domenica 9 Novembre 2025
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Oltre 100 nazioni si sono impegnate a proteggere gli oceani

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I rappresentanti di oltre 100 nazioni si sono impegnati ad adottare misure volte a preservare gli oceani, tra cui la lotta contro la pesca illegale e la riduzione dell’inquinamento da plastica: è quanto emerge dalla dichiarazione “Brest commitments for the oceans” adottata nell’ambito del “One Ocean”, un summit tenutosi dal 9 all’11 febbraio scorso a Brest, in Francia, a cui hanno partecipato i capi di governo di 41 paesi. Il vertice ha segnato il punto di partenza di una serie di importanti incontri internazionali relativi agli oceani, tra cui la Conferenza sull’Oceano dell’Onu (Organizzazione della Nazioni Unite), che si terrà a giugno a Lisbona, e la COP27 prevista in autunno a Sharm el-Sheikh, in Egitto.

“Consapevoli che la posizione degli oceani nell’agenda politica internazionale non è attualmente commisurata al suo ruolo negli equilibri climatici, ambientali e sociali o al grado di minaccia per la vita marina – si legge nella dichiarazione – i leader di Brest si sono impegnati a lavorare insieme in modo rapido e tangibile per mettere a punto un stop al degrado degli oceani, scegliendo di agire per preservare la biodiversità, fermare lo sfruttamento eccessivo delle risorse marine, combattere l’inquinamento e mitigare il cambiamento climatico“.

Nello specifico, per quanto riguarda i 27 stati appartenenti all’Ue, essi hanno lanciato con altre 16 nazioni la “High Ambition Coalition on Biodiversity Beyond National Jurisdiction”, atta a stabilire entro la fine dell’anno un accordo globale avente ad oggetto la regolamentazione dell’uso sostenibile dell’altro mare – ossia delle acque al di fuori della giurisdizione di qualsiasi paese – tutelando così la loro biodiversità. Per quanto concerne invece la pesca illegale, che “rappresenta quasi un quinto delle catture mondiali, mina gli sforzi per gestire gli stock ittici in modo sostenibile e spesso comporta condizioni di sicurezza e di lavoro pessime per i pescatori”, 14 Paesi si sono impegnati ad intensificare la lotta contro di essa su più fronti. In tal senso, l’accordo della FAO sulle misure dello Stato di approdo ad esempio, atto a controllare meglio le attività di pesca nei porti in cui vengono sbarcate le catture, sarà ratificato da altri 2 Paesi, mentre diversi Stati dell’UE si sono “impegnati a schierare le loro flotte in operazioni all’estero così da intensificare la sorveglianza della pesca illegale”.

Oltre a tutto ciò, dato che “alcuni ecosistemi marini e costieri possono assorbire e immagazzinare grandi quantità di carbonio” e siccome bisogna dunque “accelerare i progetti di protezione e ripristino di tali ecosistemi, Francia e Colombia hanno lanciato una “coalizione globale per il carbonio blu” che riunirà tutti coloro che, a livello nazionale e internazionale, vorranno contribuire al “finanziamento del ripristino degli ecosistemi costieri utilizzando metodologie condivise e rigorose“.

Inoltre, un altro obiettivo da citare è senza dubbio quello della “fine dell’inquinamento plastico negli oceani”. Nove milioni di tonnellate di plastica finiscono nel oceano ogni anno”, si ricorda infatti all’interno della dichiarazione, motivo per cui la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (EBRD) si è unita alla Banca europea per gli investimenti (BEI) e alle banche di sviluppo di Francia (AFD), Germania (KfW), Italia (CDP) e Spagna (ICO), per portare avanti la “Clean Oceans Initiative” – una iniziativa atta a ridurre l’inquinamento da plastica in mare – ed hanno raddoppiato i loro sforzi in questo settore, impegnandosi a fornire 4 miliardi di euro di finanziamenti entro il 2025. Infine, un’altra mezza dozzina di Paesi si è unita invece al “New Plastics Economy Global Commitment”, un programma ambientale delle Nazioni Unite per aiutare i governi e le imprese a passare a un’economia circolare mirata al riciclaggio o al riutilizzo del 100% di tutta la plastica.

