giovedì 18 Settembre 2025
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L’annuncio di Boris Johnson: stop a green pass e mascherine nel Regno Unito

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Il Regno Unito abolirà il green pass e le norme che regolamentano l’uso obbligatorio delle mascherine: ad annunciarlo è stato il premier Boris Johnson intervenendo alla Camera dei Comuni. Le restrizioni scadranno il 26 gennaio, dal giorno successivo entreranno in vigore le seguenti modifiche: decade l’uso della certificazione verde (ma le aziende potranno continuare a richiederlo, se lo riterranno); decadono gli obblighi ad indossare la mascherina laddove era obbligatoria come scuole e mezzi di trasporto pubblici; stop alle raccomandazioni per le aziende a fare lavorare i dipendenti in remoto; via anche le restrizioni relative alle visite in ospedali e case di cura. Rimarrà solo l’obbligo di quarantena per i positivi al Sars-Cov2. In dubbio l’obbligo vaccinale per i sanitari, che potrebbe essere eliminato. Boris Johnson ha inoltre detto che non prevede di rinnovare nessuna restrizione (inclusa la quarantena per i positivi) oltre la scadenza attuale già fissata al 24 marzo 2022.

Il premier ha affermato che le decisioni sono state prese in accordo con i consulenti scientifici del governo, i quali ritengono che la variante Omicron «abbia già raggiunto il picco a livello nazionale», e ha rivendicato le politiche meno restrittive rispetto ai Paesi europei adottate nel Regno Unito, affermando che «i dati mostrano che più e più volte questo governo ha preso le decisioni più difficili nel modo giusto».

L’Indonesia sposta la sua capitale: Giacarta sta letteralmente affondando

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Jakarta

In Indonesia il Parlamento ha approvato una legge che prevede di spostare la capitale Giacarta a Nusantara, una città nel Borneo, costruita da zero. Per quale motivo? Joko Widodo, Presidente indonesiano, aveva già detto nel 2019 di voler procedere con il progetto perché Giacarta sta letteralmente sprofondando in acqua.

Per questo motivo – e per l’urgenza della situazione – i lavori cominceranno già quest’anno, con un utilizzo iniziale di circa 56mila ettari sull’isola di Borneo. In totale l’impresa costerà circa 28 miliardi di euro e si protrarrà, secondo il Governo, almeno fino al 2045.

Per gli attivisti ambientali non è una delle migliori soluzioni quella adottata da Widodo. Anzi, potrebbe arrecare più danno del previsto, dato che sull’isola di Borneo c’è una delle foreste pluviali più antiche del mondo. Che già, a dirla tutta, non se la passa bene. La deforestazione ha ridotto di molto la sua dimensione originale e la creazione di piantagioni per l’olio di palma sta mettendo a repentaglio l’incolumità della biodiversità.

Perché Giacarta sta affondando? Il problema è in parte da ricercare nell’innalzamento dei mari, fenomeno collegato al surriscaldamento globale. Ma c’è dell’altro. A contribuire all’inabissamento è proprio il fatto che la città si sta abbassando di qualche centimetro all’anno, in contemporanea all’aumento del livello dell’acqua. A conti fatti, il 40% di Giacarta è già sotto il livello del mare e una soluzione concreta ancora non c’è. E quelle già adottate, invece, si stanno rivelando insufficienti.

Non è affatto chiaro il motivo per cui la città si stia in un certo senso “auto sabotando”, finendo in mare. Secondo il New York Times, la causa potrebbe essere il fatto che Giacarta è per il 97% coperta di asfalto e cemento, e gli abitanti scavano molti pozzi illegali per poter trovare acqua non contaminata. Il cemento impedisce al liquido in superficie di filtrare, di andare giù per così dire, bloccandolo in superficie. Invece l’acqua che si trova sotto la città viene riportata su attraverso i pozzi. È un circolo vizioso, “un gigante cuscino su cui Giacarta si appoggia”, si legge nell’articolo. Un gigante destinato ad annegare.

