giovedì 18 Settembre 2025
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Clima, Onu conferma: 2021 è stato uno dei 7 anni più caldi di sempre

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Il 2021 è stato uno dei 7 anni più caldi mai registrati: a confermarlo è l’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo), che fa capo all’Onu, arrivata a tale conclusione incrociando i dati internazionali diffusi da diversi enti specializzati sullo stato del clima. Il 2021 inoltre, sebbene nel biennio 2020-2022 le temperature medie globali siano state temporaneamente mitigate dal fenomeno che porta temperature fredde sull’oceano Pacifico denominato La Niña, è risultato essere il settimo anno consecutivo in cui la temperatura globale è stata superiore di oltre 1 grado centigrado rispetto ai livelli preindustriali (1850-1900). L’Organizzazione, infine, prevede che «il riscaldamento globale e altre tendenze a lungo termine del cambiamento climatico continueranno a causa dei livelli record di gas serra che intrappolano il calore nell’atmosfera».

Internet of Things, ovvero la vita digitale che verrà

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Ultimamente si è parlato molto di criptovalute, NFT, Web3 e, soprattutto, metaverse, tuttavia esiste un ulteriore elemento “futuristico” della digitalizzazione, un elemento che è già ora parte integrante della nostra vita, seppure in maniera ancora estremamente grezza: l’Internet of Things (IoT) ovvero l’“internet delle cose”.
Cos’è lo IoT
Nel suo Ubik, l’autore di fantascienza Philip Dick descrive un futuro dalle tinte paradossalmente obsolete in cui lo squattrinato protagonista intavola un dibattito con la porta del suo stesso appartamento. Questa gli intima con voce artificiale di pagare ci...

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Liberia: attacco a festa religiosa, 29 persone muoiono nel tentativo di scappare

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Almeno 29 persone, tra cui 11 bambini, hanno perso la vita nella capitale della Liberia, Monrovia, durante una cerimonia cristiana. Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Associated Press, infatti, nella serata di ieri una banda di teppisti armati di coltelli ha attaccato i fedeli che stavano partecipando alla cerimonia e 29 di loro sono morti nel tentativo di fuggire, a causa della ressa creatasi in seguito all’attacco.

Uno studio prevede la scomparsa di 1500 lingue entro la fine del secolo

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All’incirca 1500 lingue potrebbero sparire entro la fine di questo secolo: è quanto rileva uno studio condotto dall’Australian National University, che ha cercato di identificare i fattori di rischio alla base del fenomeno. La scomparsa delle lingue indigene potrebbe portare alla simultanea perdita di interi patrimoni culturali, inglobati ed annientati dalle civiltà colonizzatrici e dominanti.

Lo studio realizzato dall’Australian National University e pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Ecology and Evolution rivela come su 7000 lingue ad oggi esistenti, all’incirca la metà sono in pericolo di completa sparizione e 1500 potrebbero essere cancellate entro la fine del secolo. Si tratta di un rischio con un’esponenziale tendenza di crescita nei prossimi 40 anni, la cui conseguente perdita in termini di patrimonio culturale sarebbe inestimabile.

Le lingue sono il mezzo primario di trasmissione e di diffusione di una cultura: permettono di trasmettere e tramandare concetti, visioni del mondo e concezioni filosofiche propri di ogni gruppo culturale. La violenta dominazione coloniale messa in atto dalle principali potenze europee a partire dal XVI secolo ha costituito il fattore primario di perdita dell’enorme diversità linguistica e culturale che esisteva tra i gruppi nativi soprattutto nelle Americhe e in Africa, dove il colonialismo ha mostrato il proprio volto più spietato.

