giovedì 18 Settembre 2025
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L’Indipendente per il Pianeta: un impegno concreto e non solo a parole

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L’impegno per la salvaguardia dell’ambiente necessita di azioni decisive. Il nostro Pianeta, con la sua incredibile varietà ecologica e biodiversità, risulta già gravemente compromesso. Per porre rimedio a quanto già fatto, e limitare l’impatto di eventuali danni futuri, vanno messe in campo iniziative concrete. Nel nostro piccolo, cerchiamo dal primo giorno di fare qualcosa di concreto e dare il buon esempio.

La tematica ecologica è per noi de L’Indipendente di imprescindibile importanza sin dalla fondazione. Quando è stato creato il sito abbiamo da subito avviato una collaborazione con il progetto CO2web® di Rete Clima®, un’ente no profit che realizza iniziative a tutela dell’ambiente. Tra queste vi è quella di piantare alberi nelle zone urbane e periurbane di Milano, al fine di migliorare la qualità del territorio e della vita delle persone. L’inquinamento prodotto dal sito per l’inevitabile consumo di energia elettrica viene così compensato dagli alberi che vengono piantati, ciascuno in base al numero di visualizzazioni mensili degli utenti: sono già due quelli piantati grazie a L’Indipendente e i nostri lettori.

Per rimanere fedeli al nostro impegno dall’inizio dell’anno abbiamo aderito al programma Climate Stripe, grazie al quale lo 0,5% del ricavato di ogni nuovo abbonamento viene destinato alla realizzazione di progetti di alta tecnologia per la rimozione del carbonio. Il programma Climate Stripe si occupa infatti di promuovere tecnologie di ultima generazione in grado di catturare la CO2 e stoccarla nel terreno mediante l’utilizzo di tecniche all’avanguardia. Riteniamo che investire in aziende innovative che studiano e progettano metodologie di ultima generazione atte a contrastare il cambiamento climatico sia un passo fondamentale da muovere nella direzione di un futuro più verde.

Noi crediamo fortemente in questi obiettivi e nell’impegno fattuale per contenere il nostro impatto ecologico. Per tale ragione ci impegniamo a portare avanti iniziative concrete, di una portata che vada crescendo di pari passo con l’ampliarsi del nostro sito.

Dal carrello al cervello

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Se è vero che potranno controllare quello che c’è nel carrello del supermercato, allora si concretizzerà un vecchio incubo complottista: quello di togliere i codici a barre dalle merci in frigo perché dall’alto dei cieli il satellite verificherà, controllerà, sanzionerà. Ma ancora ci fanno ancora la grazia di tenere cassieri e cassiere quando sarebbe semplice raccogliere e calcolare tutti i codici a barre contenuti nel carrello.

Il problema è un altro. C’è una categoria di persone che non può acquistare quello che desidera, ma soltanto beni di prima necessità, quasi una tessera annonaria dei tempi bellici.

Stiamo, anzi stanno per eleggere presidente della Repubblica, se le cose stanno così, un profanatore delle minime libertà, a cominciare da quelle della privacy, tutelata dal nostro ordinamento.

Allora è finito il libero mercato, fondamentale per la nostra economia, come diceva Luigi Einaudi, futuro presidente della Repubblica, iniziando il suo corso di Economia politica nel 1944, quando celebrava i mercati rionali, le loro voci, le varie offerte delle merci, la libertà di circolazione delle persone. Mentre sto scrivendo provo un senso di rimpianto ma anche di nausea.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

British Medical Journal: i ricercatori devono avere i dati grezzi sui vaccini, ora

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A distanza di quasi due anni dall’inizio della pandemia e uno dall’avvio della campagna vaccinale, le compagnie farmaceutiche tengono ancora segreti i dati che sottostanno agli studi sulla validità dei vaccini e delle cure per il Covid. Enti regolativi come la FDA (americana) o l’EMA (europea), che dovrebbero occuparsi di tutelare la popolazione, non hanno contribuito a velocizzare un processo di trasparenza. Secondo un editoriale pubblicato da tre autori sulla rivista British Medical Journal (BMJ), prestigioso settimanale medico inglese, si tratta di comportamenti “moralmente indifendibili”, in quanto i grandi profitti delle aziende farmaceutiche per la vendita dei vaccini non sono accompagnati da un “adeguato controllo indipendente delle loro affermazioni scientifiche”.

