martedì 1 Luglio 2025
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Spagna, le aziende private cercano di insabbiare le loro responsabilità nel blackout

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BARCELLONA – Dopo il blackout senza precedenti che ha interessato l’intera penisola iberica e alcune zone del sud della Francia, la situazione è rientrata quasi completamente. Ritirato lo stato d’emergenza, la circolazione dei treni a lunga e media distanza gestita dall’azienda nazionale RENFE è ripartita con regolarità, mentre i convogli ferroviari di breve distanza, come Rodalies in Catalogna, continuano a soffrire di vari disservizi. Mentre il governo spagnolo cerca ancora una risposta a una delle più gravi crisi mai verificatesi nel Paese, le aziende responsabili della distribuzione dell’energia elettrica non starebbero collaborando per aiutare a far luce sulle cause.

Nei giorni scorsi, Sánchez ha annunciato la creazione di una commissione d’investigazione gestita direttamente dalla ministra della Transizione Ecologica Sara Aagesen, mentre la Commissione Europea sta realizzando un report indipendente per fare luce sulla situazione. Non si scarta alcun tipo di ipotesi e a tal riguardo il tribunale della Audiencia Nacional e l’Istituto Nazionale di Cybersicurezza (INCIBE) hanno aperto un’indagine per escludere ufficialmente l’eventualità del cyber attacco.

In tale contesto, i media locali riferiscono come la Moncloa abbia denunciato la scarsa collaborazione delle aziende che gestiscono la produzione e la gestione della rete elettrica nazionale. Leader del settore è l’azienda privata Red Eléctrica, della quale solo il 20% delle azioni sono di proprietà statale, contro un 80% composto da capitale flottante. Nonostante a capo vi sia Beatriz Corredor, ex ministra de la vivienda durante il secondo mandato socialista di José Luis Zapatero e vicina a Pedro Sánchez, la compagnia elettrica sembra mantenere ancora grande riserbo sulle informazioni su quanto accaduto lunedì, tanto da negare ai tecnici del Governo l’accesso ai dati necessari alle indagini.

Questa situazione di impasse mette benzina sul fuoco della politica. Ogni partito dell’arco parlamentare si è ormai pronunciato sulla questione. Il Partito Popolare ha sfruttato l’occasione per scoraggiare l’impegno del Governo sullo sviluppo delle centrali di energia rinnovabile e fare propaganda sull’utilizzo del nucleare. Santiago Abascal, leader del partito di estrema destra VOX, ha attaccato direttamente il presidente del Governo, accusandolo di celare le origini del blackout e chiedendo le sue dimissioni. A sinistra, invece, la totalità dei partiti, con maggiore o minore veemenza, reclama a gran voce la nazionalizzazione delle imprese elettriche, puntando il dito proprio contro la privatizzazione del sistema e la protezione degli interessi economici ai danni dei servizi alla cittadinanza.

Secondo l’opinione di esperti come il fisico e matematico Antonio Turiel, a causare il problema è infatti stata l’avarizia dei gruppi privati, che hanno preferito ritardare gli investimenti nella stabilizzazione della rete fotovoltaica a causa di un prezzo dell’elettricità attualmente troppo basso per riuscire a rientrare nella spesa investita. Nonostante queste operazioni siano di vitale importanza per la sicurezza della rete, la legge impone che solo gli impianti installati dal 2022 necessitino obbligatoriamente dei sistemi di stabilizzazione, ma la gran parte di quelli attivi nel Paese risalgono ad epoche precedenti. L’oligopolio energetico, composto da solo cinque aziende (Endesa, proprietà dell’italiana ENEL, Iberdrola, Naturgy, Repsol y Acciona), trova protezione tra i banchi del Congresso spagnolo e salva così capra e cavoli, da un lato beneficiando solo nel 2024 di undici miliardi di euro complessivi e, dall’altro, restando esenti da tassazioni aggiuntive, grazie al voto di partiti come il Partito Nazionalista Basco, il Partito Socialista e il Partito Popolare. Il panorama mediatico del Paese, posseduto in gran parte dalle stesse aziende, ha così il compito di spazzare la polvere sotto il tappeto e sceglie coscientemente di fare luce sulle origini tecniche del blackout e intanto celare le responsabilità sociali di chi sta alla base di un sistema fallace. Gli stessi che firmano la busta paga a chi si occupa di informazione. A soffiare sull’incendio della disinformazione, oltre ai social network (che hanno raccolto le teorie più disparate diffuse dagli ormai noti influencer di estrema destra), la stessa stampa generalista non ha perso l’occasione per parlare, senza fonti accertate, di complotto ordito da Sánchez o delle presunte responsabilità russe.