Solamente in Australia prima della colonizzazione si parlavano 250 lingue native e 800 dialetti: oggi sono solamente 40, delle quali appena 12 sono parlate dai bambini. Il tasso di perdita della lingua è qui uno dei più alti al mondo. “La lingua è più che un mezzo di comunicazione, è ciò che ci rende unici e ha un ruolo centrale nel nostro senso di identità. La lingua porta dei significati che vanno oltre le parole. È una piattaforma che ci permette di trasmettere il patrimonio e il sapere culturale. Parlare e imparare le prime lingue fornisce un senso di appartenenza ed emancipazione” scrive il sito dell’AIATSIS, l’Istituto australiano di studi aborigeni e degli abitanti dell’isola di Torres.

Lo studio australiano avrebbe individuato 51 fattori o predittori della scomparsa delle lingue, tra i quali il primario è di certo costituito dalla scolarizzazione. Il mancato investimento in un’educazione bilingue a favore dell’idioma coloniale dominante ha fatto sì che le nuove generazioni abbiano perso la capacità di parlare la lingua dei propri genitori, causando in alcuni casi un distacco generazionale oltre che una vera e propria perdita in termini di patrimonio culturale.

Altro fattore inatteso ma determinante è la densità delle strade: maggiori sono i collegamenti stradali tra campagne o villaggi e città, più si alza il pericolo di sopravvivenza delle lingue. “È come se le strade aiutassero le lingue più grandi a “schiacciare” le lingue più piccole” afferma Lindell Bromham, coautore dello studio.

“L’Australia spende solo 20,89 dollari all’anno pro capite della popolazione indigena per le lingue, che è una differenza abissale rispetto ai 69,30 dollari del Canada e ai 296,44 dollari della Nuova Zelanda” dice Felicity Meakins, dell’Università del Queensland e coautrice dello studio, sottolineando quanto sia necessario un intervento urgente per preservare la multiculturalità.

[di Valeria Casolaro]

Bodycam alla polizia, ma la tutela dei cittadini non c’entra niente

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Con una circolare del Capo della Polizia, diffusa a tutte le Questure, sono state rese operative le circa mille bodycam distribuite alle Forze dell’Ordine. Si tratta di una strumentazione volta a tutelare l’operato degli agenti che intervengano in situazioni di gestione dell’ordine pubblico nell’ambito di “eventi di rilievo”. Sebbene l’adozione di questi apparecchi sia stata accolta con favore dai sindacati delle Forze dell’Ordine, viene spontaneo domandarsi quale sia l’effettiva utilità o necessità. Sempre più casi di cronaca raccontano infatti di un’estrema difficoltà nell’ottenere condanne nei confronti di agenti che facciano uso illegittimo della forza, con processi che arrivano a protrarsi anche per decenni (si pensi ai 12 anni necessari per la condanna degli assassini di Stefano Cucchi, o agli 8 nel caso della morte di Aldo Bianzino, che hanno portato a un sostanziale nulla di fatto).

Con una circolare diffusa martedì 18 gennaio il Capo della Polizia Lamberto Giannini ha reso operative le circa mille bodycam distribuite alle Forze dell’Ordine, affinché vengano utilizzate nell’ambito di grandi eventi. Nello specifico, 700 videocamere sono state date in dotazione a 15 Reparti Mobili della Polizia di Stato e 249 alle unità mobili dell’Arma dei Carabinieri. Secondo Gianni Tonelli, deputato della Lega e segretario del Sap (Sindacato Autonomo di Polizia), si tratta di una grande vittoria, che permette di tutelare la comunità degli agenti, a suo dire “sconfortata, sottoposta a processo senza aver la possibilità di difendersi con prove inconfutabili, come è un filmato”. Si tratta quindi, in tutta evidenza, di una misura pensata per tutelare gli agenti di polizia. L’interesse dei cittadini non è menzionato.

Le registrazioni potranno essere avviate “ogniqualvolta l’evolversi degli scenari faccia intravedere l’insorgenza di concrete e reali situazioni di pericolo di turbamento dell’ordine e della sicurezza pubblica o quando siano perpetrati fatti costituenti reato”, per essere poi interrotte “quando venga meno la necessità di documentare gli eventi”. I filmati sono poi conservabili “in linea generale” per sei mesi, di più se necessari in caso di procedimenti legali.