[di Gloria Ferrari]

Il Mali ribolle contro il neocolonialismo francese

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proteste anti-francesi in Mali

Il 14 gennaio scorso migliaia di maliani sono scesi per le strade della capitale Bamako per protestare contro le sanzioni economiche imposte al Mali dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS). La protesta si è unita alle storiche proteste contro il colonialismo francese, con molte persone che reggevano un cartello con la scritta “Morte ai francesi e ai loro alleati”. La decisione di imporre sanzioni da parte di ECOWAS, con l’appoggio di Stati Uniti e Unione Europea, era stata presa in risposta alla proposta della giunta militare di posticipare le elezioni al dicembre 2025 invece che nel mese di febbraio come inizialmente previsto. Dal 2020, il Mali è governato dal Comitato nazionale per la salvezza del popolo, una giunta militare capeggiata da Assimi Goïta, che tramite un colpo di stato aveva rimosso l’allora presidente Boubacar Keita.

Keita, morto il 16 gennaio a 76 anni, era stato eletto per la prima volta nel 2013 e poi una seconda nel 2018. Abusi, corruzione, instabilità e un costante declino dell’economia sono stati i principali fattori che hanno accresciuto il malcontento popolare e diminuito la popolarità di Keita, portando al colpo di stato da parte dei militari. Le uccisioni etniche e gli abusi delle forze armate erano diventati una “caratteristica distintiva” della presidenza di Keita, nonostante migliaia di truppe francesi e internazionali schierate per contenere i problemi di sicurezza nelle regioni del nord.

Dal 2012 il Mali si è infatti trovato ad affrontare una crescente instabilità nel nord del paese dove diversi gruppi armati si contendono il controllo del territorio. Ribelli tuareg, gruppi criminali e terroristici come Jama’at Nusratul Islam wal Muslimin (JNIM – una coalizione di quattro gruppi jihadisti affiliati ad al-Qaeda), avevano spinto le Nazioni Unite prima e poi la Francia ad intervenire militarmente in Mali. Dal 2013, è attiva in Mali la missione MINUSMA della Nazioni Unite, composta da oltre 18.000 unità delle “forze di pace”, di cui 12.000 militari. Mentre nel 2014 ha preso il via la missione militare francese Barkhane, composta da circa 5.000 soldati e volta a contrastare il terrorismo islamico in Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger. Per finire con la task force europea Takuba, a cui prendono pare 14 paesi e composta da 600 militari (di cui 250 italiani ) partita nel 2020 con il compito di assistere le forze armate del Mali nella lotta al terrorismo. La task force europea è stata pensata in parziale sostituzione della missione francese, dato che il presidente Macron aveva annunciato il ridimensionamento di Barkhane. Lo scorso dicembre, infatti, le truppe di Parigi avevano riconsegnato all’esercito maliano tre importanti basi militari nel nord del paese.

Nonostante le numerose operazioni militari, la situazione nel nord del Mali non è affatto migliorata, anzi. Oltre 260 membri di MINUSMA hanno perso la vita in quella che è di fatto diventata una delle missioni delle nazioni unite più pericolose della storia. Anche Parigi ha dovuto pagare un conto altissimo per la missione Barkhane, dato che 53 soldati francesi sono rimasti uccisi. Come al solito il prezzo più alto è stato pero’ pagato dai civili, il conflitto che dal Mali si è allargato anche ai paesi vicini, Burkina Faso e Niger, ha portato oltre due milioni di persone a dover lasciare le proprie case.