Mentre vari giornali (anche italiani) raccolgono affannosamente le testimonianze di chi ha vissuto un idilliaco esempio di slow life, occultando i disagi di tutte quelle persone che vivono in una condizione di grave precarietà lavorativa (come i riders) o di chi ha patito l’assenza di servizi per rispondere ad esigenze sanitarie di vitale importanza, Sánchez è stato chiamato a rispondere per il 7 maggio prossimo davanti al Congresso dei ministri su quanto successo lunedì e sul controverso piano di riarmo. In uno scenario di quiete prima della tempesta, il Governo ha meno di una settimana di tempo per fare luce sui vari interrogativi ancora irrisolti.

L’Opec+ aumenta la produzione di petrolio a giugno

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L’Opec+ ha stabilito un nuovo aumento della produzione di petrolio per giugno, con l’aggiunta di 411mila barili al giorno, proseguendo l’accelerazione già avviata a maggio. Secondo fonti di Bloomberg, la decisione riflette specifiche strategie di alcuni Paesi chiave che guidano il gruppo, in particolare Arabia Saudita e Russia, che gestiscono la produzione e incidono fortemente sugli equilibri del mercato. Tale trend costituisce una drastica inversione di tendenza rispetto alla posizione di lunga data del cartello, che sosteneva di voler difendere i prezzi del petrolio.

 

 

Raid dei paramilitari sudanesi vicino al confine con l’Eritrea

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Un drone dei paramilitari sudanesi ha preso di mira una città di confine vicino all’Eritrea. Lo hanno reso noto fonti governative sudanesi. Nello specifico, i paramilitari sudanesi avrebbero effettuato un raid attraverso l’utilizzo di un drone sulla città orientale di Cassala, come dichiarato una fonte dell’esercito governativo rivale, che ha sottolineato all’Afp che il drone ha «preso di mira l’area di stoccaggio del carburante all’aeroporto di Cassala», attribuendo la responsabilità dell’attacco alle Forze di Supporto Rapido paramilitari. Al momento, le autorità non hanno segnalato vittime.

“Il seminatore”, una poesia di Humberto Ak’abal (1998)

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Muore la sera ingoiandosi
l’ultimo sguardo del giorno.

Il seminatore
appende la sua bisaccia di speranze
al corno di cervo
che ha inchiodato alla parete.
Si siede a sognare, a seminare
sogni nel sogno.

A guardare nell’oscurità
le sue illusioni.

E se ne va volando, volando
come un clarinero,
o come il canto di un tulul.

Si sveglia.
La notte se n’è andata.

Si rimette in spalla la sua bisaccia.

Il poeta è guatemalteco, di etnia quiché come Rigoberta Menchú, appartiene alla tradizione maya. E Rigoberta, premio Nobel per la Pace, 1992, così descrive la semina come una cerimonia nella sua comunità. «È questa una festa speciale, in cui vengono evocati anche la terra, la luna, il sole, gli animali che devono contribuire tutti, assieme alla semente, a darci da mangiare. I membri della famiglia recitano delle preghiere e promettono che non sprecheranno questo cibo. Poi, il giorno successivo, tutti quanti si dan la voce per andare a seminare» (E. Burgos, Mi chiamo Rigoberta Menchú, Giunti 1987, pp. 67-69).

Una volta seminato il mais, i fagioli e le patate, bisogna sorvegliare ogni notte che gli scoiattoli e gli altri animali selvatici non vengano a portarsi via i semi.

