mercoledì 17 Settembre 2025
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Il microchip anti-Covid sperimentato in Svezia è una mossa commerciale

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Tra le varie leggende metropolitane che sono circolate attorno ai vaccini contro il coronavirus, una delle più pittoresche è certamente quella che suggeriva che i medicamenti venissero sfruttati da Bill Gates per introdurre dei microchip nei corpi dei pazienti. A distanza di qualche mese da che quella voce aveva preso piede, fa dunque impressione lo scoprire che un’azienda svedese, Epicenter, ha ben pensato di cogliere l’attimo per reclamizzare un impianto sottocutaneo capace di custodire i dati della certificazione verde europea.

La trovata commerciale della start-up di Stoccolma ha colpito in pieno tutti gli obiettivi di una campagna marketing di successo, almeno a giudicare dall’impareggiabile valore espositivo che le ha garantito la notizia, tuttavia lo strumento non ha tanto impressionato per la sua innovazione tecnica – la quale non è dissimile da qualsiasi altro apparecchio “contactless” -, quanto per il sottotesto distopico che deriva dal fondere le macchine di raccolta dati alla struttura biologica di un essere umano.

Superato l’elemento quasi provocatorio che ha catalizzato l’attenzione, il panorama prospettato da questa campagna commerciale è però tutto meno che preoccupante, anzi è quasi banale. La moda del “chipparsi”, una moda puramente antropopoietica, ha preso piede in quel della Svezia e in alcune aziende tecnologiche statunitensi già a partire dal 2014, ma le funzionalità dell’innesto si limitano a quelle che normalmente vengono espletate dalle normali tessere magnetiche o dagli smartphone. Non una vera e propria rivoluzione, dunque, piuttosto una scelta estetica di un ramo derivante dalla sottocultura della modificazione corporea, una scelta estetica lanciata dal tatuatore Jowan Österlund che sottolinea un’appartenenza ideologica condivisibile da tutti coloro che ambiscono al successo del transumanesimo.

Nulla di preoccupante, dunque, almeno fintanto che la cosa rimarrà com’è allo stato odierno, ovvero finché l’intervento sarà eseguito su base volontaria da parte di un pubblico ristretto e dalla posizione sociale forte. Lo scenario distopico delle grandi aziende che marchiano i propri dipendenti e li monitorano trasformandoli letteralmente in cyborg è peraltro estremamente remoto: diversi Stati degli USA hanno già introdotto regole che vietano a priori una simile deriva, mentre la legislazione europea è tutelata da numerosissime norme che renderebbero il tutto inutile, ancor prima che inattuabile.

A ben vedere, la questione dei microchip sottocutanei ha origine nell’ormai remoto 1998, anno in cui lo scienziato Kevin Warwick ha voluto sperimentare letteralmente sulla propria pelle le possibilità tecniche di un impianto, e da allora diverse aziende hanno cercato di farne a più riprese un vero e proprio status symbol, fallendo ogni volta. Certo, rimane sempre la fantasia che vedrebbe un perverso regime autoritario imporre ai propri cittadini l’intervento chirurgico, tuttavia, in un mondo in cui 6,3 miliardi di persone sono dotate di smartphone, un simile approccio sarebbe quanto mai poco pratico, soprattutto perché non esistono al giorno d’oggi strumentazioni geolocalizzanti tanto piccole ed economiche da poter offrire un’alternativa più conveniente di quanto non sia già a disposizione delle dittature.

Se poi siete tra coloro che vorrebbero davvero un chip sottocutaneo, non possiamo che rimarcare che gli studi clinici sulle conseguenze di un simile intervento sono pochi e contraddittori, ma soprattutto che la tecnologia evolva a un ritmo sempre più marcato e non è improbabile che gli innesti debbano essere sostituiti a distanza di pochi anni da che lì si è acquistati. Uno sforzo forse eccessivo, se lo scopo finale è quello di trasformare il palmo della propria mano in una tessera dei mezzi pubblici.