“I miei colleghi uscivano in strada in un totale stato di soggezione, con un livello di serenità nullo, persone per bene, servitori dello Stato che per poco rischiano la vita e per false denunce si trovavano sottoposte a un processo di disumanizzazione, dipinti come orsi cattivi” commenta ancora Tonelli, sottolineando come questa misura costituisca un importante mezzo di tutela dell’attività delle Forze dell’Ordine dall’essere “condannati e poi prosciolti per fatti surreali“.

Tonelli non specifica quali siano i “fatti surreali” per i quali sono stati condannati gli agenti. Numerosi fatti di cronaca, tuttavia, sembrano suggerire come sia sempre più difficile tutelare la cittadinanza dall’eccesso di violenza delle Forze dell’Ordine, dal momento che anche quando le dinamiche dei fatti appaiono insindacabili i processi durano comunque anni, a causa della forte omertà che sembra vigere all’interno di certi contesti delle Forze dell’Ordine e di una generale tendenza a giustificare la violenza quando messa in atto in un supposto contesto di disordine pubblico. A partire dal G8 del 2001 si possono snocciolare tutta una serie di casi di cronaca nei quali i soprusi erano evidenti, ma le condanne ai danni degli agenti sono risultate complesse da ottenere. Il caso di Stefano Cucchi può costituire un esempio per tutti: sono stati necessari 12 anni per giungere alla condanna dei colpevoli.

Inoltre in caso di eventi di grande portata gli agenti indossano caschi, scudi e bandane, il che li rende quasi del tutto irriconoscibili dall’esterno, motivo per il quale è spesso difficile per i cittadini individuare gli autori delle violenze: il caso di Paolo Scaroni, rimasto invalido al 100% dopo un pestaggio da parte dei poliziotti, costituisce un esempio per tutti. Per tale motivo l’Unione Europea ha sollecitato gli Stati membri ad acquisire il codice identificativo per le forze di polizia: si tratta di un codice alfanumerico che permette un immediato riconoscimento dell’agente. Sono diverse le associazioni che richiedono che questa misura venga adottata anche in Italia: tra queste Amnesty International, che ricorda come in caso di grandi eventi siano le Forze dell’Ordine stesse a fare “uso sproporzionato della forza“. Tuttavia, i Governi italiani si sono mostrati refrattari all’adozione di tale misura, che trova l’opposizione del centro destra e dei sindacati di polizia. Una misura a tutela della cittadinanza che è stata, quindi, scansata.

Vi sono poi delle obiezioni di carattere oggettivo sull’effettiva utilità delle bodycam, in primo luogo data la diffusa disponibilità di video e immagini nel corso di eventi pubblici, prodotti dai telefoni cellulari o dalle telecamere di sorveglianza disposte ormai ovunque.

L’adozione delle bodycam si prefigura quindi come ulteriore strumento di tutela degli agenti, cui sembra essere sempre meno chiesto di rendere conto delle proprie azioni. La sicurezza dei cittadini, a quanto pare, viene solamente in secondo piano.

[di Valeria Casolaro]

Attacco hacker contro Croce Rossa Internazionale, violati dati 515 mila persone

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Il Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC) ha denunciato un attacco hacker di portata mai sperimentata che ha violato i dati di circa mezzo milione di persone. I motivi dell’attacco rimangono, al momento, sconosciuti. Tra le persone colpite, afferma ICRC, vi sono soggetti “separati dalle loro famiglie a causa di conflitti, migrazioni e disastri, persone scomparse e le loro famiglie, e persone in detenzione”. Secondo quanto riferito, l’attacco ha preso di mira un appaltatore esterno svizzero, che conservava i dati per conto dell’ICRC. La violazione ha costretto l’associazione a chiudere il programma Restoring Family Links, che aveva come obiettivo il ricongiungimento tra familiari separati da migrazioni, disastri climatici o conflitti.

