mercoledì 17 Settembre 2025
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Il Quebec vuole introdurre una tassa speciale sui non vaccinati

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Nella provincia canadese del Quebec potrebbe essere presto introdotta una tassa per coloro che scelgono di non vaccinarsi contro il Covid, per sostenere quello che, secondo il secondo il governo locale, è il peso che tali persone rappresenterebbero nei confronti del sistema sanitario. Il premier Francois Legault, infatti, durante una conferenza stampa tenuta nella giornata di martedì ha annunciato che il suo governo sta lavorando a «un contributo sanitario per gli adulti che rifiutano di vaccinarsi contro il Covid per motivi non medici»: già nelle prossime settimane, ha aggiunto Legault, «chi si rifiuterà di ricevere la prima dose dovrà pagare tale contributo».

Non è ancora stato deciso a quanto ammonterà precisamente quest’ultimo, ma il premier ha affermato che si tratterà senza dubbio di un importo rilevante, che non sarà sicuramente inferiore ad una somma pari a circa 70 euro. La sua ragion d’essere, inoltre, risiederebbe nel fatto che il vaccino rappresenterebbe «la chiave per combattere il virus», ed in tal senso il premier ha sottolineato che gli adulti non vaccinati costituiscono solo il 10% della popolazione ma occupano il 50% dei posti in terapia intensiva. «In questo momento queste persone costituiscono un onere molto importante sul nostro sistema sanitario e penso che sia normale che la maggior parte della popolazione chieda che ci siano conseguenze», ha aggiunto Legault, sostenendo che «si tratti anche di una questione di equità nei confronti del 90% della popolazione che ha fatto sacrifici».

Ad ogni modo, tale misura sarebbe solo l’ennesima imposta all’intero della provincia canadese per cercare di affrontare la pandemia: solo due settimane fa, infatti, sono state introdotte diverse restrizioni in Quebec, tra cui il coprifuoco in vigore dalle ore 22:00 alle ore 5:00 ed il divieto di riunioni private.

[di Raffaele De Luca]

In Italia la peste suina è tornata a diffondersi: allarme nel Nord-ovest

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Da settimane l’allarme è sottotraccia, ora è arrivata la conferma: in Italia, e in altri paesi europei, è ufficiale la propagazione di una nuova ondata di peste suina africana, il morbo che colpisce suini e cinghiali, letale circa nell’80% dei casi. La Commissione Europea ha stabilito che fino al 7 aprile l’Italia dovrà applicare le misure contro la diffusione della patologia nelle aree particolarmente infette di Piemonte e Liguria. Inoltre, il nostro Paese dovrà vietare i movimenti di suini detenuti nelle aree citate, e dei relativi prodotti, verso altri Stati membri e paesi terzi. Tuttavia, in molti stanno giocando di anticipo: Cina, Giappone, Taiwan, Kuwait e, con certe eccezioni, anche la Svizzera, hanno già vietato in via precauzionale ogni import di salumi e carni suine Made in Italy. Una misura dannosa a livello economico e almeno in parte ingiustificata. È stato ad esempio dimostrato che il processo di stagionatura cui va incontro il prosciutto nostrano è in grado abbattere o inattivare praticamente ogni patogeno.

La Peste suina africana (PSA) è una patologia virale che colpisce esclusivamente i suidi – maiali e cinghiali – altamente contagiosa e letale per gli animali, non è, in nessun caso, trasmissibile agli esseri umani. Per il morbo non esistono né cure né vaccini, pertanto, le epidemie hanno pesanti ripercussioni economiche nei Paesi colpiti. Una volta accertato anche un solo caso, è infatti necessario procedere all’abbattimento preventivo di migliaia di capi potenzialmente infetti. Per quanto riguardo invece i sintomi – quali febbre, inappetenza, debolezza, aborti spontanei, emorragie interne evidenti su orecchie e fianchi – non differiscono troppo da quelli tipici della peste suina classica, malattia analoga causata però da un virus differente. Mentre tra le modalità più rilevanti di diffusione vanno citati la circolazione di animali infetti, i prodotti a base di carne di maiale contaminata e lo smaltimento illegale di carcasse. C’è da dire, inoltre, che le condizioni in cui versano gli allevamenti intensivi spesso non fanno altro che esacerbare una trasmissibilità già di per sé elevata.