[di Walter Ferri]

Birmania, Bbc: a luglio uccisioni di massa di civili, almeno 40 morti

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In Birmania, almeno 40 uomini sono morti a causa di una serie di uccisioni di massa di civili effettuate dall’esercito nel mese di luglio: è quanto si evince da un’indagine della Bbc. Quest’ultima infatti nella giornata di oggi ha pubblicato un articolo che, tra l’altro, contiene un video in cui i residenti di uno dei villaggi presi di mira trovano i corpi di alcune delle vittime in una fossa comune. A tal proposito, secondo quanto riportato dalla Bbc le uccisioni di massa si sono verificate nel Kani Township, un Comune roccaforte dell’opposizione situato nel distretto di Sagaing, ed il villaggio più colpito è stato quello di Yin.

Carcere di Capua Vetere: 108 agenti indagati per tortura e violenza

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Nella giornata di mercoledì si è tenuta nell’aula bunker del carcere campano di Santa Maria Capua Vetere l’udienza preliminare del processo in cui sono imputati in 108 -tra agenti della Polizia penitenziaria e funzionari del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) – per le violenze nei confronti dei detenuti di tale carcere avvenute nel mese di aprile 2020. I 108 individui sono accusati a vario titolo di: tortura, lesioni, abuso di autorità, falso in atto pubblico e cooperazione nell’omicidio colposo del detenuto algerino Lakimi Hamine (addebitato a 12 imputati). Quest’ultimo, un ragazzo di 28 anni di origine algerina, venne infatti messo in isolamento subito dopo il pestaggio in questione e fu poi trovato morto il 4 maggio 2020. Per quanto concerne il reato di tortura, invece, esso viene contestato a circa 50 pubblici ufficiali: si tratta della prima volta dall’introduzione – nel 2017 – dello stesso.

Venendo poi ai quasi 200 detenuti coinvolti nella vicenda, al momento sono 56 i difensori costituitisi come parte civile: tra questi troviamo associazioni come “Antigone” – che si è detta dispiaciuta per il «numero esiguo di difensori delle persone offese» – il garante campano per i detenuti Samuele Cambriello, che con le sue denunce ha dato il via all’indagine e, soprattutto, il ministero della Giustizia. Proprio nei confronti di quest’ultimo, però, si è creata una questione giuridica che il gup Pasquale D’Angelo dovrà dirimere. Gli avvocati di alcuni detenuti hanno infatti annunciato di voler chiedere l’autorizzazione a citare il ministero come responsabile civilmente. Proprio per tale motivo, dunque, non appare lontana l’ipotesi per cui il dicastero potrebbe comparire nella doppia veste di parte offesa e responsabile civile.

Attualmente quello che è invece certo è che la prossima udienza si terrà l’11 gennaio, con i difensori degli imputati che dovranno interloquire sulle costituzioni, in particolare su quelle delle associazioni. Altra certezza è legata alla decisione in merito alla richiesta della Procura di prorogare le misure cautelari per alcuni agenti, il cui termine era prossimo alla scadenza. Il gup infatti ha deciso di bocciare tale richiesta, motivo per cui gli arresti domiciliari per 20 agenti della polizia penitenziaria e l’interdizione dai pubblici uffici per altri 7 termineranno il prossimo 28 dicembre.

Detto ciò, per tutto il resto la giustizia dovrà fare il proprio corso: niente può al momento essere dato per certo e le responsabilità dei soggetti indagati andranno ovviamente accertate durante il processo. C’è da dire però che un video proveniente dalle telecamere di sicurezza del carcere mostra chiaramente i tremendi atti che gli agenti della polizia penitenziaria commisero ai danni dei detenuti. Manganellate, calci, pugni, testate, persone inermi stese a terra brutalmente picchiate: sono queste le violenze che si verificarono il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Una vera e propria mattanza che gli agenti scatenarono quasi per vendetta, dato che il giorno precedente i detenuti inscenarono una protesta per la situazione all’interno del carcere in relazione alla pandemia da Covid-19.

