martedì 13 Maggio 2025
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Georgia, ex presidente Saakashvili condannato ad altri 9 anni di carcere

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L’ex presidente georgiano Mikheil Saakashvili è stato condannato a nove anni di carcere, poiché riconosciuto colpevole di appropriazione indebita. Lo ha riferito l’agenzia di stampa Interpress. Saakashvili, presidente dal 2004 al 2013, era già stato condannato a sei anni per abuso di potere dopo essere tornato in Georgia nel 2021 dopo un periodo all’estero. Ha trascorso gran parte di quella condanna in un ospedale carcerario. Nel 2012 aveva perso le elezioni contro una coalizione guidata da Bidzina Ivanishvili, ancora oggi leader de facto della Georgia. Lasciato l’incarico, Saakashvili si era trasferito in Ucraina, dove ha ricoperto per un breve periodo la carica di governatore della regione di Odessa.

Portogallo, cade il governo Montenegro

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Il governo di minoranza del Portogallo, guidato da Luís Montenegro del Partito Socialdemocratico, è crollato dopo aver perso un voto di fiducia. Durante le votazioni, 142 parlamentari hanno respinto la fiducia, mentre 88 l’hanno approvata. La richiesta di fiducia era stata avanzata lo scorso giovedì dallo stesso esecutivo, dopo che Montenegro era stato accusato dalle opposizioni di avere conflitti di interesse. Nello specifico, il premier è accusato di aver favorito una società da lui fondata, di proprietà della sua famiglia, stipulando contratti con aziende private dotate di concessioni rilasciate dallo Stato. Ora il Paese potrebbe andare a elezioni anticipate.

La ricerca sulla cannabis terapeutica fa un nuovo, importante, passo avanti

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Imitare le molecole naturali presenti nella pianta di cannabis sfruttandone le proprietà antidolorifiche ma senza causare effetti che alterano lo stato psicofisico: è quanto riuscito ad un team di ricercatori della Washington University School of Medicine di St. Louis e della Stanford University, i quali hanno sviluppato un composto studiato nei topi e dettagliato in un nuovo studio sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Nature. La sostanza è stata chiamata VIP36 e, secondo gli autori, sebbene necessiti di ulteriori studi, potrebbe presto dare una svolta signif...

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Colloqui USA-Ucraina: sì di Kiev a proposta tregua di 30 giorni

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L’Ucraina sostiene la proposta degli USA di 30 giorni di cessate il fuoco nel conflitto contro la Russia. È quanto riferito da una nota congiunta sfociata dall’incontro tra le delegazioni di Washington e Kiev a Gedda, in Arabia Saudita. Il presidente ucraino Zelensky ha ringraziato Trump per «il carattere costruttivo del dialogo» tra le due squadre, affermando che ora «gli Stati Uniti devono convincere la Russia a fare questo passo». Il Consigliere per la Sicurezza nazionale USA, Mike Waltz, ha dichiarato che gli USA parleranno con Mosca «attraverso diversi canali per raggiungere la tregua». «Si spera che Putin sia d’accordo con il piano», ha detto Trump.

Romania, Corte Costituzionale esclude Georgescu dalle elezioni

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Calin Georgescu non sarà candidato alle presidenziali in Romania a maggio, dopo l’annullamento del primo turno di novembre che lo aveva visto vincitore. La Corte costituzionale ha infatti respinto all’unanimità il suo ricorso contro l’esclusione decisa dall’Ufficio elettorale. Indagato per finanziamenti illeciti, il politico – considerato filorusso e di estrema destra – è anche accusato di aver creato un’organizzazione fascista. Georgescu aveva vinto a sorpresa le elezioni presidenziali di novembre, annullate poi dalla Corte Costituzionale per presunti sospetti di ingerenze russe sul voto.