Ciclicamente, la storia torna a ripetersi: è un principio che va tenuto a mente, per non incorrere nei medesimi errori commessi in passato. È quanto sta accadendo ora secondo un gruppo di autori del British Medical Journal, i quali hanno spiegato in un editoriale pubblicato sulla rivista come nel 2009, quando la pandemia da influenza A/H1N1 aveva percorso i cinque continenti, i governi avevano speso miliardi per fare scorte di medicinali che non si erano poi dimostrati utili nel ridurre le complicazioni o i ricoveri, ed i cui studi erano prodotti dall’azienda che distribuiva il farmaco (il Tamiflu di Roche). In quell’occasione, alla comunità scientifica non era stato consentito l’accesso ai dati: una situazione che suona familiare.

Nonostante dopo il 2009 sembrava essere diventata chiara l’importanza della trasparenza riguardo gli studi clinici, oggi ci troviamo al punto di partenza. La spesa pubblica sostenuta dai governi per la corsa ai vaccini è nell’ordine dei miliardi, ma nessuna tra le Big Pharma ha ancora reso disponibili i dati grezzi alla comunità scientifica o al pubblico. Pfizer ha comunicato che per i suoi dati non se ne parlerà fino a maggio 2025 (nonostante la previsione di completamento dello studio primario sia maggio 2023), Moderna ne prevede il rilascio per il 2022, AstraZeneca ha dichiarato di volerli rilasciare a partire dal 31 dicembre 2021, ma si tratta comunque di un processo lungo e lento. Lo stesso discorso si può fare per quanto riguarda i dati sulle cure per il Covid-19.

Nemmeno le autorità di regolamentazione sembrano voler agire in maniera incisiva per spingere le aziende farmaceutiche alla trasparenza. Dopo varie sollecitazioni la FDA (l’americana Food and Drug Administration), la quale riceve il maggior numero di dati grezzi, ha acconsentito a rilasciare 500 pagine al mese, un ritmo che avrebbe portato alla completa pubblicazione dei dati disponibili non prima di alcuni decenni. Per tale motivo un tribunale ha imposto che il rilascio dei dati fosse portato a 55 mila pagine al mese. Health Canada, l’europea EMA (European Medicines Agency) e l’inglese Medicines and Healthcare Products Regulatory Agency hanno tutte manifestato una simile riluttanza.

Vi sono poi dei quesiti fondamentali ai quali, secondo gli autori dell’articolo, dovrebbe essere data risposta, come il motivo per il quale i vaccini non sono stati testati per verificarne l’efficacia contro la diffusione del Covid-19, dato sul quale i Paesi avrebbero potuto elaborare piani di gestione della pandemia molto diversi.

Le aziende farmaceutiche, ricordano gli autori dell’articolo, sono inoltre quelle nei confronti delle quali la fiducia vacilla maggiormente: tre delle aziende che producono vaccini per il Covid-19 in passato hanno subito procedimenti civili e penali che sono costati loro miliardi di dollari, mentre una è stata condannata per frode.

“Il BMJ supporta le politiche di vaccinazione che siano basate su prove solide” sostiene la rivista, che aggiunge che non è giustificabile il fatto che la comunità scientifica debba riporre “fiducia nel sistema” sperando di poter forse in futuro esaminare gli studi sui vaccini in maniera indipendente. “Non è nel miglior interesse dei pazienti” scrive, aggiungendo che “La trasparenza è la chiave per costruire la fiducia ed è un’importante via per rispondere alle legittime domande delle persone circa l’efficacia e la sicurezza dei vaccini, dei trattamenti e delle politiche di sanità clinica e pubblica stabilite per il loro utilizzo”.

“Non c’è posto per esenzioni all’ingrosso dalla buona pratica durante una pandemia. Il pubblico ha fornito per i vaccini contro il Covid-19 con un vasto finanziamento pubblico alla ricerca, ed è il pubblico che si assume benefici e rischi che accompagnano la vaccinazione” conclude BMJ, sostenendo a chiare lettere il diritto del pubblico ad avere accesso a tali dati.