[di Raffaele De Luca]

Nessuno ne parla, ma l’inquinamento da Pfas in Veneto è ormai un allarme globale

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La questione è così seria che l’Alto Commissariato dell’Onu ha spedito una delegazione in Veneto, per tastare con mano la situazione e fare chiarezza sulle cause dell’inquinamento diffuso. Una missione vera e propria, svoltasi tra il 30 novembre e il 13 dicembre, finalizzata a comprendere se la gestione dell’emergenza abbia violato i diritti umani. Dopotutto, poche settimane fa, il ricercatore del CNR che ha seguito la questione aveva definito senza mezzi termini la situazione veneta: «Il più grande inquinamento Pfas d’Europa per importanza ed estensione. Probabilmente il più grande anche del mondo se escludiamo la Cina». Stiamo parlando dell’inquinamento delle acque da parte di sostanze perfluoroalchiliche (Pfas). Una vicenda di gravissimo allarme per l’ambiente e la salute umana, che da tempo scuote la popolazione veneta e sarebbe alla base di patologie molto pericolose . Un quadro che dovrebbe preoccupare anche i media ed occupare le prime pagine, eppure nessuno o quasi ne parla. Un muro di omertà che ha coinvolto la stessa Regione Veneto, accusata direttamente dall’emissario Onu Marcos Orellana: «Quando nel 2013 le autorità regionali hanno saputo della contaminazione provocata da Pfas – ha denunciato Orellana dopo aver depositato la relazione – hanno iniziato ad installare filtri a carbone attivo per garantire la salubrità dell’acqua potabile, ma in quel periodo le autorità regionali avrebbero dovuto informare la popolazione, distribuire informazioni delle implicazioni sulla salute in relazione a queste contaminazioni. Tutto ciò non è stato fatto».

Sebbene non sia ancora una posizione ufficiale, si può ritenere, già da ora, che quantomeno il diritto all’informazione sia stato tradito. Una prima risposta all’accorato appello del “Comitato Mamme No Pfas”, il fronte più attivo da quando la questione è esplosa. Secondo le donne, sarebbero però almeno altri due i diritti umani violati: quello alla salute e quello al rimedio effettivo. Per appurare la violazione, l’esperto Onu ha incontrato autorità ed enti locali, regionali e nazionali, ma anche chi ha vissuto e vive ogni giorno il dramma di abitare in un territorio oggetto di uno dei più gravi casi di inquinamento a livello internazionale. E ancor più grave – come ha aggiunto il delegato delle Nazioni Unite – la mancata divulgazione delle informazioni alla popolazione. «Nel 2016-2017, nell’ambito di un piano di monitoraggio della salute – ha spiegato – alcune persone hanno ricevuto delle lettere nelle quali si invitavano a sottoporre i bambini a delle analisi. Ed è soltanto in quel periodo che hanno saputo di queste contaminazioni». Quindi, con un ritardo di almeno 3 anni. Almeno. Già nel 2006, infatti – secondo un rapporto di Greenpeace – l’Agenzia regionale del Veneto avrebbe potuto iniziare le operazioni di bonifica Pfas nella zona di Trissino.

Se poi tiriamo in ballo la salute pubblica, il tema si fa ancor più scottante. Nel 2015, l’azienda sanitaria locale vicentina avvia un primo screening su 270 persone dal quale emergono i primi casi che superano di 35 volte il limite di 8ng/l di Pfas nel sangue. Nel 2019, invece, erano già almeno 350 mila le persone contaminate a causa dell’inquinamento dell’acqua di falda tra Vicenza, Verona e Padova. Un triangolo rosso, come è stato definito, che ha già ampiamente impattato sulla vita delle persone residenti entro il suo perimetro. L’acronimo Pfas, che sta anche per acidi perfluoroacrilici, indica un gruppo di sostanze chimiche di stampo industriale. La classe più diffusa, la Pfoa (acidi perfluoroottanoici), nel 2009, è stata dichiarata “sostanza inquinante resistente” dalla Convenzione di Stoccolma e, nel 2017, dalla Commissione europea su indicazione dell’Agenzia europea delle sostanze chimiche, ne sono stati accertati i rischi inaccettabili per l’ambiente e la salute umana. Le sostanze in questione, oltre ad essere estremamente persistenti, infatti, alterano il sistema ormonale portando a diverse patologie, anche letali. Di particolare rilievo, l’aumentato rischio di malattie tiroidee, tumore a rene e testicolo (+30%), di cardiopatia ischemica (+21%), morbo di Alzheimer (+14%) e malattie correlate al diabete (+25%).