Ecco dunque che la notte, come scrive il poeta, è il tempo del sogno di un grande raccolto, perché, come scrive Rigoberta, il mais è il centro di tutto, «è la nostra cultura». E il mais, che è coltura e cultura, va sorvegliato sempre: anche quando spuntano le prime foglie, che sono oggetto, di altri gesti rituali, bisogna stare attenti perché gli uccelli non mangino le gemme.

Anche la poesia è un gesto rituale. I contadini maya chiedono alla terra il permesso di coltivare, di sfruttarla, così da potersi mantenere in vita, e il poeta, dal canto suo, si incarica di mantenere in vita i sogni suoi e le tradizioni millenarie del suo popolo: «Anche i sentieri ci insegnano qualcosa. Un sentiero vecchio resta per sempre un sentiero, che riassume in sé tutta la storia di coloro che vi sono transitati», scrive Rigoberta in un altro suo libro, dove impietosamente rileva che «le Nazioni Unite dovrebbero essere l’organismo di elezione per risolvere i problemi. Ma il fatto è che le vittime hanno non poche difficoltà ad accedervi» (Rigoberta, i Maya e il mondo, Giunti 1997, p.207 e 209).

Così il sogno di un poeta e di una scrittrice ambasciatrice di pace diventa il sogno di un popolo, quel popolo sterminato dagli squadroni della morte e che, nonostante questi orrori, continua a credere che l’intero universo non vada violato e che nessuno possa «comprare e vendere l’aria, la vita, e che questo non si possa fare con moltissime altre cose».

In Italia il giornalismo non se la passa bene

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Come ogni anno, nella giornata della libertà di stampa arriva puntuale la classifica mondiale di Reporter Sans Frontieres (Reporter Senza Frontiere, RSF), che stila la lista dei Paesi in base al grado di tutela della libertà di informazione. Quest’anno, in un generico contesto di peggioramento globale, l’Italia scivola al 49° posto, tra le peggiori in Europa, complice una classe politica che cerca di «ostacolare la libera informazione» con provvedimenti quali la cosiddetta “legge bavaglio” e un gran numero di procedure SLAPP (azioni strategiche volte a reprimere il dibattito pubblico). Seppure questo sia vero, la classifica si sofferma di nuovo su criteri del tutto parziali, incapace di individuare le cause profonde della crisi dell’informazione (basti pensare che quest’anno, come l’anno scorso e quello prima ancora, tra le principali minacce per l’Italia vi sono ancora i no vax).

Il rapporto di RSF cita il fatto che in Italia esiste un «panorama mediatico ben sviluppato», con «un’ampia gamma di media che garantiscono una diversità di opinioni». Una diversità che «si riflette anche nella carta stampata», che «comprende una ventina di quotidiani (Corriere della Sera, La Repubblica, ecc.), una cinquantina di settimanali (L’Espresso, Famiglia Cristiana, ecc.), oltre a numerose riviste e siti web di informazione». Quello che il rapporto non dice, tuttavia, è che si tratta di una diversificazione solo apparente, in quanto la quasi totalità delle testate più diffuse appartiene a una manciata di gruppi editoriali, a loro volta alle dirette dipendenze di un certo numero di aziende. Solo in chiusura, si fa un rapido accenno al fatto che «i media dipendono sempre più dagli introiti pubblicitari e da eventuali sovvenzioni pubbliche».

Peccato che il problema delle sovvenzioni private sia uno dei più grandi ostacoli all’esercizio di un giornalismo che possa chiamarsi tale. Il fenomeno ha raggiunto in Italia picchi tali da portare le stesse redazioni a ribellarsi contro i propri dirigenti. È stato il caso di Repubblica di qualche mese fa, quando lo stesso Comitato di redazione denunciò la pubblicazione, dietro lauto compenso, di contenuti pressochè dettati dalle aziende e spacciati come giornalistici (l’insofferenza verso Molinari da parte dei suoi stessi dipendenti lo portò ad essere poco dopo silurato dalla direzione del giornale). La manipolazione delle notizie a scopi politici è una costante dell’informazione degli ultimi anni, particolarmente evidente quando si parla di guerra in Ucraina o di aggressione militare israeliana a Gaza (dalle bufale sugli attacchi alle sinagoghe alle innumerevoli fake news sull’esercito russo, passando per la distorsione dei sondaggi e, quando non si riesce a fare di meglio, l’omissione vera e propria – ricordiamo un Mentana balbuziente che non riesce a pronunciare le parole “coloni israeliani” in diretta tv?). Il tutto a scapito della deontologia e dell’onestà intellettuale, che dovrebbero essere la base di questa professione.