In ultimo, c’è la questione della diffusione in natura. I cinghiali allo stato brado rappresentano infatti dei vettori significativi del virus, tant’è che nei 60 comuni dell’area infetta a cavallo tra Piemonte e Liguria è stato anche chiesto di sospendere la caccia e le attività nel bosco. «Sia perché le battute con il metodo della ‘braccata’ disperdono i gruppi e aumentano il rischio di diffusione – ha spiegato Francesco Feliziani, veterinario dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Umbria e delle Marche – sia perché l’uomo è il primo veicolo di contagio attraverso materiali e superfici». In questo senso, poi, il rischio maggiore sarebbe legato agli scarti di cibo lasciati incustoditi, specie nelle aree rurali. «Il gran numero di esemplari che ospitiamo sul territorio italiano – ha concluso – si sposta soprattutto in funzione delle risorse alimentari più accessibili e i rifiuti urbani possono rappresentare un pericoloso focolaio d’infezione».

[di Simone Valeri]

Milano, gli studenti del Liceo Brera protestano pacificamente: tutti sospesi

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Sospensione dalle lezioni fino a cinque giorni: questo il provvedimento adottato contro 67 studenti del liceo artistico Brera di Milano, i quali a dicembre avevano deciso di allontanarsi dalle aulee per protestare contro le temperature insostenibili dovute alla rottura dei caloriferi. In risposta alle disposizioni della preside, che in quell’occasione aveva richiesto anche l’intervento dei Carabinieri, gli studenti hanno organizzato nella giornata di ieri 13 dicembre una mobilitazione all’interno del cortile del liceo, per protestare contro le misure adottate nei loro confronti e rivendicare i propri diritti.

Sono 67 gli studenti del liceo artistico Brera di Milano che sono stati raggiunti da provvedimento disciplinare per aver protestato contro le temperature insostenibili all’interno delle aulee. A causa di un malfunzionamento nell’impianto di riscaldamento, infatti, nelle classi si è registrata una temperatura di 14 gradi, ben al di sotto dei 18 previsti dalla legge. Dopo che le richieste di intervento rivolte alla preside e ai pompieri sono cadute nel vuoto, gli studenti hanno deciso di allontanarsi dalle classi formando un corteo di protesta spontaneo e pacifico all’interno della scuola. La reazione della preside non si è fatta attendere: ad intervenire sono state infati le Forze dell’Ordine, che hanno riaccompagnato gli studenti nelle aulee. Cinque di loro sono stati identificati dai Carabinieri e successivamente sospesi dalle lezioni per un periodo di cinque giorni, con accuse di atteggiamenti aggressivi nei confronti delle Forze dell’Ordine, comportamenti che secondo gli studenti non sono mai avvenuti. Provvedimenti di sospensione della durata di un giorno hanno colpito più di 60 altri studenti, motivati dall’accusa di manifestazione non autorizzata. Per tutti rimane in vigore l’obbligo di frequenza.

La preside ha fornito una versione leggermente diversa da quella dei ragazzi. Tuttavia, il problema delle carenze edilizie nella scuola è ormai di lunga data e gli effetti che ne conseguono ricadono inevitabilmente sulla salute e sulla sicurezza degli studenti, che l’istituzione scolastica dovrebbe occuparsi di tutelare. La risposta alle rivendicazioni, in questo come in altri casi, è invece purtroppo sempre la stessa: la repressione tramite l’intervento delle Forze dell’Ordine come misura preferenziale rispetto al confronto tra le parti. Gli studenti sono anche stati accusati di aver violato le norme sul distanziamento causando un assembramento, frasi che riecheggiano ironicamente le accuse mosse ai lavoratori cosentini in corteo: sebbene si tratti di due contesti alquanto diversi, non può non saltare all’occhio una tendenza sempre più frequente ad utilizzare il pretesto della sicurezza sanitaria quando non si hanno risposte adeguate da fornire a chi manifesta scontento.

 

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Come tuttavia dimostrato dal moltiplicarsi delle proteste, tra gli studenti come tra i lavoratori ed altri settori, l’approccio repressivo e l’impiego della forza non inducono al silenzio e all’accettazione. Semmai, la voce dei soggetti contro le ingiustizie si alza ancora più forte.