[di Raffaele De Luca]

Crisi in Ucraina: gli ultimi aggiornamenti

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Sono giorni intensi sul fronte della diplomazia per cercare una soluzione pacifica alla crisi in Ucraina. Nell’ultima settimana gli sforzi diplomatici di tutte le parti interessate ad evitare un possibile conflitto si sono infatti moltiplicati, purtroppo senza produrre, al momento, risultati evidenti.

Lo scorso martedì, è stato il turno del presidente francese Emmanuel Macron, che si è recato a Mosca per un meeting con Vladimir Putin. Incontro che non ha portato ad alcun risultato, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha infatti dichiarato che: «nella situazione attuale, Mosca e Parigi non possono raggiungere alcun accordo». Il 10 febbraio, si è tenuto invece un incontro tra il ministro degli esteri russo Sergey Lavrov e la sua controparte inglese Liz Truss. Anche in questa occasione senza giungere a nulla, Lavrov ha infatti dichiarato al termine dell’incontro che: «è stata una conversazione tra un muto e un sordo».

A distanza di due giorni, tramite una videoconferenza, si sono invece parlati direttamente, anche qui senza ottenere alcun risultato, il presidente americano Biden e quello russo Putin. Mentre oggi, 14 febbraio, sarà il turno del cancelliere tedesco Olaf Scholz che si recherà prima a Kiev e poi a Mosca, nel tentativo di mediare una soluzione pacifica alla crisi. Sarebbe inoltre previsto, nelle prossime 48 ore, un meeting tra le delegazioni di Ucraina, Russia e gli altri paesi coinvolti, in quella che potrebbe essere “l’ultima spiaggia” per una soluzione diplomatica. Stando a quanto riportato da Reuters, l’ambasciatore ucraino in Inghilterra avrebbe infatti dichiarato alla BBC come il governo di Kiev, per evitare una guerra, stesse seriamente valutando la possibilità di ritirare la richiesta di ingresso nella NATO (Organizzazione del Trattato Atlantico del Nord). Possibilità che appare coerente con quanto dichiarato, nella giornata di ieri, dal presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy e quello americano Biden, di voler cercare una soluzione diplomatica alla crisi.

