giovedì 25 Aprile 2024

Il massacro della Diaz 20 anni dopo: intervista al magistrato che condusse le indagini

La notte del 21 luglio 2001 i reparti mobili della polizia di stato facevano irruzione all’interno della scuola Diaz di Genova, dove centinaia di cittadini dormivano dopo aver preso parte alle manifestazioni contro il G8. Fu quella che un vicequestore di polizia definì la “macelleria messicana”. I manifestanti, a mani alzate, furono pestati dagli agenti. In 61 finirono in ospedale, tre dei quali in prognosi riservata e uno in coma. Per coprire gli abusi e giustificare l’irruzione la polizia si impegnò a produrre diverse prove false. Tra le più smaccate due bombe molotov che vennero introdotte nella scuola dagli stessi agenti per incolpare i manifestanti di essere armati, e la giacca auto-lacerata da un agente di polizia nel tentativo di inscenare un falso accoltellamento. La verità è che i manifestanti erano del tutto disarmati.

Finirono sotto accusa 125 poliziotti, compresi dirigenti e capisquadra. Tra i Pubblici Ministeri che condussero le indagini e la pubblica accusa contro le forze dell’ordine implicate nei fatti c’era Enrico Zucca. Lo abbiamo raggiunto per una lunga chiacchierata, non solo per fare il punto sui fatti di Genova 20 anni dopo, ma soprattutto per provare a capire se l’Italia nel frattempo ha fatto passi avanti per impedire che fatti del genere possano nuovamente succedere.

Cosa è successo al G8 di Genova e perché è ancora importante parlarne?

Ne parliamo ancora perché rappresenta ed evoca abusi di polizia non ancora sanati. La cui entità è stata sintetizzata da Amnesty International con la definizione di “più grave violazione dei diritti umani in una democrazia occidentale nel dopoguerra”. Una sospensione del diritto con la quale non si è ancora fatto i conti. Sotto la lente giudiziaria sono passati i fatti più gravi, come l’irruzione nella scuola Diaz e le violenze contro i fermati nella caserma di Bolzaneto, ma questi furono una piccola porzione delle violenze commesse dalle forze dell’ordine in quei giorni. Per esempio ci sono stati casi sconcertanti di violenze in ospedale, con pazienti oggetto di abusi mentre si trovavano ricoverati per aver già ricevuto violenza. Fatti che non sono mai stati oggetto di procedimenti penali.

Abbiamo poi un’altra faccia della devianza delle forze di polizia, ovvero la dimostrata capacità di falsificare le prove, emersa in modo evidente nel “caso Diaz”, con la Corte di Cassazione che ha sancito in sentenza definitiva che l’irruzione fu caratterizzata non solo dalla “violenza inusitata” esercitata dai poliziotti, ma anche dalla “scellerata operazione mistificatoria”, in quanto la polizia cercò di coprire abusi anche in modo grottesco, come nel caso delle bombe molotov portate all’interno della struttura da agenti per giustificare l’irruzione.

Si trattò quindi di violenze diffuse, non di atti causati da “mele marce” come spesso si dice?

A Genova vi fu una situazione dove la classica giustificazione delle poche mele marce all’interno di un corpo sano non regge in modo evidente. Perché vi furono violenze vaste e generalizzate, e perché è provato che questa degenerazione abbia coinvolto anche i vertici delle forze dell’ordine, sia durante il compimento degli atti violenti, sia nel successivo tentativo di coprire gli abusi.

La Corte Europea ha stabilito che la polizia ha “impunemente rifiutato di collaborare all’accertamento della verità”, parole che sembrano stabilire come si sia trattato di atteggiamenti che hanno riguardato il corpo di polizia nella sua complessità, corretto?

Questo è ulteriore elemento inquietante. Non solo si sono commessi abusi, ma le istituzione dello Stato non sono riuscite a rimediare all’abuso. La tenuta di un sistema democratico si dimostra non solo dalle volte in cui si commettono errori ma, forse soprattutto, anche dalla capacità di rimediare. Quella della Corte Europea che lei ha citato è una frase durissima, considerando il misurato linguaggio istituzionale. La parola “impunemente” assume particolare importanza: significa che non vi è stata alcuna reazione istituzionale non solo all’abuso ma anche ai tentativi di copertura dell’abuso stesso. E questa copertura degli abusi è durata per anni. La Corte si pronunciò sul complessivo percorso processuale, osservando quindi questo atteggiamento reiterato durante tutto il periodo dei processi. Al di fuori dei fatti in oggetto la domanda che credo sia interessante porsi è: quanto basta perché in Italia si abbandoni lo stato di diritto? Genova ha dimostrato che serve poco. In Italia non si sono verificati né allora né dopo attentati terroristici rilevanti come in altri paesi: come avremmo reagito ad atti così drammatici se abbiamo buttato nella spazzatura le nostre regole perché alcuni cassonetti sono stati incendiati e qualche vetrina è stata distrutta?

Esiste secondo lei una ragione profonda per la quale questi abusi sono accaduti in Italia e non altrove?