Un esempio di tutto ciò lo abbiamo fornito nemmeno 12 ore fa: nel pomeriggio del 30 aprile, a seguito degli incendi che si sono propagati intorno alla città di Gerusalemme, la quasi totalità dei quotidiani italiani ha rilanciato la notizia (falsa) secondo la quale Hamas avrebbe incitato i palestinesi a «bruciare tutto». Una lettura diffusa dai media di informazione israeliani e ripresa acriticamente dai nostri quotidiani, che si sono ben guardati dall’esercitare il dovuto lavoro di verifica.

Se è vero, poi, che il governo Meloni ha messo in atto una serie di provvedimenti che limitano la libertà dei giornalisti di esercitare la propria professione (quali la citata “legge bavaglio”), il rapporto RSF non fa alcun riferimento al fatto che l’esecutivo abbia posto il segreto di Stato sul caso Paragon, il software militare israeliano dal quale un numero crescente di giornalisti ed esponenti della società civile hanno denunciato di essere stati spiati. Pur ammettendo l’esistenza di un legame contrattuale tra l’impresa israeliana e lo Stato, il governo ha risposto solamente con mezze verità, decidendo infine di trincerarsi dietro l’assoluto silenzio. La Federazione nazionale della Stampa italiana (Fnsi) e l’Ordine nazionale dei giornalisti hanno entrambe avviato una denuncia contro ignoti presso la Procura di Roma.

Insomma, i problemi che affliggono la stampa italiana sono ben più complessi, strutturali e profondi rispetto a quanto emerge dalla superficiale analisi di RSF, che sembra appellarsi più a problemi di allineamento politico. In fondo, basta osservare come sono distribuiti i colori sulla cartina per farsi venire qualche dubbio: ancora una volta, tutto ciò che non si trova allineato con le posizioni occidentali (quindi tutta la parte orientale della cartina, più Venezuela, Nicaragua, Honduras e, naturalmente, Cuba) è colorato di rosso – salvo qualche piccola eccezione. E il fatto che gran parte delle sovvenzioni all’organizzazione provengano dagli Stati Uniti, da grandi società con interessi e da enti statali potrebbe fornire una spiegazione più che sufficiente.

Siria, raid israeliani su tutto il Paese: morto un civile

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Otre 20 raid dell’esercito israeliano hanno preso di mira stanotte siti militari in tutta la Siria. Lo ha reso noto l’Osservatorio siriano per i diritti umano, che ha parlato degli «attacchi più violenti dall’inizio dell’anno». L’esercito israeliano ha annunciato di avere colpito un’infrastruttura militare. Secondo l’agenzia di stampa ufficiale siriana Sana, un civile è rimasto ucciso negli attacchi. I raid sono avvenuti dopo sanguinosi combattimenti nei pressi di Damasco e nel sud del Paese, al confine con Israele, che hanno coinvolto combattenti della minoranza drusa, supportati da Tel Aviv.

Irlanda, multa da 530 milioni a TikTok

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La Commissione irlandese per la protezione dei dati (DPC) ha annunciato una multa di 530 milioni di euro a TikTok. L’indagine della DPC è stata avviata per «esaminare la liceità dei trasferimenti da parte di TikTok di dati personali», si legge in un comunicato rilasciato dalla stessa Commissione, e intendeva verificare se la fornitura di informazioni agli utenti in relazione a tali soddisfacesse i requisiti di trasparenza previsti dal Paese. TikTok ha dichiarato di rigettare la decisione della Commissione, annunciando un ricorso.