Nonostante, fino ad ora, gli sforzi diplomatici non abbiano portato risultati, nota positiva è che, al momento, tali sforzi non siano stati del tutto abbandonati. Lasciando quindi la porta aperta ad una soluzione politica della crisi piuttosto che militare. É evidente come una guerra in Ucraina avrebbe conseguenze catastrofiche non solo per Russia e Ucraina ma anche per tutti gli altri paesi europei. Negli ultimi giorni però le informazioni relative agli sforzi diplomatici si sono spesso contrapposte a notizie che andavano in una direzione totalmente opposta. in particolare sul versante americano, il segretario di Stato Antony Blinken ha dichiarato venerdì’ scorso che: «un’invasione russa dell’Ucraina potrebbe iniziare in qualsiasi momento». Mentre l’emittente statunitense CBS, ha riportato le parole del consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan: «gli Stati Uniti sono fermamente convinti che la Russia stia creando ad arte un finto incidente per giustificare un’invasione». Si è spinta addirittura oltre la testata Politico, sostenendo che in base alle notizie ricevute, da non meglio identificati alti ufficiali americani, l’attacco russo sarebbe previsto per il 16 febbraio. A questa serie di informazioni, si vanno poi ad aggiungere una marea di notizie e reportage, più’ o meno attendibili, che si possono trovare sulla rete e nei principali social media. Dove spesso il movimento di una nave militare, di un singolo areo o di un semplice mezzo motorizzato vengono dipinti come fatti indisputabili che evidenziano come una guerra sia inevitabile. Evidentemente tutto il mondo è paese, diventano tutti generali quando si avvicina una guerra, come si diventa commissari tecnici prima delle partite della nazionale di calcio. Altre notizie, quelle si vere e verificate, possono invece risultare giustamente preoccupanti, ad esempio le evacuazioni di diverse ambasciate occidentali. Ma bisogna cercare di fare una analisi più’ approfondita, le ambasciate hanno l’obbligo di tutelare la sicurezza dei propri cittadini stando sempre dalla parte del sicuro. Un aumento delle tensioni, in un contesto di isteria da parte di molti media occidentali, ha lasciato ben pochi margini di manovra di fatto “costringendo” molti paesi a chiudere i viaggi verso l’Ucraina. Viaggi che comunque dato il COVID sono in ogni caso già fortemente limitati. Gli Stati Uniti ad esempio sconsigliano i viaggi per i propri cittadini in ben 154 paesi, tra cui l’Antartica. Ci sono anche gli esempi dei paesi che hanno scelto di non chiudere le ambasciate, come la Cina, che ha semplicemente invitato i suoi cittadini a tenere monitorata la situazione. Preoccupazioni sono arrivate anche dalle notizie inerenti alla possibile chiusura dello spazio aereo ucraino, dal 14 febbraio infatti, il gigante assicurativo inglese Lloyds ha annunciato la volontà di cancellare le polizze che coprono i rischi relativi ad un conflitto per gli aerei diretti in Ucraina. Scelta che potrebbe apparire come sinonimo di una guerra imminente, eppure lo stesso governo ucraino ha commentato tale scelta come “insensata”. Lasciando intendere che dietro la scelta di Lloyds ci siano, forse, motivazioni economiche e politiche piuttosto che di vera e propria valutazione dei rischi. Per concludere, una delle notizie più preoccupanti apparse nei social media è quella del 13 febbraio, relativa ai colpi di mortaio sparati dall’esercito ucraino contro le forze filo-russe nelle Donbass. Notizia che, seppur non ancora completamente confermata, potrebbe venir intesa come la scintilla che da il via alla guerra. Bisogna pero’ ricordare che tali schermaglie nelle regioni del Donbass sono frequenti, basti pensare che dal 1 gennaio al 30 settembre sono state ben 84 le vittime civili. Nello stesso periodo del 2020 erano state invece 127.

Le tensioni tra Russia e Ucraina esistono, e una guerra non si può certo escludere, però non stiamo parlando di un conflitto inevitabile, dato che i margini di manovra ancora esistono. Gli sforzi diplomatici dei prossimi giorni potrebbero quindi, finalmente, riportare la situazione ad una parvenza di normalità con il ripristino almeno parziale dei protocolli di Minsk del 2015. Anche considerando il fatto che, l’unica via, per sperare di avere una soluzione duratura per il Donbass e la Crimea, resta quella politica.

[di Enrico Phelipon]

Yemen, Oxfam: battaglia per governatorato di Marib ha peggiorato situazione umanitaria

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“Un anno dopo l’escalation della battaglia per il governatorato yemenita di Marib, la situazione umanitaria è peggiorata”, dato che “gli attacchi aerei e le mine hanno causato lo sfollamento di quasi 100.000 persone”: è quanto afferma tramite una nota l’Oxfam, precisando che “il mese scorso 43 attacchi aerei hanno colpito obiettivi civili”, rappresentando più di un quinto degli attacchi totali nell’ultimo anno. Molti di questi attacchi, inoltre, hanno distrutto case e attività e saranno necessari diversi anni per ricostruirle. Per tali motivi, dunque, il direttore nazionale di Oxfam nello Yemen, Muhsin Siddiquey, ha affermato che l’unica via d’uscita a tutto ciò sarebbe costituita da un incontro tra le parti in guerra, che dovrebbero negoziare un accordo di pace permanente.

Quanto guadagnano i politici italiani? Pubblicate le dichiarazioni dei redditi

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Nei giorni scorsi sono state pubblicate le dichiarazioni dei redditi dei ministri, senatori e deputati italiani. Si tratta della documentazione patrimoniale presentata nel 2021 e quindi risalente alle entrate del 2020, consultabili sulle pagine personali di ciascun politico.
Tra i leader di partito spicca il reddito del segretario del PD Enrico Letta che, con 621.818 euro dichiarati, primeggia sui suoi colleghi. Completano il podio il leader di Italia Viva Matteo Renzi, con entrate pari a 571.391 euro, e Giorgia Meloni. La guida di Fratelli d’Italia ha infatti dichiarato nel 2021 un reddito di 134.206 euro.