[di Valeria Casolaro]

Nel silenzio dei media Londra celebra i successi della Brexit

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Se la matematica non è un'opinione, è molto difficile dire che il Regno Unito se la passi male a ormai due anni da quel 30 gennaio 2020, data in cui Londra lasciò definitivamente l'Unione Europea. Al netto della situazione dovuta alla pandemia. Stante una certa opinione pubblica tutta contro Downing Street e vari commentatori che non hanno smesso di evidenziare ogni possibile rischio, i numeri parlano chiaro. Come scrive Bloomberg, dopo una caduta del prodotto interno lordo, dovuta alla crisi Covid, del 9,8%, per il 2021 la Gran Bretagna prevede una crescita del 6,9%. Più di tutti, anche degli...

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Reddito di cittadinanza, a rischio 100 mila beneficiari senza green pass

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L’obbligo di green pass verrà indirettamente esteso anche ai beneficiari del reddito di cittadinanza: è quanto denuncia Sputnik, che spiega come questo sia il risultato dell’azione combinata di Legge di Bilancio e decreto del 7 gennaio 2022 (estensione del green pass per l’accesso a tutti gli uffici pubblici). Per continuare a beneficiare del sussidio sarà infatti obbligatorio, dal 1° febbraio, accedere fisicamente ai Centri per l’impiego, ma l’ingresso sarà vietato a chi sprovvisto di certificato verde. Si stima che la misura possa andare a colpire circa 100 mila beneficiari su 3 milioni totali.

La Russia ha diverse buone ragioni per sentirsi accerchiata dalla NATO

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Mercoledì 12 gennaio, si sono tenuti i primi incontri, dopo oltre due anni, tra alti ufficiali di Russia e NATO per cercare una soluzione sulla questione ucraina. Gli Stati Uniti, e di conseguenza gli altri paesi della NATO, hanno respinto le principali richieste russe che avrebbero permesso di allentare le tensioni, lasciando comunque aperta la possibilità di futuri colloqui con Mosca sul controllo degli armamenti e sul dispiegamento di missili.

Le richieste di Mosca, respinte dalla NATO, si basavano sue due punti in particolare:

  • un limite al dispiegamento di truppe e armi da parte della NATO nei paesi Baltici e in Ucraina, riportando in effetti le forze Nato dove erano di stanza nel 1997.
  • che la Nato escluda un’ulteriore espansione dei membri, inclusa l’adesione dell’Ucraina all’alleanza, e che non tenga esercitazioni senza previo accordo con la Russia in Ucraina, nell’Europa orientale, nei paesi del Caucaso come la Georgia o in Asia centrale.

Le tensioni tra Russia e NATO avevano raggiunto l’apice nelle scorse settimane, a seguito del dispiegamento di oltre 100.000 soldati russi in prossimità del confine ucraino, quando sembrava fosse imminente un’invasione militare da parte di Mosca. Anche il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, non aveva esitato a gettare acqua sul fuoco annunciando il 26 novembre, che le autorità del Paese avevano sventato un tentato colpo di Stato orchestrato dalla Russia.

La questione ucraina è solo l’ultima delle tensioni tra Mosca e gli Stati Uniti, perché in realtà gli screzi tra le due potenze hanno radici ben più lontane. Per capire meglio questo concetto bisogna analizzare quella che è stata, in seguito al crollo dell’Unione Sovietica, l’espansione della NATO. Dal 1991 ad oggi, 14 paesi facenti parte di quella che era una volta la sfera di influenza sovietica in Europa Orientale sono entrati a far parte dell’Alleanza Atlantica, tra questi 14 sono compresi Polonia e i paesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania). Inoltre, altri 3 paesi (Georgia, Ucraina e Bosnia Erzegovina) stanno portando avanti “dialoghi intensificati” per entrare nell’alleanza. La conseguenza di tale espansione da parte della NATO ha fatto si che dal Cremlino venisse denunciato in diverse occasioni il “tentativo di accerchiamento”. Dei 14 paesi che confinano con la Russia, già 5 fanno parte della NATO, altri due sono in fase di entrata, più la Finlandia che starebbe valutando di fare richiesta, se tale scenario si portasse a termine la Russia Europea (Russia Occidentale) avrebbe come confinanti solo paesi membri della NATO, ad eccezione della Bielorussia. Ironici appaiono quindi i tentativi di giustificare tale scenario da parte dell’Alleanza, che nel proprio sito internet, tenta di spiegare come non esista alcun “accerchiamento” dato che: il confine terrestre della Russia è lungo poco più di 20.000 chilometri. Di questi, meno di un sedicesimo (1.215 chilometri) è condiviso con i membri della NATO. Giustificazione alquanto ridicola poiché non tiene conto della differenza strategica tra la Russia Occidentale, dove vivono oltre cento milioni di persone e dove sono concentrate le principali città, rispetto alla Siberia che è un territorio immenso e scarsamente popolato che va dagli Urali all’oceano Pacifico.