[di Valeria Casolaro]

Dpcm su attività essenziali, dove si può accedere senza Green Pass

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Il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha firmato questa mattina il nuovo dpcm nel quale vengono elencate le attività alle quali si potrà accedere senza Green Pass. Si tratta nello specifico di ipermercati, supermercati e negozi di alimentari (ma senza consumo sul posto), negozi di surgelati, alimenti per animali, articoli igienico-sanitari, farmacie e parafarmacie, articoli medicali e ortopedici e ottici. Ok anche ad acquisto di combustibile per uso domestico e riscaldamento e al rifornimento di carburante. Si potrà inoltre accedere a strutture sociosanitarie e veterinarie, agli uffici pubblici delle Forze dell’Ordine e gli uffici giudiziari. Nei luoghi in cui sono in vendita anche beni non essenziali (come i supermercati) saranno previsti controlli a campione per verificare che i non vaccinati acquistino solamente beni essenziali.

La Polonia verso le restrizioni anti-Covid su basi genetiche

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I ricercatori dell’Università di Medicina di Bialystok, in Polonia, guidati dai professori Marcin Moniuszko e Mirosław Kwaśniewski, hanno scoperto che la genetica è il quarto fattore più importante nel determinare la gravità della malattia dopo età, peso e sesso. Lo studio, Analisi del genoma del virus SARS-CoV-2 e del genoma dei pazienti con COVID-19 per sviluppare una serie di marcatori genetici che determinano la suscettibilità individuale all’infezione da coronavirus SARS-Cov-2 e la gravità del corso COVID-19, è stato supportato dal Ministero della Salute e dall’Agenzia per la ricerca medica del Paese e ha coinvolto circa 1.500 pazienti con Sars-Cov2. Dai risultati di tale studio si apprende che un gene che si trova nel cromosoma 3, presente in circa il 14% della popolazione polacca e nel 9% degli europei, come nel 27% degli indiani, sarebbe responsabile dell’aggravarsi della malattia. Il risultato confermerebbe un studio pubblicato nel novembre scorso dalla Oxford University. Una ricerca certamente importante, in base alla quale il governo polacco ha dichiarato di voler intraprendere misure legislative che denotano evidenti rischi sul piano etico e politico.

Nella conferenza stampa tenuta presso l’Università di Bialystok, con la partecipazione del Ministro della Salute, Adam Niedzielski, e del Presidente dell’Agenzia di ricerca medica, Radoslaw Sierpiński, in cui sono stati comunicati i risultati della ricerca, i rappresentanti del governo hanno fatto sapere che sulla base delle conclusioni dello studio, la politica intende adesso agire. Niedzielski ha spiegato che a breve «saremo in grado di identificare le persone con una predisposizione a soffrire gravemente di Covid» mentre il professor Moniuszko ha riferito che «tale test può aiutare a identificare meglio le persone che, se infettate, possono essere a rischio di un rapido decorso della malattia prima che si verifichi l’infezione» e quindi non solo curare in maniera puntuale e specifica coloro che si ammalano ma, soprattutto, intervenire preventivamente su coloro che, sulla base della propria genetica, sono considerate “a rischio”. Un test genetico, che il ministero della Salute polacco vorrebbe adesso introdurre, permetterebbe di individuare le persone su cui agire col fine di porre in atto misure politiche ad hoc, anche preventive.

Nei nuovi tempi della scienza usata come stampella-dogma per il potere costituito, l’uso politico di questa ricerca avrebbe chiare implicazioni. Per esempio, coloro ritenuti a rischio di contrarre in forma grave la malattia, sulla base del gene incriminato, potrebbero essere preventivamente confinati in casa oppure essere costretti alla vaccinazione, come a portare la mascherina oppure a non poter frequentare certi luoghi. Insomma, sulla base genetica, potrebbero essere prese misure politiche specifiche per un determinato gruppo di persone, limitandone le libertà. Il rischio di una politica eugenetica è sul tavolo.

[di Michele Manfrin]

Com’è cambiata la disponibilità di terapie intensive in due anni di pandemia?

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Più volte abbiamo trattato le lacune del sistema sanitario nazionale in questi due anni di emergenza. Un’assistenza tramortita da anni di tagli alla spesa non invertita nemmeno nell’ultimo biennio, le mancanze dell’assistenza territoriale, l’assenza di un piano pandemico aggiornato come sarebbe stato d’obbligo. Solo per fare pochi esempi. Ora vediamo invece come si è mosso il Paese in merito ai posti di terapia intensiva disponibili, la cui scarsità aveva comportato molti problemi (e probabilmente contribuito ad aumentare il numero di morti) nelle prime fasi dell’emergenza. Si scopre così che in questo ambito l’Italia se l’è complessivamente cavata, seppur vi siano notevoli disparità tra le regioni ed in alcune di esse i posti letto a disposizione non raggiungano lo standard minimo imposto dalla normativa di riferimento.