Ravenna, bufera sulla polizia: geolocalizzati i positivi per controllare la quarantena

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Per controllare che i cittadini positivi al Covid rispettino la quarantena in Comune di Ravenna usa la geolocalizzazione attraverso i telefoni cellulari, controllata direttamente dagli agenti della polizia locale. Il sistema va avanti da quasi due anni, praticamente dall’inizio della pandemia, ma solo ora il sistema è balzato all’attenzione delle cronache locali e del Garante della Privacy che ha aperto un’istruttoria sull’amministrazione romagnola. Il Comune si difende specificando che il controllo tramite geolocalizzazione è facoltativo ed effettuato solo previo consenso del cittadino sottoposto a quarantena, che può anche preferire sottrarsi al sistema e preferire l’eventuale controllo diretto presso l’abitazione da parte delle forze di polizia.

La misura di controllo tramite geolocalizzazione, secondo i dati trasmessi dal Comune, sarebbe già stata utilizzata su oltre mille persone e il 99% degli interessati avrebbe accettato di buon grado la geolocalizzazione tramite smartphone come sistema di controllo. Una percentuale bulgara che lascia dubbi su quanto potesse essere realmente esplicito e chiaro il fatto che si trattasse di un controllo dei dati personali assolutamente volontario e non obbligatorio. Ipotesi sulla quale evidentemente intende fare luce anche il Garante della Privacy, che in una comunicazione ufficiale ha chiesto all’amministrazione ravennate di far pervenire all’Autorità «ogni elemento utile alla valutazione del trattamento di dati personali effettuato, con particolare riferimento alle modalità del trattamento, descrivendo gli strumenti del sistema realizzato, incluse specifiche app per dispositivi mobili utilizzate; le finalità perseguite mediante la geolocalizzazione ed i periodi di tempo e le modalità di conservazione dei dati raccolti, nonché il rispetto dei principi di proporzionalità e minimizzazione del trattamento». L’ente locale, sottolinea il Garante, «dovrà inoltre indicare le misure tecniche ed organizzative adottate per garantire un livello di sicurezza adeguato dei dati trattati e gli eventuali soggetti terzi destinatari dei dati acquisiti attraverso le funzioni di geolocalizzazione».

Il sindaco della città romagnola, Michele De Pascale, intanto prova a difendersi e a spegnere sul nascere le ovvie polemiche: «Non è in atto alcun tracciamento generalizzato sulle persone in quarantena – ha commentato al Corriere di Bologna – ma di un’opzione proposta alle persone che sono state selezionate per ricevere il controllo. Chi viene selezionato per il controllo è quindi totalmente consapevole e consenziente di quello che gli viene proposto».

 

Si è svolto il primo volo alimentato senza carburanti fossili

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È stato il Boeing 737 del volo 2701 dell’United Airlines che, l’1 Dicembre 2021, è decollato dall’aeroporto internazionale di Chicago O’Hare e ha raggiunto, dopo tre ore, il Ronald Reagan Washington National Airport, con l’utilizzo di SAF. A bordo, 100 passeggeri. Il velivolo è stato rifornito con circa 1900 litri di bio-carburante, mentre l’altro motore (la normativa vieta di rifornire l’aereo con più del 50% di SAF) è stato rifornito con carburante tradizionale, per testare le reali prestazioni con l’uno e con l’altro: non sono state rilevate differenze.

La compagnia aerea ha annunciato l’entrata di nuovi partner per l’acquisto di SAF al programma Eco-Skies Alliance. È grazie a questo, lanciato nell’aprile del 2021, che sono stati acquistati 7 milioni di galloni (un gallone liquido americano corrisponde a circa 3.785 litri) di eco-carburante nello stesso anno. Oggi, il programma conta quasi 30 partner, tra cui grandi aziende come Nike, Microsoft e Visa. Il principale obiettivo dell’United Airlines è l’adozione della sostenibilità come nuovo standard di volo e, molte sue recenti azioni, vanno proprio in questa direzione. Come l’acquisto di 1.5 miliardi di galloni di SAF da Alder Fuels, sufficienti a fare volare più di 57 milioni di passeggeri, o l’investimento nella start up di aeromobili elettrici Heart Aerospace, la quale sta sviluppando un velivolo elettrico da 19 posti, l’ES-19.

