, stando al report, non farebbe che istigare il traffico di persone e le speranze dei disperati. Il responsabile dell’indagine, Leo Brincat, sottolinea che una simile inefficienza sia scaturita perlopiù da una gestione inadeguata dei negoziati tra UE e Paesi terzi, soprattutto quelli nordafricani, i quali sembrano trarre più profitto dall’interfacciarsi con le singole nazioni piuttosto che con l’Associazione Europea di Ricollocamento (EuRA). I Governi dell’Unione Europea, in altre parole, si dimostrano incapaci di coordinarsi, di parlare con una sola voce e di collaborare anche in questo frangente emergenziale.

La gestione dei rimpatri è peraltro un’operazione già complicata di suo, resa ardua dal fatto che non sempre sia facile risalire con certezza alla nazionalità degli immigrati, nonché dalla consapevolezza che i Paesi di origine facciano spesso il possibile per complicare l’iter burocratico. Gli ispettori, riconoscendo queste difficoltà, sollevano dunque l’attenzione anche su una soluzione che ha ancora ampio margine di crescita: la clausola sui cittadini di Paesi terzi (TCN).

Secondo questa opzione, gli immigrati di difficile rimpatrio potrebbero essere spediti nell’ultima nazione extra-UE che hanno visitato, piuttosto che essere rimandati nelle loro terre d’origine. L’approccio del reinsediamento comporta però a sua volta una serie di insidie, prima fra tutte la percezione che l’Europa stia cercando di esternalizzare la gestione migratoria, ovvero che si stia lanciando in un poderoso scaricabarile su Amministrazioni che sono spesso restie a sottoscrivere una clausola tanto complessa.

Le conclusioni del report danno a intendere che, spalleggiata dai «Paesi Membri chiave», l’EuRa debba farsi progressivamente unica portavoce dei negoziati e che i dati debbano essere raccolti e condivisi sinergicamente, in modo che ogni migrante da rimpatriare sia immediatamente individuabile e identificabile. Un corpo unico che gestirà un controflusso migratorio anche grazie alla collaborazione di Paesi extraeuropei, collaborazione che verrà resa fertile da una mole crescente di incentivi e finanziamenti.

[di Walter Ferri]

Whirlpool conferma licenziamenti, operai di Napoli manifestano davanti al Mise

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Un gruppo nutrito di lavoratori della Whirlpool, precisamente del sito di via Argine, si è recato a Roma presso la sede del Ministero dello Sviluppo economico per protestare contro il loro imminente licenziamento. Gli operai, oltre ad esporre striscioni, accendere fumogeni ed intonare slogan quali «Napoli non molla», hanno montato alcune tende in quanto stanno organizzando un presidio fisso davanti al Mise. Proprio lì è in corso l’incontro con l’azienda, Invitalia ed i sindacati, sulla procedura di licenziamento collettivo dei circa 300 lavoratori campani (che dovrebbe chiudersi il 29 settembre) avviata dalla Whirlpool. Quest’ultima, secondo quanto riportato dall’ANSA, ha confermato che le motivazioni alla base della stessa non sono cambiate.

In Italia il Green Pass più restrittivo d’Europa: come funziona negli altri paesi

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Ieri in Italia è stata ufficialmente approvata l’estensione generalizzata della Certificazione verde COVID-19 con il sì alla fiducia da parte del Senato sul decreto-legge varato dal Consiglio dei ministri il 23 luglio. Con 189 voti a favore, 32 contrari e 2 astensioni c’è stato il via libera definitivo al decreto che, quindi, diventa legge. Le scelte prese in Italia sono, per il momento, tra le più severe d’Europa e oggi si sta svolgendo a palazzo Chigi la cabina di regia per ampliare, da metà ottobre, l’obbligo di Green Pass per tutti i dipendenti pubblici e privati. Nel dibattito pubblico si omette spesso però di fornire una informazione di base, degna di nota: l’Italia sarà il primo e per ora unico Paese in Europa a imporre il possesso del passaporto sanitario per accedere al posto di lavoro.

I lavoratori che non rispetteranno la nuova disposizione, non rischieranno il licenziamento ma severe sanzioni tanto economiche (che potrebbero andare dai 400 ai 1000 euro) quanto disciplinari, come sarà riportato nel decreto che avrà il via libera oggi alle 16:00 durante il Consiglio dei ministri. Secondo le indiscrezioni, la data ufficiale sarà scaglionata tra le varie misure tra l’1 e il 15 ottobre. Col fine di non rischiare un calo delle vaccinazioni, il Governo rimane contrario alle richieste – di Cgil, Cisl e Uil e di alcuni ministri – di rendere gratuiti i tamponi. Mentre l’Italia si muove in una direzione sempre più severa, nel resto d’Europa le scelte adottate dai governi prendono strade differenti. Vediamo nel dettaglio.