A tal proposito, bisogna citare il decreto-legge 19 maggio 2020 n.34, con cui in seguito allo scoppio della pandemia sono state imposte misure urgenti in vari ambiti, tra cui quello della salute. Nello specifico, il comma 1 dell’articolo 2 del decreto ha reso «strutturale sul territorio nazionale la dotazione di almeno 3.500 posti letto di terapia intensiva», determinando così una dotazione pari a 14 posti letto ogni 100.000 abitanti per ciascuna Regione e Provincia autonoma. Il decreto prevede in tal senso che queste ultime debbano garantire «l’incremento di attività in regime di ricovero in Terapia Intensiva e in aree di assistenza ad alta intensità di cure» tramite «apposito piano di riorganizzazione volto a fronteggiare adeguatamente le emergenze pandemiche, come quella da Covid-19 in corso». Inoltre, al comma 2 del medesimo articolo, stabilisce che Regioni e Province autonome debbano programmare altresì una «riqualificazione di 4.225 posti letto di area semi-intensiva».

Tali piani di riorganizzazione sono stati successivamente adottati da Regioni e Province autonome in virtù precisamente del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), il documento predisposto dal governo italiano riguardante gli investimenti da fare con i fondi del Next generation Eu (il programma europeo volto a sostenere gli Stati membri colpiti dalla pandemia). Esso infatti prevede nell’ambito della «componente 2» della «Missione 6» (relativa al settore Salute, al quale verranno destinati 15,63 miliardi) la linea di investimento intitolata «Ammodernamento del parco tecnologico e digitale ospedaliero», che si compone di tre linee di intervento tra cui appunto il potenziamento e la dotazione di posti letto di terapia intensiva e semi-intensiva di cui al suindicato art. 2 del decreto 34/2020.

Dunque, tornando ai piani di riorganizzazione, a ottobre 2021 un report del governo ha raccolto i numeri e gli obiettivi delle singole amministrazioni, riportando il numero di posti letto di terapia intensiva e semintensiva che rispetto a quello della fase pre-emergenziale Regioni e Province Autonome devono possedere in attuazione dei piani. Lo sforzo più imponente riguarda certamente la Lombardia, con il piano che prevede 585 posti letto aggiuntivi da attivare in terapia intensiva e 704 da riconvertire in semi-intensiva. Tuttavia anche per altre regioni sono previsti sforzi notevoli, come ad esempio la Campania, con 499 posti letto da attivare in terapia intensiva e 406 in semi-intensiva da riconvertire e la Sicilia, con 301 posti letto da attivare in terapia intensiva e 350 in semi-intensiva da riconvertire.

Detto ciò, andando a verificare se l’incremento dei posti letto nelle terapie intensive sia stato effettivamente attuato, si nota che in gran parte del Paese essi sono aumentati notevolmente. Secondo i dati riportati da Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali), infatti, innanzitutto in termini assoluti i posti letto attivati in Italia sono attualmente 9616, un numero di gran lunga maggiore rispetto ai 5179 presenti nel periodo pre-emergenziale. Sempre in termini assoluti, inoltre, la regione con più posti letto attivati è la Lombardia (1810), seguita dal Veneto (1000) e dal Lazio (943).

Tuttavia, relativamente al numero di posti letto in terapia intensiva per 100.000 abitanti, la classifica vede al primo posto la Valle d’Aosta, con 26,6 posti letto per 100.000 abitanti, seguita dal Veneto con 20,5 posti letto e dall’Emilia Romagna con 20. Vi sono poi tutte le altre regioni, la maggior parte della quali supera l’obiettivo di 14 posti letto ogni 100.000 abitanti imposto dal decreto sopracitato. Sono solo 6 infatti quelle che si pongono al di sotto di tale soglia, ossia Campania (13,9), Molise (13,3), Sardegna (12,8), Puglia (12,7), Calabria (10,3) ed Umbria (10). Al netto di ciò, bisogna riconoscere che in generale un incremento dei posti letto ci sia effettivamente stato da quando è iniziata l’emergenza, dato che prima della stessa le regioni erano tutte al di sotto dei 14 posti letto ogni 100.000 abitanti: basterà ricordare cha quella con il numero di posti letto attivi maggiore era il Molise, con soli 10,2 posti per 100.000 abitanti.