Ma che cos’è il SAF? Il Sustainable Aviation Fuel è il carburante per aviazione sostenibile promosso dalle ricerche e dai fondi del Bioenergy Technologies Office del Dipartimento dell’energia degli Stati Uniti d’America. Si tratta di un carburante non derivante dal petrolio, bensì realizzato con risorse rinnovabili e materiali di scarto alimentare, principalmente mais e l’etanolo che ne deriva, ma anche olio e altri rifiuti. Già nel 2016, l’United Airlines aveva iniziato a sperimentare il SAF mescolandolo a carburante regolare, ma a dicembre ha deciso di provare a usare solo quello green per tutta la durata del volo. Entro il 2050, la compagnia aerea vuole arrivare a utilizzare solo SAF, compiendo così un ulteriore importante passo verso un mondo più ecosostenibile.

Ma se da un lato questo sarebbe conveniente per la preservazione del nostro pianeta – considerato il risaputo grosso impatto che gli aerei hanno sulle concentrazioni di CO2 nell’atmosfera -, dall’altro ci sarebbero delle controindicazioni. Convertire l’intera industria aerea al SAF è una strada lunga, molto lunga. Questo, oggi, ha un costo ben quattro volte maggiore dei carburanti fossili, pertanto la sua produzione è limitata. Inoltre, col passare del tempo, si porrebbe il problema dell’ottenimento delle necessarie e ingenti quantità di etanolo. Difatti, in una realtà in cui tutti i voli venissero alimentati con bio-carburante, non basterebbero più gli scarti alimentari e nascerebbe l’esigenza di creare enormi piantagioni di mais con, di conseguenza, il disboscamento di molte aree e la sottrazione di terreni alla coltivazione di altri prodotti. Pertanto, è indubbia l’importanza di aver raggiunto un traguardo del genere maturando la possibilità di effettuare voli civili con l’impiego di carburanti non fossili, ma la prossima sfida sarà fare in modo che questi vengano reperiti in maniera sostenibile ed ecologica.

[di Eugenia Greco]

Cure domiciliari Covid, ripristinate tachipirina e vigile attesa

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Il Consiglio di Stato ha sospeso con un decreto la sentenza del Tar del Lazio che annullava il protocollo ministeriale riguardo le cure domiciliari. Nel protocollo venivano indicate come uniche terapie utili, per le cure a domicilio, la somministrazione di paracetamolo e la vigile attesa. Nel decreto del Consiglio di Stato si legge che tale protocollo prevede “raccomandazioni e non prescrizioni, cioè indica comportamenti, secondo la vasta letteratura scientifica allegata, che sembrano rappresentare le migliori pratiche” e quindi “non emerge alcun vincolo” circa la scelta delle terapie da parte dei medici, semmai delle “pratiche di riferimento”. La questione sarà dibattuta in Camera di consiglio il prossimo 3 febbraio, ma nel frattempo il protocollo torna valido.

Recensioni indipendenti: Il Mercante (documentario) – di Tamta Gabrichidze

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Nell’infinito calderone delle ormai numerose piattaforme streaming, dove non è facile districarsi tra i tanti prodotti principalmente mainstream, qualcosa di bello a volerlo cercare, si trova, come questo piccolo gioiellino, vincitore come miglior cortometraggio-documentario al Sundance Film Festival 2018. Il Mercante è un documentario opera prima diretto dalla giovane regista georgiana Tamta Gabrichidze classe 1986, che con estrema semplicità in soli 23 minuti mostra la condizione del suo popolo, racchiudendola in una giornata di lavoro del corpulento venditore ambulante Gela Kolochovi, che nella capitale Tbilisi compra prodotti usati e con il suo furgoncino si reca nelle zone rurali e nei villaggi più remoti della Georgia, per offrire la sua merce agli abitanti di quelle campagne isolate.