Il nuovo governo siriano annuncia uno storico accordo di pace coi ribelli curdi

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Il nuovo regime siriano ha annunciato di aver raggiunto un accordo di pacificazione con le Forze Democratiche Siriane (SDF), guidate dai curdi, al fine di integrare queste ultime con le istituzioni dello Stato centrale. Ad annunciarlo è stato l’ufficio della presidenza siriana, che ha rilasciato le immagini dell’incontro tra il presidente ad interim Al-Sharaa (precedentemente noto come Al-Julani) e il capo delle SDF, Mazloum Abdi. L’accordo, suddiviso in otto punti chiave, darà il via a un processo politico che dovrebbe terminare entro la fine di quest’anno. Il cessate il fuoco tra le due parti sarà il punto di partenza per l’attuazione della transizione e l’integrazione militare, politica ed economica della regione controllata dai curdi con il nuovo regime siriano guidato dagli jihadisti. Al contempo, il nuovo Stato siriano dichiara di riconoscere la comunità curda e di assicurarne la protezione.

Con la firma dell’accordo, dunque, la comunità curda viene riconosciuta come parte integrante dello Stato siriano, con i suoi diritti protetti dalla cittadinanza e dalla Costituzione. Viene così meno ogni tentativo di autonomia o indipendenza della regione del nord-est della Siria, nota anche come Rojava o Kurdistan siriano. Obiettivo che peraltro non è mai stato alla base dell’ideologia dei curdi, basata sui principi di autonomia e municipalismo del “confederalismo democratico” teorizzati dal leader del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), Abdullah Ocalan. Contrariamente a quanto comunemente creduto, il confederalismo democratico del Rojava non ricerca l’indipendentismo, ma l’autonomia amministrativa, senza che i confini statali siano modificati. L’idea è, di fatto, il superamento dell’istituzione statale in quanto intimamente collegata – nell’analisi di Ocalan – con la struttura capitalistica dell’economia moderna e le logiche di sfruttamento.

L’accordo giunge a meno di due settimane dallo storico annuncio del leader curdo del PKK, Abdullah Ocalan, con il quale questi invitava alla dissoluzione dell’organizzazione politico-militare e alla riappacificazione con lo Stato turco. Proprio questo annuncio potrebbe aver avuto un certo peso nell’arrivare alla firma dell’accordo di pacificazione. Le informazioni sul contenuto dell’accordo sono ancora poche e le forze curde non l’hanno ancora commentato pubblicamente. Secondo quanto anticipato dall’agenzia di stampa siriana SANA, l’accordo integrerebbe «tutte le istituzioni civili e militari nel nord-est della Siria nell’amministrazione dello Stato siriano, compresi i varchi di frontiera, gli aeroporti e i giacimenti di petrolio e gas». Rimane tuttavia non chiaro quale status e quale reale grado di autonomia otterranno i curdi in cambio della rinuncia alla lotta armata.

La storia è quindi ancora tutta da scrivere, e i curdi hanno dimostrato più volte nella loro storia di essere pronti a riprendere le armi per rivendicare quelli che considerano propri diritti come comunità nazionale. Di certo le basi dell’accordo potrebbero avere punti in grado di soddisfare tutti: i curdi otterranno l’autonomia necessaria per proseguire il loro esperimento di socialismo e auto-organizzazione municipale, il nuovo regime siriano farà un passo deciso verso la pacificazione del territorio e, il terzo incomodo dell’accordo, ossia la Turchia di Erdogan (sponsor principale del governo siriano), compirà un altro passo verso la pacificazione della questione curda.

Nella nuova Siria rimangono diversi i fronti aperti. L’accordo tra governo e curdi siriani arriva mentre nella provincia di Latakia e dintorni si aggrava la persecuzione contro gli alauiti, presi di mira dal nuovo regime fin dal suo insediamento, con oltre un migliaio di vittime registrate solamente negli ultimi giorni. Mentre nel sud crescono le tensioni con la minoranza drusa, utilizzata da Israele come pretesto per mantenere e allargare la propria presenza militare nel Paese.