L’allarme maggiore è scattato poi quando, nel 2017, sono stati pubblicati i risultati di un biomonitoraggio sulla popolazione nata tra il 1956 e il 2002 e residente nella zona rossa. La conclusione è stata che i giovani al di sotto dei 15 anni sono particolarmente vulnerabili agli effetti delle sostanze tossiche incriminate. Da qui la nascita del “Comitato Mamme No Pfas” che oggi conta centinaia di aderenti. Anche grazie alla pressione da loro esercitata, la vicenda si è fatta via via più trasparente. Una vicenda che a quanto pare ha origini lontane, riconducibili agli anni ’60 con le attività della società di alta moda Rimar e che culmina nel 2013 con l’attribuzione del 97% dell’inquinamento da Pfas della zona alla Miteni Spa. Ora che sono state coinvolte le Nazioni Unite, con la speranza che sempre più provvedimenti vengano adottati, la questione diventerà presto di rilievo internazionale.

[di Simone Valeri]

 

Il Cile ha eletto presidente il leader delle proteste studentesche

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Per il Cile la giornata di ieri ha segnato un evento da ricordare. Al ballottaggio delle elezioni presidenziali l’ex leader delle proteste studentesche che infiammarono il paese nel 2019, Gabriel Boric, è diventato il nuovo presidente ricevendo il 55,86% dei voti. Un risultato a sorpresa, che lo ha visto superare ampiamente José Antonio Kast, candidato della borghesia liberista e dei settori della destra nostalgica dell’ex regime militare di Augusto Pinochet.

Una nuova vittoria per i movimenti di sinistra che si oppongono al liberismo in America Latina, dove i governi amici della tradizionale politica economica americana sono ormai ridotti a poche eccezioni, guidate dal Brasile di Bolsonaro (dove si voterà a breve). Del resto sono numerosi ormai i governi più o meno apertamente schierati verso un ordinamento socio-economico di stampo socialista: dagli storici Cuba, Venezuela, Bolivia e Nicaragua, passando per Argentina e Perù. Boric, classe 1986, sarà il Presidente più giovane della storia del Cile.

Vittoria Cile Boric

Perché la scelta dei cileni segna una svolta?

Fondamentalmente perché in queste elezioni i cittadini sono stati chiamati a compiere una scelta ben precisa, drastica e netta. Boric e Kast hanno mostrato durante la campagna elettorale di avere una visione del futuro molto diversa.

Antonio Kast, 55 anni, è un aperto ammiratore dell’ex dittatore Pinochet: suo fratello Miguel Kast, a tal proposito, ricoprì alcuni ruoli di rilievo durante il regime. E ancora. Il padre aveva scelto di aderire al Partito nazista nel 1942.

Nelle varie sessioni della propaganda elettorale si era presentato come “restauratore dell’ordine nel paese”, ispirandosi all’operato di Bolsonaro e a quello dell’ex dittatore peruviano Alberto Fujimori, imprigionato per crimini contro l’umanità. Kast è contrario all’immigrazione, all’aborto e alle coppie omosessuali, ai movimenti femministi e al divorzio. Il suo spirito conservatore lo ha portato infatti ad una serrata difesa della famiglia tradizionale. Basti pensare che lui stesso è sposato da 30 anni e ha 9 figli.

Boric, invece, già deputato e storico leader dei movimenti studenteschi, ha promosso un programma incentrato sull’ambientalismo e sulla decarbonizzazione del Cile. Dichiaratamente femminista, dopo la vittoria ha detto che il suo sarà “il primo governo ecologista della storia del Cile”. Nel programma elettorale di Boric si legge che sarà sua priorità puntare a rendere pubblico il sistema sanitario e quello pensionistico (ad oggi entrambi privati), con una particolare attenzione per l’individualità delle comunità locali e indigene.

Per comprendere la sorpresa espressa dai media per l’elezione di Boric, bisogna fare un passo indietro e capire in che contesto il Cile ha vissuto gli ultimi anni, proprio a partire dalle proteste del 2019. All’epoca ci furono molte manifestazioni contro il governo conservatore di Sebatian Pinera, represse con l’esercito. Una forza militare che, evidentemente, non è riuscita a soffocare la voglia di cambiamento verso un sistema che, pur essendosi liberato della dittatura di Pinochet, continua a vederne i frutti. Nella Costituzione (che è in fase di revisione), ad esempio, e nel sistema economico di un paese fondato sulla disuguaglianza, in cui poche imprese ricche e private controllano quasi tutti i settori più importanti.