L’incapacità da parte delle forze internazionali di riportare stabilità nelle regioni del nord e il crescente numero di attacchi terroristici ha fatto crescere un forte risentimento verso la presenza di militari stranieri da parte della popolazione del Mali. In particolare, è riemerso con vigore un forte astio verso la Francia, l’ex potenza coloniale che aveva controllato il paese dalla fine dell’800 sino all’indipendenza nel 1960. Ma i sentimenti antifrancesi non sono esclusivamente dovuti a questioni storiche, numerose negli anni sono state le denunce sugli abusi commessi dai militari della missione Barkhane. Una recente investigazione delle Nazioni Unite ha infatti stabilito la responsabilità diretta di Parigi per la morte di 19 civili durante un attacco aereo nel gennaio 2021. Questo non è altro che l’ennesimo caso in cui una democrazia occidentale decide di combattere la minaccia terrorista sganciando bombe dal cielo in modo indiscriminato. Evidentemente il fine giustifica i mezzi solo in certe zone del mondo, verrebbe infatti da chiedersi come mai paesi come Francia e Stati Uniti non utilizzino arei militari e droni per neutralizzare i terroristi anche durante i numerosi attacchi avvenuti sul suolo francese o americano.

Senza dubbio la lotta al terrorismo islamico ricopre un interesse strategico per la Francia, che insieme a Inghilterra e Germania, è uno dei paesi europei più colpiti da questo fenomeno. In Mali, e più in generale in Africa, gli interessi francesi non sono però esclusivamente legati al contenimento di tale fenomeno, per Parigi è di interesse strategico anche riuscire a mantenere una sfera di influenza sulle ex colonie del continente. Dalla sua capacità di influenza nello scacchiere africano passa anche il peso internazionale di Parigi, questa è la motivazione principale per la quale dall’Eliseo continuano a considerare le ex colonie come una appendice. Non per nulla, la Francia ha considerato come un affronto la decisione della giunta militare di sopperire al ritiro di parte delle truppe francesi in Mali con i mercenari russi del gruppo Wagner.

Mappa della presenza di basi francesi, basi della missione anti-terrorismo Barkhane (sempre a guida francese) e del gruppo Wagner in Mali [fonte: European Council on Foreign Relations].
L’Africa, che è un continente ricchissimo di risorse naturali, e che storicamente è sempre stato sotto l’influenza americana ed europea, è diventato anche uno degli obbiettivi principali per Cina e Russia. Le due potenze avevano infatti posto il veto a una bozza redatta da Nicolas de Rivière, l’ambasciatore francese alle Nazioni Unite, che esprimeva il sostegno delle Nazioni Unite a ECOWAS in relazione alle sanzioni contro il Mali. Sanzioni che andranno a danneggiare un’economia già vulnerabile, in uno dei paesi più poveri del mondo, e le cui ripercussioni, come spesso accade in questi casi, cadranno sulle spalle della popolazione civile.

[di Enrico Phelipon]

Omicidio ambasciatore Attanasio: due persone arrestate in Congo

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Nella Repubblica democratica del Congo due uomini ieri sono stati arrestati in quanto sospettati di aver ucciso l’ambasciatore italiano Luca Attanasio lo scorso mese di febbraio in una imboscata a nord di Goma, dove hanno perso la vita anche il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista congolese Mustafa Milambo. A riportarlo è l’agenzia di stampa Associated Press, la quale fa sapere che secondo quanto affermato dal generale Aba Van Ang – commissario di polizia nella provincia del Nord Kivu – l’ambasciatore Luca Attanasio sarebbe stato ucciso nel tentativo fallito di rapirlo a scopo di riscatto. L’agenzia, però, comunica altresì che il principale sospettato dell’omicidio dell’ambasciatore, un uomo noto con il nome di Aspirant, sia ancora in fuga.

Lo smaltimento dei rifiuti europei è ancora fondato sul traffico illegale

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Rifiuti in discarica

Per il nuovo anno la Commissione Europea ha messo a punto un piano denominato “Waste Shipment Regulation”, volto a favorire il riciclo dei rifiuti, limitare il traffico illegale di sostanze pericolose e controllare che lo smaltimento dei materiali esportati avvenga secondo legge. La nuova regolamentazione è sufficientemente forte da contrastare un traffico che vale circa 9,5 miliardi di euro all’anno?