No, Hamas non ha incitato i palestinesi a “bruciare Gerusalemme”

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Il pomeriggio di mercoledì 30 aprile, sulle alture attorno a Gerusalemme si è diffuso un vastissimo incendio che ha interessato un’area di almeno 2.000 ettari e provocato il ferimento di almeno 29 persone. Le fiamme hanno costretto le autorità israeliane a evacuare tre autostrade e oltre 7.000 persone dalle proprie case, a mobilitare 119 squadre di vigili del fuoco e 12 aerei, a dichiarare l’emergenza nazionale e a chiedere il supporto degli alleati internazionali. La notizia non è tardata ad arrivare anche in Italia: Allarme incendi a Gerusalemme. E Hamas chiama la jihad dei roghi: “Bruciate le case, ha titolato il Giornale; Brucia Israele, Hamas minaccia: «Incendiate tutto, boschi e case», l’Avvenire. Insomma, per i giornali italiani è tutto chiaro: Hamas avrebbe incitato i palestinesi a insorgere e bruciare la propria stessa terra, e sfruttato, se non addirittura provocato, lo scoppio dell’incendio per danneggiare Israele. Un’interpretazione, come prevedibile, lanciata e diffusa dai media israeliani, che i nostri giornali hanno preferito prendere per vera piuttosto che esercitare il dovuto lavoro di verifica.

La notizia del presunto appello a «bruciare tutto» di Hamas è stata lanciata dal Jerusalem Post con un articolo uscito alle 16:55 del 30 aprile e aggiornato alle 18:40 dello stesso giorno. Il JP scrive che «mercoledì Hamas ha pubblicato su Telegram un messaggio che incoraggia i palestinesi a “bruciare tutto ciò che possono di boschi, foreste e case dei coloni”». Precedentemente, sostiene il JP, «in un post su Telegram, il canale Telegram della Jenin News Network aveva invitato i palestinesi a “bruciare gli alberi vicino agli insediamenti”». L’appello sarebbe arrivato attraverso una serie di messaggi, un video e una immagine-manifesto entrambi di origine chiaramente grafica. Quest’ultimo dettaglio relativo alla locandina non è stato riportato da nessun quotidiano italiano, neanche da quelli che riprendono l’immagine senza mostrarla ai lettori descrivendola con formule a tratti fuorvianti: è il caso per esempio di Libero e il Tempo, che scrivono – usando le stesse parole – che «nel post è stata anche pubblicata la foto di una persona mascherata che appicca il fuoco a un campo».

Le parole del JP sono state riprese dalla quasi totalità della stampa italiana, nella maggior parte dei casi senza effettuare alcuna verifica. Nel suo articolo, L’Avvenire scrive che il messaggio su Telegram sarebbe comparso «nelle stesse ore in cui sono divampati i primi roghi sulle colline di Gerusalemme». Anche Sky tg24il Corriere della Sera, il Tempo, Libero, e diversi altri spiegano, usando su per giù le stesse parole, che «l’incendio è scoppiato in concomitanza» con un appello di Hamas, mentre il Messaggero e l’Huffington Post sostengono che l’appello sarebbe stato lanciato prima dei roghi: «l’appello di Hamas sui social prima dei roghi», titola il primo; «“Bruciate tutto”. la minaccia è stata seguita», il secondo.

La questione della coincidenza degli orari è stata, nella migliore delle ipotesi, frutto di una libera interpretazione dei redattori che si sono occupati degli articoli. Lo stesso articolo del JP ripreso da quasi tutte le testate italiane, infatti, sottolinea come «gli incendi boschivi sono scoppiati mercoledì mattina sulle colline della Giudea». I post incriminati di Jenin News, tuttavia, sono usciti alle 15:12 (il video) e alle 15:22 (l’immagine), e lo stesso canale riportava la prima notizia sull’incendio alle 10:30. I pochi che hanno notato il problema cronologico hanno comunque dato per certa la notizia del JP e hanno addossato ad Hamas la responsabilità di avere «approfittato» delle fiamme per lanciare gli appelli: Israele, incendi intorno Gerusalemme. Hamas ne approfitta e lancia l’appello: “Bruciate tutto”, titola per esempio La Repubblica.