Le proteste erano cominciate dopo l’approvazione di una legge che aumentava il prezzo del biglietto della metropolitana per circolare nella capitale. Per i cileni la spesa era già molto alta se confrontata con lo stipendio medio di un normale lavoratore. Da dove nasce la disparità economica nel paese? Gli esperti dicono che l’origine può essere ricercata nelle pratiche di colonizzazione e decolonizzazione. Durante l’assegnazione delle terre, in epoca coloniale spagnola, il Governo favorì i discendenti degli europei e creò le basi per il latifondismo che ancora opprime economicamente gli strati popolari del paese.

Lucía Dammert, analista politica e docente dell’Universidad de Santiago aveva detto al País che «Le proteste di questi giorni sono guidate da una nuova generazione di cileni, che hanno meno di 30 anni, che non hanno conosciuto la dittatura di Pinochet e che sono aperti alla possibilità di esprimere le proprie sofferenze perché sentono che non hanno niente da perdere». Ovvio però che il 55% dei voti Boric non lo ha ottenuto solo con i voti dei giovani, segno che anche tra le generazioni più anziane c’è voglia di lasciarsi il passato alle spalle.

[di Gloria Ferrari]

Ema: via libera al vaccino anti Covid Novavax

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È arrivato il via libera dell’Ema (Agenzia europea per i medicinali) all’immissione in commercio condizionata nell’Ue del vaccino anti-Covid Nuvaxovid, prodotto da Novavax. La decisione è arrivata nello specifico da parte del Comitato tecnico per i medicinali a uso umano dell’agenzia, il quale ha svolto a tal proposito una riunione straordinaria. Il vaccino, che in base a quanto comunicato dall’Ema ha «un’efficacia di circa il 90%», è il quinto contro il Covid ad essere autorizzato in Europa. Tuttavia, aggiunge l’Ema, tale efficacia si riferisce alle vecchie varianti ed al momento i dati disponibili sull’efficacia contro la variante Omicron sono «limitati».

Milano, protesta per lo sgombero coatto dei senzatetto da parte della Polizia

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Nella giornata di sabato si è svolta, nei pressi della stazione centrale di Milano, una manifestazione di protesta contro gli sgomberi avvenuti giovedì sera. Nella serata del 16 dicembre, infatti, agenti della polizia di Milano e dipendenti dell’Amsa, il servizio addetto al recupero di rifiuti ingombranti, hanno sgomberato una strada nella quale dimoravano diverse persone senza fissa dimora, minacciando anche di querelare un giornalista che cercava di documentare i fatti. “Bivaccare sotto i tunnel non è umano e decoroso” scrive l’assessore alla sicurezza del Comune di Milano Granelli, che giustifica così l’operazione di polizia.

Secondo quanto denunciato dall’associazione Mutuo Soccorso Milano, almeno 40 agenti si sono presentati nella serata di giovedì 16 dicembre nel sottopasso nei pressi della Stazione Centrale per rimuovere materassi e coperte appartenenti a senzatetto che si riparavano in quella zona, invitandoli a cercare riparo presso la struttura provvisoria denominata Mezzanino. L’operazione è avvenuta senza preavviso nè la mediazione degli assistenti sociali, che sono arrivati quasi un’ora e mezza dopo la polizia. «Se l’organizzazione del Comune fosse efficiente si sarebbe intervenuti mandando avanti gli assistenti sociali aiutati dalle forze di polizia» dichiara all’Indipendente un rappresentante di Mutuo Soccorso.

«Giovedì mattina l’Assessore alla Sicurezza di Milano ha ordinato di aprire il Mezzanino, con tre giorni di anticipo (il 20 dicembre), in virtù dello sgombero» spiega l’operatore. Il Mezzanino, spiega, è una soluzione temporanea: 70 brandine all’incirca, montate in un sottopassaggio della stazione dalle sette di sera alle cinque di mattina, senza acqua corrente nè prese elettriche, con bagni chimici posti al di fuori della struttura. «Si tratta del posto peggiore di Milano, aperto in fretta e furia e temporaneo per sua stessa natura». L’operatore spiega infatti che «Lo sgombero non è avvenuto perchè il Comune ha trovato una soluzione abitativa migliore, ma per compiere un’azione in nome del decoro, trovando una soluzione di emergenza. Oggi i sottopassaggi della stazione sono di nuovo pieni di persone, perchè il Comune non è in grado di fornire una soluzione decente e dignitosa».