Detto questo, la disparità presente tra le regioni di certo non sorprende trattandosi di un problema vecchio: basterà ricordare che già nel 2015 un rapporto dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) parlava delle «persistenti disparità regionali nella qualità dell’assistenza sanitaria tra le regioni italiane» ed invitava l’Italia ad assicurare un’applicazione più omogenea a livello regionale delle iniziative nazionali per la qualità ed i requisiti minimi.

Non solo, perché il rapporto ricordava anche che sarebbe stato necessario porre maggiore attenzione alla futura qualità della sanità a livello nazionale. Un suggerimento evidentemente non ascoltato, dato che gli ultimi 10 anni sono stati caratterizzati da tagli e privatizzazioni nei confronti del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), che non è riuscito a fornire una risposta adeguata al sorgere dell’emergenza sanitaria. È in tale contesto quindi che va collocato l’attuale incremento dei posti letto, con il numero degli ospedali che in 10 anni è sceso di ben 173 unità ed il personale che si è ridotto del 6,5%.

[di Raffaele De Luca]

Siria, Isis attacca prigione e libera militanti

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Alcune “cellule dormienti” dell’ISIS hanno attaccato la prigione di Ghwayran, nel nord-est della Siria, liberando un numero ancora non precisato di militanti. È quanto riportato da SOHR, l’Osservatorio per i diritti umani in Siria. La prigione, gestita da militari curdi, si trova nella città di al-Hasaka: l’attacco è avvenuto in concomitanza con l’esplosione di un’autobomba all’ingresso del carcere e una seconda nelle vicinanze. Al momento sono stati inviati rinforzi alle forze di sicurezza carcerarie e l’area è stata isolata, mentre gli aerei della coalizione guidata dagli USA hanno sorvolato la zona e lanciato alcuni razzi nelle vicinanze del perimetro.

Una barriera corallina incontaminata è stata scoperta al largo di Tahiti

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È stata recentemente scoperta una barriera corallina sviluppatasi negli ultimi venticinque anni nelle acque al largo di Tahiti, isola della Polinesia francese. Una barriera lunga tre chilometri, formata da coralli giganti a forma di rosa, alcuni con un diametro superiore ai due metri. Ad aumentare lo stupore il fatto che la nuova barriera corallina scoperta sia del tutto incontaminata. Le conseguenze del riscaldamento dell’oceano – come lo sbiancamento che colpisce altre barriere coralline –  non hanno intaccato la barriera tahitiana che sorge nella cosiddetta “zona crepuscolare” dell’oceano vicino all’isola della Polinesia francese. Si parla di “zona crepuscolare” quando viene presa in considerazione l’area che va dai 30 ai 120 metri sotto la superficie; la barriera corallina recentemente scoperta sorge a una profondità di oltre 30 metri, dove arriva ancora abbastanza luce per la produzione dei coralli.

Sarebbe proprio la crescita in acque così profonde, sostengono gli scienziati, a proteggere i coralli dagli effetti dello sbiancamento. La maggior parte delle barriere coralline conosciute sorge infatti, in media, a una profondità di 25 metri ma sono da tempo soggette al duro stress del surriscaldamento delle acque, come la Grande Barriera Corallina australiana, dove dal 2016 ben l’80% dei coralli ha subito un grave sbiancamento. Visto come il riscaldamento degli oceani stia pericolosamente aumentando, come attestano nuovi studi a riguardo (il 2022 si è aperto infatti con un nuovo allarme), la scoperta al largo delle coste di Tahiti suggerisce la possibile esistenza di molte altre grandi barriere coralline in zone tanto profonde, ancora sconosciute.