La NATO, dipinta esclusivamente come un’alleanza difensiva, ha portato avanti negli anni diverse operazioni militari discutibili e che poco o nulla avevano a che fare con la difesa dei paesi membri. Basti pensare alla campagna militare in Libia, che facendo cadere il regime del colonello Muʿammar Gheddafi, ha di fatto gettato il paese nell’anarchia che ancora oggi sta vivendo. Quindi, che gli Stati Uniti utilizzino la NATO anche per ragioni politiche, è un fatto che non aiuta a stemperare le tensioni.

Per il Cremlino, l’alleanza atlantica rappresenta esclusivamente un progetto geopolitico a guida americana, e non, come alcuni sostengono, un’alleanza tra stati sovrani ognuno con un proprio potere decisionale. Difficile poter credere che il voto del Lussemburgo possa avere lo stesso peso di quello degli Stati Uniti o del Regno Unito. Inoltre, con la caduta dell’Unione Sovietica, sono venuti a mancare quelli che erano i presupposti di base che hanno dato il via alla nascita di questo patto atlantico. Questa alleanza era stata appunto fondata nel 1949, da dodici nazioni, per contrastare la potenza militare sovietica. Sia dal punto militare che politico, la Russia di oggi, rappresenta una minaccia non comparabile rispetto a quella rappresentata dall’Unione Sovietica di allora, che controllava l’Europa Orientale ed era in grado di influenzare le scelte di diversi governi, amici nel resto del mondo.

Che la NATO non sia esclusivamente un’alleanza difensiva ma anche uno strumento politico in mano agli Stati Uniti, lo dimostrano i vincoli di budget sulla spesa militare per i paesi membri. L’attuale obiettivo concordato tra i membri della NATO europea è appunto quello di raggiungere il 2% del PIL sulla difesa entro il 2024. Nel 2019, durante la sua presidenza Trump aveva invitato, con toni non proprio amichevoli, i paesi membri della NATO a destinare il 4% del PIL alle spese militari. L’incremento della spesa militare da parte dei paesi membri della NATO rappresenta un tornaconto significativo per gli Stati Uniti, considerando che detengono il 37% del mercato globale della vendita di armi.

Tornando alla questione Ucraina, nonostante le tensioni, appare improbabile ad oggi che Russia e Stati Uniti vogliano arrivare ad uno scontro frontale. Il presidente russo Putin, seppur non nuovo a mosse azzardate, difficilmente vorrà rischiare una guerra aperta per l’Ucraina avendo già ottenuto il controllo della strategica penisola di Crimea. Per Mosca, l’entrata dell’Ucraina nella NATO rappresenterebbe uno smacco più a livello politico che militare, data la perdita d’influenza e considerando che la NATO potrebbe facilmente dispiegare le stesse attrezzature militari nei paesi baltici. Anche per il neoeletto presidente Biden una guerra aperta sarebbe un rischio considerevole, dovendo giustificare all’opinione pubblica americana come sia necessaria l’ennesima guerra a 9.000 chilometri da casa.

[di Enrico Phelipon]

Iraq, attacco missilistico contro ambasciate Baghdad

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Nella sera di ieri 13 gennaio è stato lanciato un attacco missilistico contro la Green Zone di Baghdad, la parte della città nella quale si trovano le istituzioni governative e le ambasciate. Stando a quanto riportato da fonti locali, almeno 4 dei missili lanciati avrebbero avuto come obiettivo l’ambasciata statunitense. La verifica dei danni e della presenza di eventuali vittime sono ancora in corso. Ad ora l’attacco non è stato rivendicato, ma da alcune settimane gli obiettivi americani in Iraq sono minacciati da azioni analoghe a quella di ieri sera.

Usa: la Corte Suprema boccia l’obbligo vaccinale voluto da Biden

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La Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha emesso una sentenza che da un lato conferma l’obbligo vaccinale per i lavoratori del settore sanitario voluto dall’amministrazione Biden, ma dall’altro blocca l’obbligo di vaccino per le aziende con più di 100 dipendenti. Si tratta di una questione fortemente dibattuta negli Stati Uniti, dove la maggior parte della popolazione si dichiara favorevole al vaccino ma l’imposizione dell’obbligo vaccinale è vista come una violazione dei diritti sanitari e personali dei cittadini.