In cambio non chiede soldi ma patate. Di Lari georgiani, questo il nome della moneta nazionale, ne girano ben pochi data l’estrema povertà di quella gente. Utensili, vestiario, giocattoli e oggetti di uso quotidiano ma anche prodotti alimentari irreperibili in zona, si barattano in cambio di patate la cui coltivazione è fondamentale in un luogo dove le persone lottano per sopravvivere, in cui la difficoltà di vivere nella miseria si riflette nei loro volti, nei loro sogni e nelle loro parole, come quelle di un vecchio abitante del luogo con le mani rovinate dal gelo e da una vita di duro lavoro in una terra arida, fumando una sigaretta dice: «Le patate sono denaro per noi. Euro, dollari, Lari georgiani: le patate sono tutto». «Il mio sogno quand’ero bambino era di ricevere un’istruzione. Volevo laurearmi all’università, ma non ho potuto perché non ho mai avuto l’opportunità».

Nel breve viaggio con l’ambulante Gela incontriamo molti personaggi e tutti, anche nei loro silenzi, hanno qualcosa da raccontare, creando nella loro semplicità, scene molto potenti, riuscendo a trasmetterne l’essenza solo con le immagini, come quella di un bambino che ci fissa sorridente, dondolandosi su un’altalena rugginosa e cigolante, mentre altri alle sue spalle giocano sotto una fitta pioggerellina gelida. La regista ha fatto un lavoro pulito, con inquadrature principalmente fisse, dove si alternano campi lunghi su cieli plumbei e pianure infinite con donne chine a raccogliere patate, sognando di riuscire a comprare qualcosa quando passerà il mercante. Campi medi d’insieme sulla quotidianità e primissimi piani per entrare, tramite i volti, nell’anima dei personaggi, creando così e in poco tempo, una forte empatia verso di loro, come in una semplicissima scena, girata con una inquadratura fissa, concentrata solo sullo sguardo di una vecchia con il viso scavato dalle rughe e il naso arrossato dal freddo tagliente, che cerca di contrattare con il mercante una semplice grattugia. In un’economia di scambio senza eccezioni o compassione, dove se hai un solo Lari e non hai i cinque chili di patate richiesti, una grattugia non puoi permettertela, contrasta con l’innocente felicità di tre bambini che accorrono al furgoncino di Gela che, come un teatrante di strada, li fa giocare con le bolle di sapone, per attirare l’attenzione di possibili clienti. Il tutto avviene con una naturalezza quotidiana disarmante.

Tamta Gabrichidze con questo piccolo cortometraggio vuole aprirci gli occhi non solo superficialmente, nell’insegnarci a gioire delle piccole cose, rinunciando ai beni materiali per apprezzare il senso della vita, ma con delicatezza e una forte deferenza verso il suo popolo, vuole fare una vera e propria denuncia sulle condizioni in cui vivono molti suoi connazionali, dove le ambizioni si scontrano con la povertà, come in un bambino emozionato che non riesce a esprimere di fronte alla macchina da presa, cosa vuole fare da grande. La madre gli suggerisce di dire che vuol fare il giornalista, ma sembra un’idea troppo irraggiungibile anche per i sogni di un ragazzino immaginarsi una vita diversa da quella. Un documentario poetico che ci racconta intimamente di esseri umani abituati a vivere in equilibrio con la loro lotta quotidiana, mostrata nella sua naturalezza, che pure nella miseria acquista dignità proprio per la fluidità con cui viene raccontata, lasciandoci così, nonostante tutto, con un filo di speranza, ed offrendoci  spunti per diverse riflessioni. Alla fine della giornata il personaggio di Gela il mercante, che è solo un pretesto per raccontarci questo mondo, fa ritorno al mercato di Tbilisi per rivendere le patate, ricavarne un guadagno necessario per sé e per ricomprare altra merce da barattare nel prossimo viaggio.

[di Federico Mels Colloredo]