La ragione, a suo parere, è dovuta alla situazione dei dormitori milanesi, definita «tragica». «Il giorno dopo essere state portate al Mezzanino le persone possono andare al Casc [Centro Aiuto Stazione Centrale, nda] per essere inserite nel programma per portarle ad abbandonare la strada. Tuttavia entrare nei dormitori è un’impresa, ci sono liste d’attesa di mesi interi, i letti sono spesso pieni di cimici e manca l’acqua calda. Inoltre i dormitori possono trovarsi in una provincia piuttosto che in un’altra: se ti dicono che c’è un posto libero a Pavia tu puoi andare solo lì, con il risultato di distruggere il proprio network sociale».

Nel corso delle operazioni di giovedì notte la Polizia ha anche minacciato di denuncia un giornalista della testata Milano Today che cercava di documentare quella che l’agente stesso ha definito “un’operazione di Polizia”, salvo poi concedere la pubblicazione delle immagini “solo su Milano Today”. La domanda sorge spontanea: se si sta svolgendo un’operazione legittima, al fine della sicurezza pubblica, perchè vietarne la diffusione tramite immagini?

L’assessore di Milano Marco Granelli ha definito l’operazione come mirata a “evitare il bivacco” nei pressi della stazione, sottolineata come a gestirla fossero “operatori e volontari delle associazioni”, quando chi era presente sul posto dichiara fossero presenti solamente Amsa e Polizia. “Bivaccare sotto i tunnel non è umano nè decoroso” scrive Granelli, difendendo l’agire muscolare del Comune, che criminalizza la povertà senza, sembra, offrire soluzioni funzionali a un problema strutturale.

[di Valeria Casolaro]

 

 

Polonia, proteste per nuova legge su mezzi di informazione

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Numerose manifestazioni di protesta a tutela della libertà di stampa si sono svolte a Varsavia e in tutta la Polonia nel weekend, dopo che il Parlamento ha approvato un disegno di legge che vieta alle imprese extraeuropee di essere proprietarie di maggioranza di emittenti televisive o radiofoniche polacche. La decisione va a colpire in particolare l’emittente TVN24, la più grande rete televisiva polacca di proprietà dell’americana Discovery Inc., unico caso di proprietà da parte di media extra-Ue in Polonia. Per tale motivo alcuni suggerisono che la legge sia “mirata”. Gli Stati Uniti si sono detti “profondamente turbati”, dal momento che l’iniziativa “potrebbe minare la libertà di espressione”.

A che punto è la trattativa con l’Iran per il nucleare?

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«Se le altre parti che partecipano ai colloqui di Vienna per rilanciare l’accordo sul nucleare del 2015 sono determinate a rimuovere le sanzioni, raggiungeremo sicuramente un buon accordo». Queste sono le parole rilasciate dal presidente iraniano Ebrahim Raisi lo scorso 11 dicembre. Due giorni prima erano infatti ripartiti i colloqui a Vienna tra l’Iran e i paesi segnatari dell’accordo sul nucleare del 2015 (i 5 membri permanenti del consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Russia, Cina, Stati Uniti, Francia, Regno Unito più Germania e Unione Europea). A seguito delle dichiarazioni dei vari ministri degli esteri europei presenti a Vienna, appare però oramai improbabile si possa giungere ad una soluzione. Considerando che da parte di Washington non traspare la ben che minima volontà di volere fare il primo passo verso la rimozione delle sanzioni. 