Più staccati, invece, i leader di Leu, Sinistra Italiana e Lega che hanno presentato una documentazione patrimoniale simile. Il reddito di Roberto Speranza ammonta infatti a 107. 842 euro (+27.000 rispetto alla dichiarazione del 2020), Nicola Fratoianni dichiara entrate pari a 101.800 euro e Matteo Salvini chiude la classifica con il reddito più basso fra le guide di partito: 99.699 euro.

A Palazzo Madama la musica cambia e i primi tre in questa speciale classifica dichiarano redditi a 6 zeri. La terza posizione viene conquistata dal senatore a vita Renzo Piano, che nel 2021 ha dichiarato un reddito di 1 milione e 860 mila euro. Occupa la seconda posizione Giulia Bongiorno, avvocato e senatrice della Lega, con entrate pari a 2 milioni e 402 mila euro. Dichiarando un reddito di 2 milioni e 689 mila euro, l’avvocato di Silvio Berlusconi e senatore di Forza Italia, Niccolò Ghedini, conquista il primo posto dopo aver sfiorato i 3 milioni di euro di entrate nel 2019. Secondo le stime di Openpolis, farebbero parte del patrimonio di Ghedini 22 immobili, 5 terreni e diverse azioni in varie società. A primeggiare su tutti è lo stesso Berlusconi, ormai lontano dai confini romani e approdato a Bruxelles nel 2019 come europarlamentare, che ha dichiarato un imponibile di oltre 50 milioni di euro, fra azioni, immobili e imbarcazioni di lusso.

L’attuale Presidente del Consiglio dei ministri, Mario Draghi, ha presentato invece un reddito di 527.319 euro (56.000 in meno rispetto alla dichiarazione precedente), forte di 16 immobili, tra cui un appartamento a Londra e diverse proprietà fra Roma, Anzio, Stra (Venezia) e Città della Pieve (Perugia). A questi si aggiungono 10 mila azioni della società semplice Serena. Tra i ministri del Governo Draghi spicca infine Renato Brunetta, a capo della Pubblica Amministrazione, che nel 2021 ha dichiarato entrate complessive pari a 206.996 euro.

[di Salvatore Toscano]

Genova, grida “assassino” a Draghi: denuncia e foglio di via

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Un uomo di 36 anni sarebbe stato denunciato per aver gridato “assassino” al premier Mario Draghi, mentre questi usciva da Palazzo San Giorgio, a Genova, al termine di una visita. Secondo quanto riportato dai quotidiani locali, l’uomo sarebbe stato perquisito e identificato dalle Forze dell’Ordine dopo aver cercato di avvicinarsi alla vettura sulla quale viaggiava Draghi. In seguito è stato accompagnato in Questura, dove è stato denunciato per vilipendio della Repubblica e dove gli è stato consegnato un foglio di via, che gli impone di non rientrare a Genova per un anno.

Carcere di Modena: poliziotti indagati per lesioni aggravate e tortura

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Numerosi agenti della polizia penitenziaria del carcere di Sant’Anna sono stati iscritti nel registro degli indagati dalla Procura di Modena, per reati di lesioni aggravate e tortura. I fatti imputati risalgono alla rivolta carceraria che ha avuto luogo nel penitenziario di Modena l’8 febbraio 2020 e che si è conclusa con la morte di 9 reclusi. Alcuni detenuti, ascoltati dagli inquirenti in qualità di persone informate sui fatti, avrebbero identificato gli agenti come autori delle violenze dopo aver consultato un album fotografico messo a loro disposizione dai magistrati titolari dell’indagine.

La conferma sarebbe giunta a fine gennaio, con l’inaugurazione dell’anno giudiziario del distretto di Bologna. Lo riporta il quotidiano Domaniil quale scrive come la procuratrice generale facente funzioni Lucia Musti abbia in quell’occasione comunicato lo stato delle indagini. Numerosi agenti della polizia penitenziaria sarebbero stati iscritti nel registro degli indagati a fine 2021 per i fatti risalenti all’8 marzo 2020, quando nel carcere di Sant’Anna scoppiò la più grande rivolta degli ultimi 40 anni di storia penitenziaria italiana “per entità, ampiezza del coinvolgimento della popolazione detenuta, tragicità dell’epilogo”.