I vari messaggi di incitamento a bruciare le colline attorno a Gerusalemme provengono dalla stessa Jenin News, che malgrado quanto sostengono alcune testate, come per esempio Today, non è affiliata ad Hamas, e da altri canali di informazione palestinesi anch’essi svincolati dai vari gruppi palestinesi. La foto e il video postati da Jenin News che hanno fatto tanto discutere la stampa italiana, invece, sono stati originariamente diffusi da un canale privato denominato al-Mutarad (traducibile in italiano con Il Fuggitivo) che ha condiviso i file rispettivamente alle 14:07 e alle 14:11. Neanche questo, contrariamente a quanto sostenuto da molti, risulta legato ad Hamas. Sui canali che invece sono realmente gestiti o affiliati alla firma palestinese, non compare alcun appello, e i media del gruppo palestinese si limitano a dare la notizia dell’incendio.

Hamas, insomma, non ha lanciato nessun appello a bruciare Gerusalemme, e la notizia che sarebbe all’origine degli incendi non poggia su alcuna fonte  attendibile. La causa dello scoppio dei roghi risulta infatti ancora ignota. Una fonte di sicurezza israeliana, tuttavia, ha rivelato al quotidiano israeliano Haaretz che a iniziare gli incedi sarebbero stati gli stessi coloni israeliani. Questa notizia non è verificabile, ma va sottolineato che, se fosse vera, non costituirebbe il primo episodio in cui i cittadini israeliani danno fuoco ai campi palestinesi. Articoli e inchieste giornalistici, rapporti di ONG, studi di movimenti, monografie specializzate, bollettini di istituzioni internazionali, e numerose altre analisi testimoniano infatti che una delle pratiche coloniali comuni in Palestina è proprio quella di dare fuoco ai campi dei palestinesi per espropriare i terreni alla popolazione araba e trapiantarvi flora non autoctona. Lo stesso Jewish National Fund (JNF), che possiede circa il 13% di tutto il territorio israeliano e si occupa della flora locale, ammette che alcuni degli alberi piantati dall’organizzazione non sono autoctoni. Questi, tra l’altro, sono particolarmente sensibili ai climi caldi della Palestina, fattore che li rende soggetti al rischio di incendi.

Ucraina: l’accordo con Trump sulle terre rare torna ad alimentare il conflitto

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Dopo mesi di trattative, l’Ucraina e gli Stati Uniti hanno siglato il cosiddetto accordo sulle terre rare che, oltre a risarcire Washington per gli aiuti finanziari forniti finora a Kiev, cambia radicalmente il modo di gestire il conflitto da parte dell’amministrazione Trump. Se finora, infatti, il presidente statunitense aveva sospeso gli aiuti militari all’Ucraina per dare più spazio alle trattative diplomatiche tra Kiev e Mosca, lo stesso giorno della firma dell’intesa, il capo della Casa Bianca ha dichiarato al Congresso di voler autorizzare l’esportazione di prodotti per la difesa all’ex Paese sovietico attraverso vendite commerciali dirette di 50 milioni di dollari o più, come riferito dal Kiev Post. Dopo lo stallo delle trattative con la Russia e le difficoltà incontrate per conciliare le posizioni dei due Stati belligeranti, riprendono così le forniture d’armi a Kiev, non più sotto la forma degli aiuti, bensì in cambio dell’utilizzo di risorse minerarie. Ciò significa che Washington di fatto torna ad alimentare il conflitto che Trump aveva dichiarato di voler chiudere nel minor tempo possibile dal momento del suo ritorno al governo: l’autorizzazione all’esportazione di armi, infatti, è la prima da quando il tycoon è tornato in carica.

