giovedì 25 Aprile 2024

La Corte Federale americana ha incriminato Donald Trump

Donald Trump è il primo ex presidente nella storia degli Stati Uniti ad essere stato incriminato per reati federali, in seguito al ritrovamento di documenti segreti detenuti illegalmente presso la sua residenza di Mar-a-Lago in Florida. Jack Smith, il procuratore speciale nominato dal segretario alla Giustizia Merrick Garland, dopo un’indagine di quasi un anno, ha messo in stato di accusa il tycoon, contestandogli sette capi d’accusa, tra cui appropriazione indebita di carte appartenenti allo Stato, falsa testimonianza e cospirazione per ostacolare la giustizia. L’incriminazione è stata presentata nel Distretto Federale di Miami, dove Trump si presenterà ai giudici martedì. L’ex presidente ha subito fatto sapere che farà ricorso contro quella che ritiene una mossa premeditata per sabotarlo alle elezioni del 2024, screditandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Ha parlato, infatti, di «caccia alle streghe politica», rinfacciando alla «corrotta amministrazione Biden» di usare il suo potere per sconfiggere un candidato avversario. «Io sono un uomo innocente», ha scritto sulla sua piattaforma social Truth.

Tuttora, dopo circa due anni dall’inizio della vicenda, sono quasi sconosciuti i contenuti dei documenti trafugati dall’imprenditore milionario e diverse congetture sono state fatte circa i motivi che lo hanno spinto a portare via quelle carte dalla Casa Bianca. Il tutto ha inizio nel 2021 quando, alla fine del suo mandato, l’ex presidente, invece, di consegnare i documenti agli Archivi di Stato, li aveva portati nella sua residenza in Florida. Alla richiesta degli Archivi di restituirli, il tycoon aveva opposto resistenza per circa un anno, cedendo infine nel gennaio 2022. Successivamente, però, si è scoperto che Trump aveva restituito solo una parte dei faldoni e così nell’agosto del 2022, gli agenti dell’FBI hanno perquisito la residenza trovando documenti sensibili. Tra le carte trafugate sono trapelate le lettere con il capo nordcoreano Kim Yong Un, i rapporti su alcuni leader internazionali, oltre a dei report sulle difese nucleari di una nazione estera. Tra i motivi che hanno spinto l’ex capo della Casa Bianca a non riconsegnare le carte quello più accreditato, soprattutto tra i suoi sostenitori, è di voler proteggere quei documenti dalle grinfie della nuova amministrazione. Conterrebbero, infatti, importanti prove che attestano l’esistenza di un “Deep State” che ha lavorato per defenestrare politicamente Trump, anche e soprattutto attraverso la vicenda del Russiagate. Materiale di cui Biden potrebbe volersi disfare se finisse nelle sue mani. I suoi detrattori, invece, sostengono che si tratti di un favore agli “amici autoritari” che metterebbe a repentaglio la sicurezza nazionale. In ogni caso, si tratta di una vicenda sui cui è difficile fare piena luce visti gli scarsi elementi a disposizione: anche l’affidavit reso pubblico dal governo per garantire maggiore trasparenza all’operazione di perquisizione, infatti, risulta pesantemente censurato.

Sul piano meramente politico, in difesa dell’ex presidente americano gioca la tempistica con cui sono avvenuti i fatti, specie se si considera che l’attuale presidente americano, Joe Biden, è stato accusato dello stesso reato: lo scorso gennaio, infatti, sono stati ritrovati documenti segreti in due suoi ex uffici. Il primo blocco di documenti era stato scoperto il 2 novembre, ma la notizia era stata divulgata solo dopo le elezioni di metà mandato per evitare imbarazzi alla Casa Bianca e per evitare di influenzare negativamente l’elettorato. Al contrario, la perquisizione dell’FBI nella residenza di Trump – avvenuta nell’agosto 2022 – è avvenuta proprio durante la campagna elettorale in vista del voto di metà mandato di novembre e l’attuale incriminazione arriva a ridosso della corsa per le presidenziali del 2024. Il dubbio, dunque, che si tratti di una mossa per infangare l’avversario politico non può essere trascurato. Inoltre, la risonanza mediatica della notizia di documenti classificati in possesso di Biden è stata scarsa o nulla se paragonata all’attenzione data ai fatti che coinvolgono Trump. Lo speaker repubblicano della Camera, Kevin McCarthy, ha bollato come «grave ingiustizia» l’incriminazione aggiungendo che «è inconcepibile per un presidente incriminare un candidato che lo sfida». Si tratta, infatti, di un altro fatto inedito nella storia politica americana.

I detrattori di Trump, d’altro canto, per smarcarsi dalle accuse, sottolineano che il procuratore speciale scelto per gestire l’inchiesta è un magistrato di carriera indipendente, mai stato candidato ad elezioni di alcun genere. Tuttavia, la cerchia di magistrati e funzionari che hanno deciso di dare il via all’indagine e che sorvegliano o dirigono strettamente la situazione da dietro le quinte potrebbe non essere altrettanto indipendente. In ogni caso, l’incriminazione del controverso imprenditore rischia di creare ancora più consenso presso il suo elettorato, particolarmente incline ad individuare in un oscuro “deep state” progressista il peggior nemico degli Stati Uniti e del mondo e a considerare quindi le vicende giudiziarie del tycoon come un modo per sbarazzarsi di un ingombrante ostacolo politico per la realizzazione delle politiche “globaliste”, come già era accaduto con i due processi di impeachment a suo carico, dai quali era stato assolto. La figura di Trump potrebbe così addirittura guadagnare punti per le prossime presidenziali, considerato che la Costituzione americana non vieta a una persona imputata o condannata di candidarsi alla presidenza.

[di Giorgia Audiello]

 

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