Studi e analisi sulle azioni dei corpi di polizia nei contesti democratici hanno dimostrato che dalla fine degli anni ’90 si è accentuato un processo di militarizzazione delle forze dell’ordine. Dapprima attraverso il rifornimento tecnologico, quando negli Usa e poi in Europa si è iniziato a dotare le forze di polizia del materiale dismesso dall’esercito, mostrando una polizia sempre più equipaggiata ed armata nei contesti urbani e di protesta. Tutta la tradizione di mediazione e contrattazione durante le proteste è stata messa da parte, certo facilitata da un’epoca in cui i cortei sono meno organizzati e privi di servizi d’ordine. La strategia dell’ordine pubblico consiste sempre meno nel contenimento. Si passa facilmente alla repressione, che dovrebbe essere guidata dalla proporzionalità della risposta, ma a Genova la risposta non fu solo sproporzionata, vi fu una violenza esercitata a freddo, infierendo sulle persone già rese inoffensive. Come altro possiamo leggere i calci e le manganellate alle persone già a terra e magari già ferite se non con la ritorsione? Tuttavia non credo che esista un problema strutturale nella polizia e nella gestione dell’ordine in Italia, credo sia un problema generale.

Non crede esista quindi un problema specifico nella polizia italiana?

Se è vero, come dicevo, che si tratta di una tendenza generale, è vero altrettanto che altre nazioni europee, coinvolte anche in atti più gravi, non hanno risposto in modo analogo. Questa è una riflessione da fare. Per esempio durante le rivolte nelle banlieue francesi, vi sono state violenze molto maggiori e prolungate da parte dei manifestanti, ma la risposta della polizia francese non è stata caratterizzata da un’altrettanto smaccata sospensione del diritto. Allo stesso modo, sempre in Francia, se si fosse reagito come in Italia alle più recenti proteste dei gillet gialli, vi dovrebbero essere le carceri piene di manifestanti, ma non è così. Quindi, quello che possiamo certamente dire, è che in Italia vi è una mancata attitudine da parte delle istituzioni nel saper gestire le tensioni sociali e di piazza. In Italia la repressione giudiziaria dei fenomeni di piazza è sproporzionata, attraverso l’applicazione del reato di “devastazione e saccheggio”, un articolo di legge concepito in epoca fascista e tornato prepotentemente in uso da parte della magistratura negli ultimi anni. Per il reato di devastazione e saccheggio il legislatore fascista aveva previsto pene da 8 a 15 anni, che sono state addirittura aumentate con i recenti decreti e sicurezza (portate da 12 a 20 anni se le violenze avvengono in occasione di manifestazioni, ndr). In Europa fatti come questi sono puniti con pene molto inferiori.

Tra l’altro il reato di devastazione e saccheggio viene imputato in modo sempre più frequente, anche ad esempio contro chi protesta contro il Tav in Val di Susa…

Si, altra dimostrazione di come per governare le tensioni sociali si stiano alzando i livelli di repressione utilizzando dispositivi di legge che in qualche modo sarebbero stati pensati per contrastare il terrorismo e che permettono di utilizzare anche strumenti investigativi particolarmente aggressivi nonché l’applicazione di misure cautelari in maniera molto estesa.

Quindi Genova, in questo contesto appena descritto, più che una parentesi sembra rappresentare uno spartiacque…

A Genova si è verificato un cortocircuito perverso in cui lo Stato, che contestava ai manifestanti di non rispettare le regole democratiche, le ha violate a sua volta. Ma la violazione delle regole da parte dello Stato, si badi bene, è molto più grave. L’abuso del pubblico ufficiale rappresenta di gran lunga un rischio maggiore per la tenuta delle istituzioni democratiche. Nessuna situazione consente alla polizia di violare i diritti umani, nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo è chiarissimo questo: i diritti umani devono essere garantiti a tutti e in ogni situazione, anche in caso di guerra, anche nei confronti del terrorismo, della criminalità organizzata e in ogni altra situazione. Tutte le istituzioni in Occidente devono fare i conti con l’allontanamento da questi principi. Si sta imponendo, in un certo senso anche sui media e nell’opinione pubblica, l’idea che i diritti umani occorra meritarseli. Un’idea del genere è la negazione stessa dei principi democratici.

Tornando ai fatti del 2001, è stata correttamente individuata la catena di comando delle violenze?

La catena di comando è stata individuata, faceva capo alla sala operativa centrale della Questura e la linea è stata indicata dall’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. È emerso chiaramente nel processo: dopo il primo giorno di manifestazioni arrivò una direttiva del capo della polizia che dava mandato agli agenti di reagire alle violenze e agli episodi che avrebbero potuto mettere in crisi l’immagine della polizia, che era stata dipinta come inerte di fronte alle manifestazioni. E l’indicazione venne rafforzata con l’invio a Genova del prefetto Arnaldo La Barbera, proprio con il mandato di coordinare un cambio di passo negli ultimi giorni del vertice. È accertato che l’irruzione alla scuola Diaz venne pianificata, non fu un’iniziativa estemporanea. Sul campo c’erano il numero due e il numero tre della polizia italiana. La linea di comando era presente sul campo. Va detto anche che, chiaramente, la polizia ha agito in un clima politico che gli ha fatto percepire chiara l’impunità degli atti che si sarebbero decisi e compiuti sui manifestanti. Anche sulle coperture nelle indagini la linea di comando è evidente. Nulla venne fatto per libera iniziativa di qualche agente esagitato. Le molotov portate dagli agenti presso la scuola Diaz per giustificare a posteriori l’irruzione vennero portate da un agente e consegnate nelle mani dei vertici del corpo di polizia.