Il Consigliere per la Sicurezza nazionale USA, Marco Rubio, ha comunque precisato che gli Stati Uniti non hanno intenzione di rinunciare a risolvere il conflitto in Ucraina, sottolineando però che «questioni più importanti stanno accadendo in tutto il mondo» e gli Stati Uniti devono decidere quanto tempo dedicare alla questione russo-ucraina. Tradotto, Washington avrebbe problemi più importanti da affrontare, in primis quelli economico-commerciali con la Cina. Nel frattempo, però, l’amministrazione Trump pare intenzionata a sfruttare il più possibile a suo favore le ricchezze dell’Ucraina: oltre a ottenere un risarcimento per i 350 miliardi di dollari spesi dagli Stati Uniti dall’inizio della guerra, infatti, l’accordo stipulato con Kiev garantisce alla potenza a stelle e strisce una corsia preferenziale per accedere alle risorse minerarie e ai progetti d’investimento in questo settore del Paese europeo. L’intesa ha istituito il “Fondo di Investimento per la Ricostruzione Usa-Ucraina” in cui Kiev verserà il 50% di tutti i proventi generati dalle nuove licenze per l’estrazione di minerali in nuove aree. Entrambi i Paesi avranno, inoltre, pari diritti di voto nella gestione del fondo. Il documento è stato stipulato a seguito dell’incontro in Vaticano tra Trump e il presidente ucraino Zelensky in occasione dei funerali del papa sabato scorso.

Secondo il Washington Post, che ha visionato una versione dell’accordo, l’Ucraina non è riuscita a ottenere garanzie di sicurezza esplicite nel contratto, ma il testo chiarisce comunque che gli Stati Uniti si impegnano a mantenere un “allineamento strategico a lungo termine” con Kiev e a e a creare “un’Ucraina libera, sovrana e prospera”. Secondo Scott Bessent, segretario al Tesoro USA, l’intesa «segnala chiaramente alla Russia che l’amministrazione Trump è impegnata in un processo di pace incentrato su un’Ucraina libera, sovrana e prospera a lungo termine». Nel comunicato del Tesoro americano si chiarisce anche che “a nessuno Stato o persona che abbia finanziato o fornito la macchina da guerra russa sarà consentito di beneficiare della ricostruzione dell’Ucraina”. Da parte sua, il ministro dell’Economia, Yulia Svyrydenko ha detto che l’intesa «riflette l’impegno degli Stati Uniti per la sicurezza, la ripresa e la ricostruzione dell’Ucraina» e che «Il documento può garantire successo a entrambi i paesi».

In termini economici e di risorse minerarie, l’accordo per ora potrebbe non soddisfare le aspettative dell’amministrazione americana, nonostante l’ottimismo di Trump: secondo alcuni esperti, infatti, dopo la guerra saranno necessari investimenti privati per sviluppare un settore devastato dal conflitto. Allo stesso tempo, si sottolinea anche come, al momento, lo sviluppo di un’industria mineraria legata al litio – minerale di cui l’Ucraina è ricca – non esista fuori dalla Cina. Creare da zero tale settore richiederebbe ingenti investimenti. Nonostante il nome dell’accordo faccia riferimento solo alle terre rare, in realtà nel documento stipulato tra Washington e Kiev sono compresi anche minerali e giacimenti di idrocarburi. Kiev possiede il 6% delle risorse globali di grafite, l’1- 2% di quelle di litio, l’1% di quelle di titanio e il 2-4% delle risorse di Uranio. Per quanto riguarda le terre rare, nel sottosuolo ucraino sono presenti il lantanio e il cerio. Bisogna però considerare che in seguito alla conquista da parte di Mosca della parte orientale dell’Ucraina, circa il 40% delle risorse metalliche del Paese è ora sotto il controllo russo: la Nazione eurasiatica ha occupato almeno due giacimenti di litio, uno a Donetsk e un altro nella regione di Zaporizhia, nel sud-est. Kiev controlla ancora i giacimenti di litio nella regione centrale di Kyrovohrad.

Se da un lato, dunque, non è garantito un ritorno in termini economici in tempi rapidi, dall’altro Washington sembra avere fatto retromarcia circa la volontà di portare a termine i negoziati, tornando, al contrario, ad alimentare la guerra attraverso la vendita di prodotti bellici all’ex Stato sovietico. Se continuare a fornire armi all’Ucraina non cambierà i risultati sul campo, può in ogni caso contribuire a logorare la capacità difensiva, l’economia e il morale della Russia. Inoltre, causerà altre vittime militari e civili da una parte e dall’altra, mentre gli Stati Uniti sono impegnati a ottenere il massimo profitto possibile.