Nel 2020 i rifiuti che hanno viaggiato dall’Europa all’estero – e in particolare verso i paesi che non fanno parte dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico – ha toccato il 50% del volume totale di rifiuti esportati, che tradotto significa 33 milioni di tonnellate. Quantità decisamente aumentate se solo si volge lo sguardo indietro a qualche anno fa: +75% rispetto al 2004. Di queste centinaia di chilogrammi la maggior parte è stata destinata ai paesi poveri, spesso non dotati di impianti di trattamento idonei allo smaltimento in sicurezza.

Per l’organizzazione umanitaria European Environmental Bureau “La regolamentazione non renderà più difficile l’esportazione e non garantirà che le risorse preziose contenute nei rifiuti rimangano all’interno della Ue”. Per quale motivo? È vero che la “Waste Shipment Regulation” prevede una migliore sorveglianza e impone alle aziende di rendere conto di come vengono trattati i rifiuti, ma gli interessi economici sono ancora il motore primario e la politica europea non è in grado di offrire una valida alternativa senza per forza obbligare le imprese a dover spendere di più.

Esportare, infatti, spesso significa risparmiare nelle operazioni di gestione e smaltimento rifiuti, che si rivelano più costose rispetto alla possibile alternativa: caricare tutto su una nave e lasciare che se ne occupino altre nazioni. L’esportazione di materiali di scarto “alimenta il luogo comune secondo il quale per sbarazzarsi dei rifiuti basta mandarli ‘altrove’, ma questo ‘altrove’ è un posto reale”, dicono le associazioni ambientaliste. Solo nel 2020 la Turchia ha accolto rifiuti “europei” per un ammontare di 13,7 milioni di tonnellate. A seguire l’India con 2,9 milioni di tonnellate e Regno Unito con 1,8 milioni di tonnellate. Ci sono anche Svizzera, Norvegia, Indonesia e Pakistan, che hanno ricevuto all’incirca tra 1,6 e 1,4 milioni di tonnellate.

Secondo l’European Environmental Bureau, le imprese “hanno interesse nel ridurre i costi di smaltimento ma lo fanno esportando verso Paesi dove gli standard sono molto meno restrittivi con un conseguente danno sociale e ambientale”. Infatti, tenendo sempre il 2020 come anno di riferimento, i materiali più esportati sono stati ferro e acciaio, spediti per 17,4 milioni di tonnellate. Poi carta e cartone con 6,1 milioni e plastica per 2,4 milioni. Un traffico di rifiuti che, oltretutto, spesso avviene tramite canali illegali e in aperta violazione del diritto internazionale, come nel caso dei rifiuti urbani italiani che raggiungevano la Tunisia nascosti in container. Un caso esploso nel novembre 2020 che provocò anche l’arresto del ministro dell’Ambiente tunisino.

Anche quando tutto avviene secondo le norme di legge, esportare altrove non è solo un grosso rischio, ma innanzitutto un’occasione persa per l’Europa stessa. Trasformare gli scarti in risorse e recuperare materiali permetterebbe ai Paesi di ridurre la propria dipendenza dall’estero e significherebbe inoltre ridurre gli effetti sull’ambiente causati dall’estrazione di sempre nuovi materiali.

Il fatto è che non basta adottare nuove politiche, introdurre nuove regole e aspettare che qualcuno le segua alla lettera. Alla base permane il bisogno di dare importanza a quell’educazione civica che insegna a dare valore al rifiuto, che non è per forza da intendere come tale. Da un materiale di “scarto” qualsiasi potrebbero nascere decine di altri nuovi oggetti e strumenti.