Molti agenti condannati non solo non sono stati destituiti, ma spesso hanno ricevuto negli anni successivi delle promozioni, come è potuto accadere?

Questa è un’altra condotta contro le convenzioni. Lo ha stabilito la Corte Europea nella condanna verso lo stato italiano. Non solo, la stessa Corte Europea sta ancora aspettando che il governo italiano risponda alla richiesta di informazioni sulla sorte disciplinare degli agenti condannati. Su questo punto il governo non ha mai risposto e continua a non rispondere al comitato dei ministri del Consiglio di Europa che è l’organo deputato a monitorare l’esecuzione delle sentenze di condanna della corte europea. Noi dovremmo sapere la sorte di tutti gli agenti condannati, ma non l’abbiamo mai saputo. Ci sono solo scoop giornalistici su singoli casi di promozioni, ma non abbiamo il quadro.

Dal governo Berlusconi II in carica ai tempi di Genova si sono succeduti altri 10 governi, eppure l’impressione è che nessuno di questi abbia mostrato neanche la minima volontà di riaprire il capitolo e fare chiarezza, corretto?

È così, il capitolo viene considerato chiuso. Per riaprirlo servirebbe accettare di dire la verità. Bisognerebbe dire, ad esempio, che l’agente condannato per falso per essersi lacerato da solo il giubbotto allo scopo di mettere in scena un falso accoltellamento da parte di un manifestante presente alla Diaz, ha ricevuto sul piano disciplinare niente di più che 49 euro di multa. Senza neppure che gli sia stata applicata la ridicola sanzione di un mese di sospensione dal servizio che era stata proposta dal consiglio di disciplina. Dire la verità significherebbe andare a raccontare queste cose alla Corte Europea.

Dietro la mancata destituzione degli agenti condannati vi è stata una scelta consapevole, si sono preparati i procedimenti in modo che non potessero andare in quella direzione. I funzionari condannati in sede penale per atti giudicati volontari, di fronte ai collegi disciplinari si sono visti contestare solo atti colposi, ovvero compiuti per semplice negligenza. Questo è stato il frutto di una lucida discrezionalità. Infatti, secondo le norme della polizia, per fatti colposi non si può ottenere la destituzione. Gli agenti condannati hanno subito quindi solo la sospensione, come pena accessoria alla condanna penale, al termine della quale sono stati riassorbiti all’interno della polizia come se niente fosse accaduto. Nessuno ha mai spiegato come e per quale ragione è stata utilizzata questa discrezionalità.

In un contesto analogo violenze come quelle di Genova 2001 potrebbero accadere ancora?

Non vedo perché no. Nulla è stato fatto per rendere quantomeno più difficili nuove situazioni analoghe. Non vi è stato alcun processo di elaborazione, riflessione e accertamento dei fatti né a livello politico, né tra le istituzioni di polizia.

L’introduzione del reato di tortura non servirà a perseguire nuovi eventuali fatti analoghi e quindi, magari, come deterrente contro certi abusi?

Fosse stato in vigore ai tempi di Genova non sarebbe comunque stato decisivo. Il reato di tortura nella versione approvata in Italia è certamente inutile in casi come quello dell’irruzione alla scuola Diaz, in quanto la contestazione della tortura è prevista solo su persone “private della libertà personale” e solo nel caso in cui i fatti siano commessi mediante “più condotte”. Ed anche per le violenze contro i manifestanti che si trovavano in stato di fermo presso la caserma di Bolzaneto non si può essere certi che sarebbe stato accolto in fase processuale. In ogni caso le pene previste per il reato di tortura sono inferiori a quelle per i reati di “devastazione e saccheggio”. Questo rende l’idea di come sia stato intavolato il reato: per la legge è più grave il comportamento di un manifestante che dà fuoco a un cassonetto rispetto a quello di un pubblico ufficiale che tortura un cittadino.

Introdurre il codice identificativo per le forze dell’ordine potrebbe servire?

In alcuni casi specifici potrebbe servire a ricondurre delle responsabilità che spesso rimangono anonime. Tuttavia non sono mancati casi, nei paesi dove questo è presente, in cui sia stato abraso o manomesso. Inoltre analisi sul campo dimostrano che gli agenti, anche una volta dotati di codice identificativo e/o di telecamera corporale, in verità non modificano il loro comportamento, che evidentemente è determinato dalla formazione anche ideologica ricevuta nei corpi di polizia. Certo una introduzione del codice identificativo sarebbe comunque un segnale, e il fatto che in Italia le forze dell’ordine si siano strenuamente opposte alla sua introduzione rende l’idea di quanta strada ci sia ancora da fare per una completa democratizzazione delle forze dell’ordine.

[di Andrea Legni]

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