Le indagini, che si trovano ancora nella fase preliminare, avrebbero preso il via a seguito di alcuni esposti presentati dall’associazione Antigone e dagli avvocati delle vittime, dopo che 7 detenuti avevano raccontato le violenze subite dalla polizia. Gli esposti hanno portato all’apertura di un fascicolo contro ignoti, ora a carico di persone “note e identificate”.

“A me dispiace molto per quello che è successo” scrive un detenuto in una delle lettere fatte pervenire all’AGI, l’Agenzia Giornalistica Italia, “Io non c’entravo niente. Ho avuto paura. Ci hanno messo in una saletta dove non c’erano le telecamere. Amatavano [ammazzavano, ndr] la gente con botte, manganelli, calci e pugni. A me e a un’altra persona ci hanno spogliati del tutto. Ci hanno colpito alle costole. Un rappresentante delle forze dell’ordine, quando ci siamo consegnati, ha dato la sua parola che non picchiava nessuno. Poi non l’ha mantenuta”. Secondo quanto dichiarato dall’associazione Antigone, 4 decessi su 9 sarebbero avvenuti dopo che i detenuti erano stati trasferiti in altri penitenziari, quindi a rivolta conclusa.

Altri due fascicoli erano stati aperti, in riferimento all’accaduto: uno, ancora aperto, per i danni causati dai detenuti all’interno del penitenziario e l’altro riguardante i 9 decessi, archiviato perché i risultati delle indagini avrebbero imputato le morti all’overdose di metadone. Per questa sentenza l’associazione Antigone aveva presentato un ricorso, poi respinto, motivo per il quale il caso sarà portato all’attenzione della Corte europea per i diritti dell’uomo (CEDU).

Al momento dell’esplosione della rivolta, il carcere di Sant’Anna, che ha una capacità massima di 369 detenuti, si trovava con una popolazione di 560 individui incarcerati. Lo scoppio della pandemia, che nelle carceri si è diffusa rapidamente anche se con un certo ritardo, ha innescato un clima di paura, associato all’impossibilità di mantenere le distanze di sicurezza a causa del sovraffollamento e della mancanza dei Dispositivi di Protezione Individuali e di base, come mascherine e disinfettanti. A questo si aggiunsero le restrizioni imposte dalle istituzioni circa le visite dei familiari, che fecero da scintilla per lo scoppio della rivolta. Il bilancio fu di decine di feriti e 9 detenuti deceduti.

[di Valeria Casolaro]

Il Mediterraneo è pieno di sottomarini militari: l’avviso ai pescatori siciliani

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Attenzione a dove pescate o rischiate di incappare in un sottomarino militare, almeno stando a quanto ha riferito la Guardia costiera di Pozzallo in un recente bando di pericolosità emesso in relazione alle norme per prevenire gli abbordi in mare. Una nota che non stupisce molto, se si considera che la zona del ragusano e di Ispica si assiste da giorni al passaggio di navi e velivoli militari della NATO che solcano a più riprese i mari e i cieli locali.

La situazione si è animata da che, settimana scorsa, le armate dell’Alleanza si sono messe a tallonare da vicino sei navi da sbarco russe dirette a un’ennesima esercitazione militare nel Mar Nero, esercitazione che fatalmente lambisce l’Ucraina. Da allora, i ricognitori occidentali agiscono forsennatamente per creare una maglia di sorveglianza e di controllo che assume più le sembianze di un atto teatrale, che di una concreta necessità strategica.

Il sommergibile scomodato dalla NATO batterà infatti le acque territoriali degli stati dell’Alleanza almeno fino alle 24 del 14 febbraio e c’è da chiedersi cosa si aspetti di intercettare, visto che le navi russe che hanno dato il via alle manovre hanno superato lo stretto dei Dardanelli l’8 febbraio. Facile piuttosto che il sottomarino sia parte integrante di un “wargame” che sta coinvolgendo Francia, USA e Italia e che si protrarrà fino ad aprile. Questa esercitazione congiunta si sta concentrando progressivamente nell’area tra la Grecia e la Siria, con un addensamento di forze di quasi trenta navi da guerra che per giungere in zona devono necessariamente passare al largo della costa iblea.