[di Gloria Ferrari]

Kazakistan: ultime truppe russe abbandonano il Paese

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Le ultime truppe russe, che erano state inviate in Kazakhstan per fornire aiuto al presidente Kassym-Jomert Tokayev in relazione alle proteste scoppiate nel Paese e sfociate in rivolte di massa con il saccheggio degli edifici governativi in ​​diverse città, sono partite dal Kazakistan alla volta di Mosca. A riportarlo è l’agenzia di stampa russa Tass, la quale sottolinea che le autorità kazake hanno affermato che l’ordine pubblico è stato infatti ripristinato in tutte le regioni del Paese. Il contingente in questione faceva parte di una forza congiunta dei Paesi membri del Trattato di sicurezza collettiva (Csto), il quale comprende oltre che la Russia diverse ex repubbliche sovietiche.

Israele valuta di abbandonare il green pass: non ha logica sanitaria

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In Israele si sta valutando di cancellare il sistema relativo al Green Pass: il ministro delle Finanze, Avigdor Liberman, nelle scorse ore ha infatti comunicato tramite un tweet che non vi sia alcuna «logica medica ed epidemiologica nel Green Pass» e che ciò sia condiviso da «molti esperti». «Quello che c’è, invece, è un impatto diretto sull’economia, sul funzionamento quotidiano (del Paese) e un contributo significativo alla diffusione del panico tra i cittadini», ha precisato il ministro, il quale ha altresì aggiunto di star lavorando «con tutte le parti per eliminare il green pass e preservare una routine di vita normale per tutti».

La notizia è stata riportata anche dal quotidiano israeliano Jerusalem Post, il quale non solo ricorda che tali dichiarazioni sono arrivate in seguito alle affermazioni fatte da Liberman insieme al primo ministro Naftali Bennett e al ministro della Salute Nitzan Horowitz – i quali hanno fatto sapere che più di 25 milioni di test antigenici da fare a casa sarebbero stati distribuiti gratuitamente agli israeliani nei prossimi giorni – ma anche che il sistema attuale relativo al Green Pass prevede che solo le persone vaccinate, guarite o testate il giorno precedente – o 72 ore in determinati casi – possono accedere a determinate attività e luoghi e, in alcuni casi, al loro posto di lavoro. Tuttavia il numero individui che contraggono il virus nonostante siano vaccinati o guariti è salito alle stelle con la variante Omicron, e tale sistema dunque potrebbe essere cancellato.

Ad ogni modo, la sua eventuale abolizione non può essere ancora data per certa: alcuni funzionari ed esperti sanitari tra cui il direttore generale del ministero della Salute Nachman Ash – sottolinea il Jerusalem Post – sostengono infatti che la vaccinazione e la guarigione offrano ancora un certo grado di protezione e che dunque il sistema relativo al Green Pass dovrebbe essere mantenuto in vigore. Nonostante ciò, però, questi ultimi hanno anche riconosciuto che ad un certo punto potrebbe essere necessario riesaminare la questione.

Detto ciò, il ministero della Salute non ha rilasciato dati aggiornati completi sull’andamento della pandemia in Israele dalla scorsa domenica a causa di problemi tecnici, ma ad ogni modo come si può facilmente constatare in Israele nell’ultimo periodo vi sono stati decine di migliaia di casi al giorno. Ad ammettere il diffondersi del contagio è stato lo stesso Ash, il quale ha affermato che «il gran numero di casi verificati e di isolamenti è molto gravoso per l’economia». Proprio per questo sono state adottate «diverse precauzioni che, per quanto implementate, ridurranno i rischi, come l’introduzione di un test necessario per uscire dalla quarantena», del quale fino ad ora non c’era bisogno dato che «il settimo giorno, le persone potevano semplicemente uscire». Insomma, come affermato dal ministro della Salute Nitzan Horowitz il governo si sta impegnando a «fornire tutti gli strumenti per salvaguardare la salute di ogni persona in Israele, oltre a preservare l’economia, l’istruzione e la vita»: in tal senso, stando a quanto dichiarato dal ministro delle Finanze, non è detto che ciò non possa determinare l’abbandono dell’attuale sistema del green pass.