Proseguono le vertenze in materia di obbligo vaccinale negli Stati Uniti. La misura è fortemente voluta dall’amministrazione Biden, ma vede l’opposizione di alcuni settori lavorativi e dei Repubblicani. Già a novembre dello scorso anno l’obbligo di vaccinazione per i lavoratori privati delle grandi aziende (con 100 o più dipendenti) era stato bloccato da una Corte d’Appello (ma poi riconfermato), così come a dicembre un giudice aveva sospeso l’obbligo di vaccinazione per i lavoratori del settore sanitario. Imprenditori e repubblicani avevano segnalato come l’imposizione di un obbligo di tale portata avrebbe causato non poco disagio alla popolazione, senza contare il rischio della mancanza di manodopera nei posti di lavoro.

La sentenza della Corte Suprema ha riconfermato l’obbligo per i sanitari ma sospeso quello per i dipendenti delle grandi aziende private, in vigore dal 4 gennaio ed effettivo a partire dal 10. “Sebbene il Congresso abbia indiscutibilmente dato all’OSHA (l’Agenzia che si occupa di garantire la sicurezza e la salute sul lavoro) il potere di regolare i pericoli sul posto di lavoro, non ha dato a quell’agenzia il potere di controllare la salute pubblica in modo più ampio” scrive la Corte, che aggiunge “Richiedere la vaccinazione di 84 milioni di americani, scelti semplicemente perchè lavorano per aziende con più di 100 dipendenti, sicuramente ricade nella seconda categoria”. La misura è stata definita una “significativa invasione” nella vita privata dei dipendenti ed è stata contestata l’autorità del governo federale di prendere decisioni di tale portata.

Non tutti i giudici si sono mostrati d’accordo, affermando che è la Corte ad agire “al di fuori delle proprie competenze” e ostacolando “l’abilità del Governo Federale di contrastare la minaccia senza pari che il Covid-19 pone ai nostri lavoratori”. Secondo alcuni, l’obbligo vaccinale dovrebbe essere applicato a discrezione dei singoli Stati.

La diatriba legale non termina qui: entrambe le misure dovranno infatti essere nuovamente discusse dai tribunali inferiori. Nel frattempo, le grandi aziende come Starbucks stanno organizzando con politiche vaccinali da sottoporre ai propri dipendenti. Per quanto riguarda i lavoratori della sanità, l’obbligo afferisce ai dipendenti delle strutture che sottostanno a Medicare e Medicaid, i programmi federali sanitari destinati ad aiutare i cittadini sopra i 65 anni e quelli con basso reddito salariale. Il presidente Biden si è detto “deluso dal fatto che la Corte Suprema abbia deciso di bloccare un provvedimento “di buon senso” che avrebbe potuto imporre la sicurezza nei luoghi di lavoro.

[di Valeria Casolaro]

Il governo Draghi resuscita il ponte sullo stretto, di nuovo

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Riecco il ponte sullo stretto. Anche il governo Draghi è tornato a parlare del progetto, che definire annoso è un eufemismo. Recentemente il ministro delle infrastrutture e della mobilità sostenibile Enrico Giovannini ha reso al Consiglio dei ministri un’informativa per avviare uno studio di fattibilità sulla realizzazione del ponte sullo stretto. L’acquisizione del documento sarà gestita da Rete Ferroviaria Italiana Spa, tramite procedura di evidenza pubblica. Come si legge in un’agenzia, “Lo studio dovrà prendere in esame la soluzione progettuale del ponte aereo a più campate, in relazione ai molteplici profili evidenziati nella relazione presentata il 30 aprile 2021 dall’apposito gruppo di lavoro istituito nel 2020 presso il Mims, valutandone la intrinseca sostenibilità sotto tutti i profili indicati, mettendola a confronto con quella del ponte ‘a campata unica’ e con la cosiddetta opzione zero. Inoltre, lo studio deve fornire gli elementi, di natura tecnica e conoscitiva, occorrenti per valutare la realizzabilità del sistema di attraversamento stabile dello Stretto di Messina, anche sotto il profilo economico-finanziario”. Il governo ha fatto sapere che si sta già impegnando nel miglioramento delle interconnessioni ferroviarie nei territori calabresi e siciliani e al potenziamento dell’attraversamento navale dello stretto, con lo stanziamento di 510 milioni derivanti dai fondi del Pnrr “favorendo – qui non si teme la retorica – la transizione ecologica della mobilità marittima e la riduzione dell’inquinamento”.