Il transito dei pescherecci non è stato sospeso per l’occasione, tuttavia il braccio di ferro tra NATO e Russia sta ugualmente sollevando l’attenzione dei cittadini siculi, i quali faticano a non rievocare sensazioni che attingono a un periodo precedente al crollo del Muro di Berlino, ovvero a quando in piena Guerra Fredda l’Alleanza spianò i reperti archeologici di Punta Castellazzo per costruire sui ruderi una base militare. 

Nonostante il concetto di Guerra Fredda sia inadeguato a descrivere le tensioni interne a una società internazionale iperconnessa e globalizzata, resta il fatto che a livello microscopico i risultati delle sfide di potere tra i due vecchi rivali si concretizzano in fenomeni affini a quelli di un’era passata, con il Mar Mediterraneo che continua a dimostrarsi un nodo essenziale per garantire ogni genere di manovra militare.

[di Walter Ferri]

Proteste Canada, sgomberato ponte di collegamento con Stati Uniti

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È stato riaperto nella tarda serata di domenica 13 febbraio l’Ambassador Bridge, il ponte di collegamento tra Stati Uniti e Canada bloccato da sei giorni dai manifestanti del Freedom Convoy. Nella giornata di domenica la polizia ha infatti intensificato la propria presenza, arrestando decine di manifestanti e facendo rimuovere i veicoli che bloccavano l’area. Il blocco del ponte, uno dei principali collegamenti commerciali del Nord America, aveva impedito l’approvvigionamento di alcune case automobilistiche, costringendo Ford, General Motors e Toyota a tagliare la produzione.

Le strambe manovre per un nuovo “grande centro”

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Esiste un sogno politico chiamato “grande centro” che, nel nostro Paese, torna ciclicamente alla ribalta. Successe già all’inizio dello scorso decennio, all’indomani del definitivo sgretolamento del bipolarismo che vedeva come protagonisti Berlusconi e il blocco del centro-sinistra: terminato il suo mandato come Primo Ministro, potendo contare sull’appoggio di Futuro e Libertà per l’Italia di Gianfranco Fini (reduce dalla scissione dal PDL) e dell’UDC di Pier Ferdinando Casini, l’ex banchiere Mario Monti si fece carico di ricostituire e guidare una forza politica alternativa alla destra, alla sinistra e al ‘populismo post-ideologico’ del neonato Movimento 5 Stelle. Il risultato alle elezioni del 2013? Un misero 10%, segno che la battaglia politica, per gli anni a venire, si sarebbe giocata su altri piani: in particolare, l’emersione delle forze anti-establishment (vedasi il risultato delle elezioni del 2018) e la ‘radicalizzazione’ del centro-destra resero vano ogni sforzo “moderato”.

Eppure, in seguito alla nascita dell’Esecutivo di Mario Draghi e, in particolare, dopo la rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale, effetto della “sistematizzazione” almeno parziale delle  forze politiche al Governo, i centristi sembrano volere concretamente rimettere mano al progetto lasciato a metà. A rompere gli indugi sono stati, per primi, il leader di Italia Viva Matteo Renzi e il fondatore di Coraggio Italia Giovanni Toti, i quali hanno dato il via libera alla federazione “Italia al Centro”, con l’obiettivo di agglomerare sotto tale sigla la galassia dei partiti moderati. I sondaggi, infatti, sono per loro impietosi e il rischio di non ottenere i numeri per entrare in Parlamento alle prossime elezioni è estremamente concreto.