[di Raffaele De Luca]

PeWEC: l’innovativo progetto italiano per ricavare energia dal mare

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L’Italia è sulla buona strada per arrivare a produrre elettricità dalle onde del mare, grazie a un sistema innovativo e a basso costo che si candida per dare energia alle tante piccole isole del Belpaese, dove la fornitura elettrica è garantita da costose e inquinanti centrali a gasolio. L’iniziativa viene portata avanti dall’ENEA e dal Politecnico di Torino che hanno dato vita al progetto Pendulum Wave Energy Converter (PeWEC), un vero e proprio convertitore di onde marine.

L’innovativo strumento è stato testato per la prima volta a Roma nel 2016, oggi viene presentata la versione avanzata del sistema. L’apparecchio è composto da uno scafo galleggiante di forma semicircolare – da posizionare in mare aperto ormeggiandolo sul fondale -, e da un pendolo collegato all’albero di un generatore elettrico. L’oscillazione del pendolo, grazie allo sfruttamento delle onde di piccola altezza e alta frequenza, permetterebbe di produrre elettricità. PeWEC è stato sottoposto a diversi test, tra cui quello atto a verificare la sua prestazione in caso di situazioni critiche, come le tempeste. Un prototipo in scala 1:25 è stato testato presso la Vasca Navale dell’Università Federico II di Napoli, generando artificialmente onde alte ed estreme, e ha dimostrato un’ottima capacità di tenuta e di produzione elettrica. 

Altra caratteristica molto importante di questa tecnologia è la sua economicità. I ricercatori, infatti, non solo hanno sviluppato avanzati codici numerici in previsione della riproducibilità del dispositivo, ma continuano a sperimentare la riduzione dei costi con l’adozione di materiali economici e l’integrazione di pannelli fotovoltaici, anche al fine di rendere il dispositivo competitivo rispetto alle altre tecnologie rinnovabili più mature. Si stima che una decina di PeWEC potrebbe produrre energia elettrica per un paese di 3mila abilitanti. Un dato rilevante, se si considera che in Italia si contano più di 50 isole minori con una popolazione media di circa 2.500 abitanti, un consumo medio pro-capite di 6kWh/g e un costo dell’energia molto elevato. 

L’utilizzo dei “convertitori di onde” nel Mediterraneo, contribuirebbe notevolmente a contrastare l’inquinamento e i fenomeni di erosione, attraverso la riduzione della forza d’impatto delle onde che si infrangono sulla costa. Senza tralasciare il fatto che PeWEC può essere utilizzato non soltanto nella fornitura di energia elettrica per usi domestici o civili, ma anche in campo industriale (ad esempio nell’acquacoltura). Ora ENEA e Politecnico di Torino stanno lavorando alla realizzazione del progetto preliminare del PeWEC in scala 1:1 da installare lungo le coste “più movimentate” del Mediterraneo, come ad esempio quella occidentale della Sardegna e il Canale di Sicilia. Il dispositivo da 525kW sarà lungo 15 metri, largo 23 e alto 7,5, per un peso di oltre 1.000 tonnellate.

[di Eugenia Greco]

Calabria: ordinanza Occhiuto, niente super green pass per attraversare Stretto

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Il presidente della Regione Calabria Roberto Occhiuto, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Ansa, ha firmato un’ordinanza riguardante la possibilità di utilizzare i mezzi di trasporto pubblico e collegamento marittimo tra Calabria e Sicilia anche con il semplice green pass base, ottenibile tramite l’avvenuta guarigione, la vaccinazione o con un tampone negativo. I non vaccinati, durante la traversata, dovranno però non scendere dai rispettivi veicoli, mentre i pedoni dovranno stazionare negli spazi comuni aperti delle imbarcazioni mantenendo il distanziamento ed indossando una mascherina FFP2. L’accesso ai locali chiusi, inoltre, resta consentito ai soli possessori della certificazione “rafforzata” o “booster”. Tale ordinanza fa seguito a quella firmata ieri dal presidente della Sicilia Nello Musumeci, con cui è stato stabilito che anche ai passeggeri privi di super green pass possono attraversare lo Stretto con i traghetti.