[di Michele Manfrin]

Trump ritira i fondi alla Columbia University e arresta gli studenti pro-Palestina

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L’amministrazione Trump ha annunciato il ritiro di 400 milioni di dollari destinati alla Columbia University, una delle istituzioni accademiche più prestigiose degli Stati Uniti e protagonista negli scorsi mesi di ampie proteste studentesche in favore del popolo palestinese. Il provvedimento, che comporta la cancellazione di sovvenzioni e contratti federali, è stato giustificato con l’accusa rivolta all’università di non aver contrastato adeguatamente episodi di antisemitismo all’interno del campus. La decisione arriva negli stessi giorni dell’arresto, da parte delle autorità federali per l’immigrazione, di un attivista palestinese che ha avuto un ruolo centrale nelle proteste contro Israele all’interno dell’ateneo. Un chiaro segnale dell’inizio della politica di repressione annunciata da Trump contro gli studenti che denunciano il genocidio israeliano.

“La Columbia University, come tutte le altre istituzioni, deve rispettare le leggi federali antidiscriminazione se vuole continuare a ricevere finanziamenti pubblici. Per troppo tempo ha ignorato questo obbligo nei confronti degli studenti ebrei”, ha dichiarato la Segretaria all’Istruzione Linda McMahon in un comunicato.

Già lo scorso giugno, nel pieno delle diffuse manifestazioni in ateneo, in solidarietà con il popolo palestinese, l’università aveva istituito una task force incaricata di ridefinire il concetto di “fanatismo” e di chiarire la definizione di “antisemitismo”. La decisione aveva suscitato polemiche tra studenti e docenti, convinti che l’ateneo stesse tentando di criminalizzare le manifestazioni a favore di Gaza. Infatti, nonostante le proteste, l’organizzazione era riuscita a pubblicare un documento in cui ridefiniva l’antisemitismo, includendo al suo interno anche l’antisionismo, ovvero la negazione del diritto all’esistenza dello Stato di Israele. Linee guida che, di fatto, hanno reso la critica all’esistenza dello Stato di Israele equiparabile ad un atto di antisemitismo, con possibili ripercussioni disciplinari e legali per gli studenti.

A dimostrarlo è il caso di Mahmoud Khalil. Laureato alla Columbia in Affari Internazionali, l’attivista palestinese è stato arrestato nel suo appartamento di proprietà dell’università dagli agenti dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE). Questi ultimi hanno fatto irruzione nell’edificio prendendolo in custodia, segnando la prima operazione di “deportazione” pubblicamente nota nell’ambito della stretta annunciata da Trump contro gli studenti coinvolti nelle proteste per Gaza. Un’operazione che l’amministrazione ha giustificato sostenendo che i partecipanti alle manifestazioni abbiano perso il diritto di rimanere nel Paese per aver sostenuto Hamas. Il Segretario di Stato Marco Rubio ha infatti specificato che il governo procederà con la revoca dei visti e delle carte verdi per i “sostenitori di Hamas” negli Stati Uniti, al fine di espellerli.

John McLaughlin, consigliere presidenziale per la sicurezza nazionale, ha confermato che l’arresto di Khalil è direttamente collegato alla sua attività politica nel campus. “Ha guidato iniziative allineate con Hamas, un’organizzazione terroristica designata”, ha riferito in una nota ufficiale. Khalil era stato tra i principali negoziatori degli studenti nelle trattative con l’amministrazione universitaria per lo smantellamento dell’accampamento di tende eretto nel campus durante le proteste della scorsa primavera. Il suo ruolo di primo piano lo aveva reso un bersaglio, e nelle ultime settimane gli attivisti filo-israeliani avevano chiesto a gran voce che venisse espulso dal Paese. 

Un’intervento dunque con cui l’amministrazione Trump dimostra ufficialmente di voler reprimere le proteste studentesche, trasformando la solidarietà nei confronti del popolo palestinese in un rischio politico e legale per chiunque decida di esprimersi apertamente.