Le tappe del nulla di fatto

Una storia infinita quella del ponte, mai realizzato ma già costato molti soldi ai contribuenti, tra studi, progetti e primi incarichi poi sfumati. L’idea di collegare la Calabria e la Sicilia parte da lontanissimo. Le prime testimonianze risalgono alla Roma avanti Cristo. Poi se ne discuterà nell’Italia post-unificazione, passando per il dopo guerra e arrivando ai giorni nostri. L’accelerazione nel 1981, quando il governo Forlani fonda la Società “Stretto di Messina Spa”. I lavori non partono ma la Società resta in piedi e si continua a produrre documentazione. Tra le principali questioni quello delle campate. Un ponte marittimo a campata unica sarebbe il più lungo del mondo – esteso per 3,3 Km e supererebbe quello giapponese. Altri pensano a realizzare tre campate, ma il fondale è troppo profondo per pensare a una soluzione del genere. Con Craxi al potere si annuncia che il ponte sarebbe stato pronto nel ’94. Fu lettera morta.

Passano gli anni e il sogno del ponte viene riscoperto da Silvio Berlusconi. Nel 2002 l’annuncio: “Il ponte si farà”. Ne è sicuro anche l’allora ministro delle infrastrutture Pietro Lunardi. Si decide che nel 2003 sarebbero iniziati i primi espropri sulle due sponde e nel 2005 “la prima pietra”. Proprio in quell’anno infatti viene assegnata la gara d’appalto, vinta dalla cordata di imprese Eurolink, capitanata dalla Impreglio, per un costo pari a 6 miliardi. In quell’anno però, la Direzione investigativa antimafia segnala possibili infiltrazioni e l’iter rallenta. Quando il nuovo governo di Romano Prodi si insedia, il ponte non è negli obiettivi. Arriviamo al 2011 e il progetto riparte su impulso di Mattioli, ma poi Mario Monti lo blocca. Nel 2013 la Società Stretto di Messina viene posta il liquidazione. Si stima che dal 1982 ad oggi ci sia costata oltre 300 milioni. Ma il peso del contenzioso che lo Stato potrebbe trovarsi a sostenere ora è anche superiore. Furono chiesti come risarcimento 700 milioni.

Entusiasmo nuovo, problemi vecchi

L’Odissea delle opere pubbliche italiane è un luogo comune che conosciamo bene. Il governo Draghi rischierebbe di esserne anch’esso un attore. Ma la rinnovata attenzione ai grandi interventi, ispirata dal Pnrr, non può che rianimare il sogno del grande ponte. Difficile però la realizzazione. Pietro Lunardi è tornato a parlare, spiegando che il ponte è assolutamente un’opera fondamentale ma che non è pensabile fare più campate, vista la profondità del fondale. I problemi risiedono anche nella forte concentrazione ventosa e nei rischi di ordine sismico, con oscillazioni nella norma di cui già bisogna tenere conto. Per non dire ovviamente dell’impatto ambientale (non ha nascosto perplessità anche il ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani). Molte le criticità che più volte ha evidenziato anche Legambiente.

La vera alternativa, quindi, potrebbe essere un piano di investimenti per rendere più efficiente l’attraversamento navale e il potenziamento dei collegamenti ferroviari in entrambe le sponde. Soluzioni più pratiche che i tanti cittadini chiedono da tempo. Vedremo se, almeno su questi punti, i soldi del Pnrr saranno efficaci.

[di Giampiero Cinelli]

Djokovic, cancellato visto per la seconda volta: a rischio espulsione

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Il governo australiano ha cancellato per la seconda volta il visto del tennista Novak Djokovic, che rischia ora l’espulsione dall’Australia. La decisione è stata motivata dal ministro dell’Immigrazione Hawke con ragioni “di salute e di ordine pubblico”. Le alternative per il campione del tennis sono ora accettare la decisione o presentare appello, richiedendo un procedimento d’urgenza che permetta il dibattimento nel fine settimana. In caso di esito positivo Djokovic potrebbe così partecipare agli Australian Open che avranno inizio lunedì 17 gennaio. Secondo la stampa locale, nel caso in cui non venisse presentato appello Djokovic potrebbe essere nuovamente posto in detenzione presso il Park Hotel in attesa dell’espulsione.