Europa, le tasse green non valgono per i ricchi: esclusi yacht e grandi navi

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Nel mese di luglio 2021 la Commissione Europea ha pubblicato una serie di proposte per decarbonizzare il settore marittimo, tuttavia «il proposto sistema di tariffazione del carbonio (ETS) e lo standard per combustibili a basse emissioni di gas a effetto serra (FuelEU Maritime) si applicheranno solo alle navi di stazza superiore a 5.000 GT (stazza lorda)», e verranno escluse determinate tipologie di navi come quelle offshore, i pescherecci e gli yacht. È quanto si legge all’interno di un rapporto di Transport & Environment (T&E), secondo cui le «esenzioni arbitrarie minano l’integrità delle leggi navali».

È questa dunque la conclusione a cui si è arrivati tramite il report, nel quale si sottolinea che l’enorme importanza di queste proposte per il futuro del settore marittimo richieda uno sguardo dettagliato sull’impatto delle stesse. Proprio a tal proposito è stato redatto il documento, che basandosi sui dati relativi alle emissioni marittime in Europa nel 2019 ha indagato su quelle derivanti dalle navi inferiori a 5.000 GT e legate ai «segmenti non coperti dal MRV, il regolamento di monitoraggio, rendicontazione e verifica dell’UE». Ebbene, dal report è emerso che l’impatto a livello di emissioni carboniche delle navi esentate non è assolutamente irrilevante: basterà ricordare che «le emissioni totali di CO2 delle navi esentate ammontano a 25,8 Mt», un dato «paragonabile a quello delle emissioni totali di CO2 della Danimarca nel 2020, ossia 26,2 Mt». Nello specifico, poi, le navi inferiori a 5.000 GT «costituiscono un totale di 19,7 MtCO2» mentre «16,1 MtCO2» derivano dalle «navi di tutte le dimensioni nei segmenti non coperti dall’MRV», tra cui le navi offshore e gli yacht.

Alla luce di ciò, Transport & Environment raccomanda ai responsabili politici dell’UE di «modificare la soglia in tutte le proposte relative al trasporto marittimo a 400 GT» e di mettere fine alle esenzioni per determinati tipi di navi quali yacht e quelle per la pesca. I responsabili politici dovrebbero però porre fine alle esenzioni «soprattutto per le navi offshore», la cui esenzione risulta essere «sorprendente data l’alta media di emissioni per nave». Infine, un’altra ipotesi che essi potrebbero prendere in considerazione sarebbe quella di introdurre una «soglia di carbonio per cui le navi di stazza superiore a 400 GT sarebbero obbligate a rispettare l’ETS dell’UE solo se fossero responsabili di più di 1.000 tCO2 (il contenuto totale di anidride carbonica) nel MRV dell’anno precedente», così da «ridurre ulteriormente gli oneri amministrativi su navi che non operano molto ogni anno».

In maniera certamente non velata viene infine criticata la Commissione Europea, che ha motivato la scelta della soglia dimensionale sostenendo che sa da un lato «esonererebbe il 45% delle navi che operano in Europa», dall’altro ciò riguarderebbe «solo il 10% delle emissioni». Un dato a quanto pare non corretto in base a ciò che emerge dal report, in quanto esso «ha rilevato che le esenzioni totali inferiori a 5.000 GT equivalgono al 15% del totale delle emissioni di tutte le navi, con emissioni totali esentate pari a quasi il 20% del totale delle emissioni marittime».

[di Raffaele De Luca]