Con la firma dell’accordo sul nucleare (noto anche come Joint Comprehensive Plan of Action – JCPOA), l’Iran si impegnava a rispettare dei limiti relativi all’arricchimento dell’uranio che le avrebbero garantito la produzione di energia atomica, ma non quella di armi. Il rispetto di tali limiti avrebbe garantito all’Iran la rimozione delle sanzioni economiche da parte di Stati Uniti, Unione europea e delle Nazioni Unite. Per monitorare poi che tali accordi venissero rispettati, Teheran aveva accettato di ricevere ispezioni regolari da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA). Nonostante questo, l’accordo era saltato nel maggio 2018, a seguito della decisione unilaterale dell’allora presidente americano Donald Trump di reintrodurre le sanzioni, nonostante Yukiya Amano (al tempo direttore dell’AIEA) avesse dichiarato in marzo che l’Iran stava rispettando tutti i limiti degli accordi

La decisione da parte di Washington di interrompere l’accordo sul nucleare e reintrodurre sanzioni venne giustificata (con l’appoggio di Israele), dal fatto che l’Iran avrebbe continuato a lavorare ad un progetto segreto, AMAD, per la costruzione di armi atomiche. Questa giustificazione apparve, da subito, come un pretesto per avvalorare quella che altro non era che una scelta politica. 

Considerando che nel 2015 la stessa AIEA aveva dichiarato che: “una serie di attività relative allo sviluppo di un ordigno nucleare era stata condotta in Iran prima della fine del 2003, ma che queste attività non erano andate oltre gli studi scientifici e l’acquisizione di determinate competenze e capacità tecniche pertinenti. L’Agenzia non ha indicazioni credibili di attività in Iran rilevanti per lo sviluppo di un ordigno nucleare dopo il 2009”.

Da dove nascono queste tensioni?

L’Iran, negli ultimi anni, ha assunto un ruolo di spessore nella regione medio orientale come potenza militare e a livello di influenza politica. Questo ruolo ha creato diversi contrasti con quelli che sono appunto i due principali alleati di Washington in Medio Oriente, Israele e Arabia Saudita. 

L’Iran non ha mai nascosto il proprio supporto, economico e militare, a vari gruppi armati nella regione come Hamas in Palestina e Hezbollah in Libano (entrambi inseriti nelle liste delle organizzazioni terroristiche). Un’altra causa di forti tensioni è dovuta al supporto militare ed economico da parte di Teheran al regime di Bashar al-Assad in Siria. Per Israele, e di conseguenza gli Stati Uniti, la possibilità che l’Iran potesse ottenere come ricompensa basi militari permanenti in Siria rappresentava una considerevole minaccia. Infatti, come ritorsione, Israele negli ultimi anni ha compiuto diversi raid aerei in Siria contro obiettivi iraniani. 

Anche nei confronti dell’Arabia Saudita, l’Iran ha utilizzato lo stesso modus operandi utilizzato contro Israele, supportando i ribelli Houthi in Yemen. Dal 2015, infatti, va avanti una guerra civile tra due fazioni, quella appunto degli Houthi e quella (sostenuta da Riyad) leale al governo di Abd Rabbuh Mansur Hadi. Inoltre, Teheran sarebbe responsabile di attacchi con droni alle installazioni petrolifere saudite, in particolare va ricordato l’attacco occorso nel settembre del 2019 alle raffinerie della compagnia petrolifera saudita Aramco ad Abqaiq e Khurais. L’attacco rivendicato inizialmente dagli Houthi, ridusse del 50% la produzione di petrolio dell’Arabia Saudita (circa il 5% della produzione mondiale di petrolio), causando una certa destabilizzazione dei mercati finanziari globali.

Un’altra significativa causa di tensioni tra Stati Uniti e Iran è l’Iraq. A seguito dell’invasione americana nel 2003, l’Iran si è trovato a fronteggiare, o quantomeno a considerare, la possibilità di poter venir invaso, poichè in quel momento, era “circondato” da truppe statunitensi sia in Afghanistan che in Iraq. Per limitare l’influenza americana, il regime di Teheran ha sviluppato programmi per finanziare e formare milizie armate in territorio iracheno. Responsabile di questi programmi era appunto il generale Qasem Soleimani (comandante delle unità speciali delle Forze della Rivoluzione), che venne ucciso da un drone americano nel gennaio del 2020 all’esterno dell’aeroporto di Baghdad, in Iraq. Altra decisione presa unilateralmente da parte di Washington, che avrebbe potuto avere conseguenze devastanti in una delle regioni più instabili del pianeta.