La cornice delle prospettive politiche di Renzi & Co. è stata ben delineata dallo stesso ex Premier mercoledì 9 febbraio a Porta a Porta su Rai 1: «Io vorrei costruire un’area che sia contro il sovranismo di destra e contro i populisti-massimalisti», un’area in cui «se il PD ci vuole stare, è un film, se il PD non ci vuole stare, è un altro film». Infatti, ha dichiarato Renzi, «Negli ultimi anni non ho più giocato da centravanti, ma in mezzo al campo, ruolo con cui ho dato una mano affinché arrivasse Draghi al posto di Conte e perché ci fosse Mattarella. Il mondo di Toti, come pure di Carfagna, Gelmini, dei sindaci riformisti del PD, di Beppe Sala, c’è». Il commento del coordinatore nazionale di Forza Italia ed Eurodeputato del Partito Popolare Europeo Antonio Tajani è stato affidato ad una nota stampa: «Non esiste la possibilità, con il sistema elettorale attuale, di dar vita a un centro diverso dal centrodestra. Il centro del centrodestra occupa uno spazio politico che è quello dell’area moderata che fa riferimento alla famiglia del Partito popolare europeo. In questo momento Italia Viva fa parte dell’altra metà della mela, è un partito del centrosinistra. Se vorrà cambiare posizione, ne parleremo, ma adesso è un partito del centrosinistra con cui si può collaborare su alcune tematiche importanti. Lo abbiamo fatto e continueremo a farlo». Una reazione tiepida, ma che, in attesa di capire come il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi deciderà di muoversi, non manifesta certo una chiusura incondizionata.

Peraltro, ad aprire ufficialmente l’ennesima stagione della “corsa al centro” era stato, nell’ottobre dello scorso anno, proprio lo ‘sposalizio’ tra Forza Italia ed Italia Viva in Sicilia, con la nascita di un intergruppo tra le due forze politiche in consiglio regionale annunciata dal Presidente dell’ARS Gianfranco Micciché. Candidato da Forza Italia come nuovo governatore della Sicilia alle elezioni regionali del prossimo autunno, Micciché ha ottenuto il plauso di Davide Faraone, il ‘renziano di ferro’ in corsa per aggiudicarsi la poltrona di sindaco di Palermo alle Amministrative che si terranno tra una manciata di settimane: «Gianfranco Micciché sta dimostrando di avere coraggio. È tempo di passare dalle chiacchiere ai fatti: chi parla di campo largo e di ‘modello Draghi’ deve avere gli attributi per attuarli. Gianfranco sta dimostrando di averli». Dichiarazioni colme, tra le righe, di amorevoli intenti.

In ogni caso, il più grosso problema per il progetto politico di centro a cui si lavora a livello nazionale resta quello dei voti. Voti che, ancora più di dieci anni fa, mancano, così come manca una leadership forte in grado di attrarli. Ed ecco che i sognatori del “mondo di mezzo” si appellano al Premier Mario Draghi perché accetti di offrire un volto credibile all’accozzaglia centrista. «Sarò il federatore di forze di centro alle prossime elezioni? Rispondo in maniera totalmente chiara: lo escludo», ha però affermato Draghi in conferenza stampa venerdì 11 febbraio, reagendo in maniera piccata alle proposte dei «tanti politici«» che lo hanno candidato «in tanti posti in giro per il mondo»: «Io li ringrazio moltissimo, ma vorrei rassicurarli che, se dopo quest’esperienza decidessi di lavorare, un lavoro me lo trovo anche da solo». Evidentemente, la mancata elezione a nuovo Presidente della Repubblica è stata mal digerita dall’ex Presidente della BCE.  Intanto, il centro politico italiano di cui tutti parlano, nei cui ranghi fioccano politici ma alla cui base mancano elettori, resta ad oggi pura immaginazione.

[di Stefano Baudino]

Dyson, dipendenti denunciano lavoro forzato in fabbrica malese

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In Inghilterra alcuni lavoratori del Nepal e del Bangladesh hanno fatto causa a Dyson, nota azienda produttrice di elettrodomestici, per le condizioni di lavoro forzato cui sarebbero stati sottoposti in una delle fabbriche fornitrici in Malesia. Ne dà notizia Human Rights Watch. Dyson avrebbe rigettato le accuse, sostenendo di essere attiva nella prevenzione del fenomeno conducendo audit aziendali interni ed esterni, strumenti tuttavia da tempo giudicati insufficienti dai difensori dei diritti umani.