Inghilterra: stop al Green Pass

Cambio di rotta totale in Inghilterra dove il governo di Boris Johnson ha scelto di non introdurre l’obbligo dell’NHS Covid Pass (l’equivalente britannico della certificazione europea) per accedere a locali notturni e luoghi affollati, una decisione che sarebbe dovuta entrare in vigore entro la fine di settembre.

Scozia: certificazione dal primo ottobre

A differenza del vicino inglese, l’obbligo del Green Pass in Scozia partirà dal primo ottobre. Se ne parla però esclusivamente per i locali notturni e per gli eventi che prevedono partecipazioni di massa (spettacoli, concerti, festival, eventi sportivi).

Danimarca: una ritrovata “normalità”

La Danimarca ha completamente abolito tutte le misure legate al Covid-19 grazie all’andamento molto positivo della campagna vaccinale. Il Green Pass nel Paese non è utilizzato.

Svezia: restrizioni solo per chi entra nel Paese

La Certificazione Digitale Covid UE è da mostrare per chiunque voglia accedere in Svezia, la quale però opta per tornare alla “vita normale”; a partire dal 29 settembre, saranno infatti abolite gran parte delle misure anti-contagio.

Nessun obbligo in Spagna, nemmeno per i sanitari

La Spagna ha optato per dare libertà alle singole regioni di scegliere se introdurre o meno il Green Pass obbligatorio per accedere a determinati luoghi, ma non esiste alcun obbligo stabilito dal Governo. L’unica imposizione è quella dell’uso delle mascherine quando si entra in luoghi al chiuso. Anche qui nessuna traccia di necessità del certificato per accedere al posto di lavoro.

Nessuna imposizione in Germania, ma…

Soltanto esibendo la certificazione è possibile restare all’interno di locali pubblici o privati, incluse le discoteche. Qui però finiscono gli obblighi. A differenza dell’Italia non vi è alcun obbligo per accedere a mezzi pubblici, treni, aerei né – tantomeno – è in vigore l’obbligo per accedere al luogo di lavoro. Misure differenti solo per i sanitari.

Austria: obbligo delle mascherine FFP2

In Austria il governo ha scelto di imporre l’uso delle mascherine FFP2 (invece delle normali maschere per il viso) per l’accesso ad attività essenziali e per utilizzare i mezzi pubblici. Le mascherine FFP2 sono poi obbligatorie per l’accesso ai musei e ai negozi per chi non è vaccinato o si è ripreso recentemente dal COVID.

Le nuove misure in Francia

Delle “severe” regole francesi si è parlato a lungo, soprattutto grazie alle ampie e ripetute proteste che ancora interessano il Paese. Eppure quanto è imposto ai cittadini d’Oltralpe non è paragonabile a quanto avviene in Italia. L’esibizione del Green Pass è necessario per l’accesso a cinema, ristoranti, grandi centri commerciali, musei, biblioteche, impianti sportivi, festival, fiere, trasporti a lungo raggio. Da ieri è entrato in vigore l’obbligo di vaccinazione per il personale sanitario: se questo non sarà rispettato, i dipendenti potrebbero essere sospesi (provvedimento che ha generato numerose proteste in tutto il Paese). Nessun obbligo per scuole e università, né per tutti gli altri posti di lavoro pubblici o privati. È stato rimosso, inoltre, l’obbligo della mascherina chirurgica.

Il Belgio in stand-by

Il vicino Belgio, al contrario, non ha previsto alcun obbligo, almeno fino al 17 settembre, data in cui il Governo si dovrà esprimere a riguardo.

Svizzera: solo luoghi chiusi e grandi eventi

Dal 13 settembre, in Svizzera, c’è stata l’estensione dell’obbligo del certificato vaccinale dai 16 anni per accedere a luoghi chiusi ma anche per eventi all’aperto in cui si prevedono affollamenti. Le università e le scuole possono invece decidere in modo autonomo. Anche qui nessun obbligo all’esibizione del certificato per i lavoratori.

Estonia, Lettonia, Lituania

Nei tre paesi è stato scelto che solo chi potrà attestare di essere stato vaccinato potrà  accedere a ristoranti, palestre, cinema e teatri al chiuso. Fine delle limitazioni.

La Grecia è più “vicina” all’Italia

Per trovare una situazione analoga a quella italiana occorre andare in Grecia, unico Paese con norme circa sovrapponibili. In terra ellenica il lasciapassare sanitario è necessario per le attività al chiuso dal 13 settembre e per viaggiare sui treni a lunga percorrenza. I lavoratori invece possono scegliere di vaccinarsi o, in alternativa alla vaccinazione, questi devono effettuare due tamponi a settimana, a proprie spese. Anche nelle scuole e nelle università e in settori turistici è sempre obbligatorio il test negativo. L’obbligo vaccinale è in vigore per operatori sanitari e dipendenti della Rsa.

[di Francesca Naima]