 Queste operazioni messe in piedi dal regime iraniano hanno un duplice scopo, il primo propagandistico per rinforzare l’influenza nella regione contro i nemici storici Stati Uniti e Israele. Mentre il secondo è quello di distogliere l’attenzione delle popolazioni dai problemi interni (crisi economica) e al contempo di stringere rapporti commerciali non ufficiali, per evitare le sanzioni. 

Ragioni economiche

Le tensioni tra Stati Uniti e Iran non sono esclusivamente di natura politica, anche la parte economica ricopre un ruolo centrale. L’Iran detiene circa il 13,1% delle riserve petrolifere conosciute a livello mondiale, e come la storia insegna, è più probabile entrare a far parte della lista dei “cattivi” per quei paesi che avendo tali risorse decidono di nazionalizzarle (vedi il Venezuela che detiene il 25% di tali riserve) piuttosto che renderle disponibili alle multinazionali dell’energia. Negli anni dello scià Mohammad Reza Pahlavi (che governò il paese dal 1941 al 1979), l’Iran era il principale alleato degli Stati Uniti nella regione e gli affari tra i due paesi erano fiorenti (petrolio in cambio di armi). Proprio in quegli anni, ad esempio, l’Iran inizio a sviluppare la costruzione di centrali nucleari grazie al supporto americano. Tutto venne poi interrotto dalla rivoluzione islamica del 1979, e la presa del potere da parte dell’ayatollah Khomeini. La rivoluzione islamica porto anche alla nazionalizzazione dei pozzi petroliferi e solo nel 1998, alcune multinazionali del petrolio poterono poi tornare ad operare in Iran, seppur con un ruolo decisamente marginale.

Come se non bastasse, anche la posizione geografica dell’Iran ha comportato numerose tensioni di fondo economico: le minacce di chiudere lo stretto di Hormuz nel Golfo Persico, ad esempio. Da qui, infatti, passa circa il 20% della produzione mondiale di greggio ed è considerato una delle vie di navigazione più strategiche al mondo. 

Conclusioni

Ad oggi le sanzioni economiche, come spesso succede, hanno avuto ripercussioni principalmente sulla popolazione civile. Il declino dell’economia ha causato negli anni numerose ondate di protesta come nel novembre del 2019, quando un incremento del 300% del prezzo della benzina diede il via a manifestazioni di massa su scala nazionale che vennero poi represse brutalmente dal regime. Secondo un report di Amnesty International, almeno 324 persone vennero uccise dalle forze di sicurezza iraniane. Mentre secondo altre fonti (non confermate), i morti sarebbero oltre 1.500.

Poiché le sanzioni hanno fallito e i vari tentativi da parte di qualcuno di “esportare la democrazia” altro non erano che guerre mascherate, sarebbe utile cercare un dialogo con il regime iraniano magari ripartendo proprio dall’accordo sul nucleare, per ottenere concessioni da parte di Teheran anche su diritti umani e libertà individuali. L’Iran è ben lontano dall’essere una democrazia e tante sono state negli anni le violazioni e i crimini commessi dal regime. Ma crimini e violazioni dei diritti umani sono stati commessi da tanti altri paesi nella regione, basti pensare all’Arabia Saudita, paese con cui Stati Uniti e altri nazioni europee (o politici, vedi Renzi) non hanno remore a fare affari, nonostante la consapevolezza che il principe che la governa, Mohammed bin Salman, sia direttamente responsabile dell’omicidio di Jamal Khashoggi, giornalista

[Enrico Phelipon]

Cile, presidenziali: vince candidato di sinistra Boric

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Le elezioni presidenziali cilene si sono concluse con la vittoria del 35enne di sinistra Gabriel Boric sul conservatore Kast, sostenitore delle passate dittature cilene e del presidente brasiliano di estrema destra Bolsonaro. Boric ha vinto cavalcando l’onda della rabbia per il modello economico cileno sempre più improntato al mercato, considerato causa della crescita economica ma anche dell’esacerbarsi delle disuguaglianze sociali. Il suo programma prevede anche politiche di inclusione sociale a sostegno dei gruppi LGBTQ+. Il neoeletto presidente, il più giovane nella storia del Cile, salirà in carica a marzo e dovrà comunque cercare un dialogo con l’opposizione, vista la forte presenza del fronte di destra di Kast in Parlamento e in Senato.