Non che questo sia una grande sorpresa, visto che dell’intero fondale marino, solo una parte è per ora mappata. Ad oggi, la composizione dei fondali oceanici è conosciuta solo al 20 per cento del totale. Per questo, alcuni anni fa ha preso il vita l’ambizioso progetto Seabed 2030, volto a produrre una mappa ad alta risoluzione di tutti i fondali entro il 2030 per poi renderla disponibile a tutto il mondo. Seabed 2030 ha preso il via nel 2017, quando solo il 6 per cento degli oceani risultava mappato con metodologie moderne e standardizzate. I progressi fatti fino ad oggi sono notevoli e la recente scoperta della profonda barriera corallina nel Pacifico è un’ulteriore spinta positiva per studiare e conoscere meglio gli oceani, i quali oltre a ricoprire i due terzi della Terra, hanno un ruolo fondamentale per il pianeta.

[di Francesca Naima]

Caro bollette, oggi cabina di regia e poi Consiglio dei ministri

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Il Presidente del Consiglio Draghi e i capi delegazione della maggioranza avvieranno oggi 21 gennaio alle ore 9 una cabina di regia per discutere le misure da mettere in atto al fine di contenere i rincari in bolletta. Lo riporta Il Sole 24 Ore, che aggiunge come in seguito dovrebbe tenersi anche un Consiglio dei Ministri, al momento non ancora convocato. Le misure per il contenimento degli aumenti delle bollette avranno un valore complessivo di almeno 4 miliardi di euro e andranno a vantaggio di cittadini e imprese. È previsto anche un decreto Sostegno ter (circa 1,5 miliardi di euro) per i settori in difficoltà.

Gli investitori boicottano l’inserimento del gas nelle fonti pulite

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Il Gruppo di investitori istituzionali sui cambiamenti climatici (IIGCC) ha esplicitamente chiesto all’Ue di non etichettare il gas come investimento sostenibile. Diversamente, secondo l’alleanza – la quale ha un portafoglio stimato in 50 mila miliardi di euro – si farebbe un danno alle politiche sul clima. Tra pochi giorni, infatti, l’Unione europea deciderà definitivamente se gas naturale ed energia nucleare andranno considerate fonti finanziabili poiché utili alla transizione. Una strada che, tuttavia, appare già segnata. Il Gruppo di investitori – in una lettera aperta – ha quindi chiesto di non confermare la decisione circolata a Bruxelles.

Le argomentazioni riportate nella lettera non sono però meramente ideologiche, anzi, mettono l’accento su questioni tecniche di particolare rilievo. Ad esempio, non ci sarebbe proprio un budget di carbonio sufficiente per nuovi investimenti nel gas naturale. Infatti, solo un limite di 100gCO2e/kWh, per tutte le fonti energetiche, permetterebbe il raggiungimento degli obiettivi climatici. Se il gas venisse incluso, bisognerebbe alzare questa soglia a 270gCO2e/kWh con il risultato che «molte aziende dimostrerebbero l’allineamento con la tassonomia anche con attività e piani di transizione incompatibili con l’obiettivo di emissioni nette zero». Il gas, inoltre, non andrebbe considerato nemmeno ‘fonte energetica di transizione’ dato che non rispetta nessuno dei requisiti previsti dalla stessa tassonomia: non avere alternative fattibili dal punto di vista tecnologico o economico, non rallentare lo sviluppo di altre fonti pulite e non vincolare il sistema energetico a certi livelli di emissioni.

Infine, anche continuando ad ostentare la necessità di gas, non ci sarebbero proprio i tempi. «Entro il 2050 – scrivono difatti gli investitori – la domanda di gas naturale dovrà comunque ridursi dell’8% rispetto ai livelli del 2019 entro il 2030 e del 55% entro il 2050». Quindi, anche le centrali esistenti dovranno essere gradualmente eliminate entro il 2035. In sostanza, accogliendo il gas nella tassonomia verrebbe meno lo scopo fondamentale della stessa: permettere al capitale di essere indirizzato verso attività economiche totalmente compatibili con l’impegno dell’Ue per la neutralità climatica entro il 2050 e la riduzione delle emissioni del 55% entro il 2030. Chiaro è che, alla luce di tale analisi – qualora l’Europa optasse per l’inserimento nella tassonomia della fonte fossile fin qui dibattuta – gli interessi economici avrebbero, ancora una volta, la meglio su quelli del Pianeta e dell’intera umanità. Insomma, sia chiaro: quanto è necessario il gas alla transizione ecologica? E quanto è necessario che lo sia per l’una o l’altra industria petrolifera?

[di Simone Valeri]