Project Kuiper: Bezos sfida Musk per il controllo di internet satellitare

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Jeff Bezos ha lanciato nell’orbita bassa terrestre il primo lotto di satelliti del suo Project Kuiper, il quale mira a competere con la rete Starlink di Elon Musk per la diffusione di internet. Il progetto intende creare una massiccia costellazione di satelliti, che si va ad aggiungere ai 6 mila già in orbita di proprietà di Musk – il quale dispone di 5 milioni di clienti in tutto il mondo. Il lancio costituisce una delle ormai innumerevoli contraddizioni che segnano la narrazione di queste aziende, che da un lato si ergono a protettrici dell’ambiente (si pensi al Bezos Earth Fund, che vuole «combattere il cambiamento climatico» e  «proteggere la natura»), dall’altro lo devastano tramite il lancio di razzi spaziali enormemente inquinanti.

Sono 27 i satelliti di Project Kuiper che sono decollati in cima a un razzo Atlas V dalla Cape Canaveral Space Force Station, in Florida. Il razzo è stato costruito dalla United Launch Alliance, una joint venture tra Lockheed Martin Space and Boeing. «Questa è una pietra miliare importante per il Progetto Kuiper e un entusiasmante passo avanti nella missione di Amazon di chiudere il divario digitale globale», ha affermato Rajeev Badyal, vicepresidente del Progetto Kuiper. Come spiegato sul sito di Amazon, Project Kuiper è un’iniziativa che mira ad aumentare l’accesso globale alla banda larga attraverso una costellazione di oltre 3.000 satelliti posizionati nell’orbita terrestre bassa. Project Kuiper ha già prenotato almeno 80 lanci da condurre, oltre che con Blue Origin dello stesso Bezos, con diverse aziende aerospaziali. Tra queste vi sono United Launch Alliance, Arianespace e persino SpaceX del rivale Musk. Project Kuiper combina una costellazione satellitare in orbita terrestre bassa con terminali di una rete globale di stazioni di terra e un’infrastruttura di comunicazione alimentata da Amazon Web Services (AWS).

Oltre alla competizione nel settore dell’internet satellitare, dove Musk è in netto vantaggio con il suo sistema Starlink, Bezos è in competizione con il fondatore di SpaceX anche nel settore aerospaziale, con la sua compagnia Blue Origin. L’ultimo lancio dell’azienda ha peraltro fatto molto discutere. Lo scorso 14 aprile, infatti, un equipaggio composto da donne miliardarie (tra i quali la cantante Katy Perry e la compagna di Bezos, Lauren Sánchez) è stato mandato nello spazio a bordo del razzo New Sheperd, di proprietà di Blue Origin. Durato appena pochi minuti, con un costo di centinaia di migliaia di dollari ed emissioni pari a 75 tonnellate di CO2, il viaggio è stato un mix perfetto di pinkwashing (ovvero di tentativo di mascherare con retoriche falsamente femministe la promozione commerciale dell’azienda) e devastazione ambientale.

Evidentemente, attività come questa stridono con la retorica di filantropia ambientale dietro la quale queste aziende cercano di nascondersi. La corsa alla conquista dello spazio e alla privatizzazione dell’orbita terrestre è infatti caratterizzata da un enorme dispendio di energia, oltre che dalla produzione di grandi quantità di CO2 e altre sostanze inquinanti – che i miliardari stessi dicono di voler contribuire a limitare. «Jeff e Lauren stanno facendo la storia, non solo con la somma del loro investimento nella natura, ma anche con la sua velocità», ha detto il CEO di Conservation International, M. Sanjayan, quando nel maggio 2024 ha consegnato ai due coniugi il Global Vision Prize. Il riferimento era all’attività del loro fondo per il clima e la biodiversità da 10 miliardi di dollari, il Bezos Earth Fund. Lo stesso che, nel febbraio scorso, ha interrotto i finanziamenti a Science Based Targets, organizzazione che monitora la decarbonizzazione delle aziende, sulla scia del riallineamento dei miliardari alla nuova presidenza Trump. A sottolineare, insomma, che le dichiarazioni ambientaliste di questi magnati puzzano quanto la CO2 che i loro enormi razzi si lasciano dietro al decollo.

[di Michele Manfrin]