[di Gloria Ferrari]

USA: Trump impone nuovi dazi al Canada

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Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha annunciato un aumento dei dazi sui prodotti in acciaio e alluminio importati dal Canada, che passeranno dal 25% al 50%. L’annuncio è arrivato oggi, martedì 11 marzo, in un post sul social Truth Social. Trump ha spiegato che la mossa è una risposta ai dazi canadesi sui prodotti agricoli statunitensi e alle analoghe tariffe imposte dalla provincia canadese dell’Ontario sull’elettricità in uscita verso Washington. I nuovi dazi statunitensi entreranno in vigore domani. Trump ha poi ribadito le sue intenzioni di rendere il Canada il 51esimo Stato degli USA.

Cortina ’26: il tribunale ribadisce il diritto dei cittadini a fare causa contro le opere

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Il Comune di San Vito di Cadore, in provincia di Belluno, ha perso la causa intentata contro 25 cittadini che avevano protestato contro la variante stradale prevista per le Olimpiadi invernali Milano-Cortina 2026. Il Comune aveva chiesto un risarcimento di quasi 150mila euro, accusando i cittadini di aver “abusato” del proprio diritto di protesta presentando troppe cause in tribunale e di aver danneggiato l’immagine dell’ente. La richiesta è stata respinta e il Comune è stato condannato a pagare circa 40mila euro di risarcimento. La decisione del tribunale conferma il diritto dei cittadini a portare avanti le proprie proteste. Quelle dei cittadini di San Vito di Cadore, in particolare, si collocano su una scia di generali contestazioni per le opere previste per le Olimpiadi invernali, che hanno interessato diverse aree del Veneto e della Lombardia.

La causa contro i cittadini davanti al Tribunale di Belluno è stata presentata nell’aprile 2024 dall’allora commissario prefettizio straordinario Antonino Russo. Russo contestava ai cittadini un “eccesso di ricorsi” davanti al tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, che avrebbe causato al Comune un danno da “abuso del diritto” pari a 64.526,44 euro, corrispondenti alle spese stanziate per la difesa in aula. Oltre a ciò, Russo reclamava un danno di immagine per presunta diffamazione pari ad altri 80.000 euro. In totale, il Comune ha chiesto ai propri cittadini 144.526,44 euro. Alcuni dei cittadini accusati, inoltre, erano candidati alle elezioni comunali e hanno dovuto rinunciare alla propria posizione in Consiglio a causa del contenzioso con l’ente. In sede di giudizio, la giudice Chiara Sandini ha definito la richiesta del Comune “inammissibile”. “Il diritto all’azione è costituzionalmente garantito dall’art. 24 della Costituzione”, scrive la giudice. “L’ordinamento riconosce a chiunque la possibilità di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”. Per quanto riguarda la presunta presentazione di troppe cause da parte dei cittadini, Sandini ha rimarcato che un giudizio sulla quantità di ricorsi “non può essere sindacato in questa sede”.

Le proteste dei cittadini di San Vito di Cadore riguardano la realizzazione di uno svincolo stradale sulla statale 51 di Alemagna che servirebbe a spostare il flusso del traffico al di fuori del Paese in vista delle Olimpiadi Milano-Cortina. La strada dovrebbe passare sopra l’argine del fiume Boite e minerebbe, ritengono i comitati, la stabilità idrogeologica della zona. I cittadini di San Vito di Cadore non sono gli unici a protestare contro la realizzazione di opere – collaterali e non – per le prossime Olimpiadi invernali. A Cortina è particolarmente noto il caso della pista da bob, i cui lavori sono iniziati solo un anno fa, dopo un turbolento iter burocratico e diverse contestazioni degli abitanti, che si sono mossi contro l’abbattimento dei 500 larici secolari destinati a venire tagliati per fare spazio all’opera. Ad agosto del 2024, inoltre i lavori per le Olimpiadi sono finiti sotto la lente dell’antimafia, mentre verso la fine dello scorso maggio è stata aperta una inchiesta per corruzione contro la Fondazione.

[di Dario Lucisano]

Il “tritacarne” russofobo: come i media manipolano la realtà per giustificare il riarmo

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«Gesto choc», «bufera sul partito di Putin», «un tritacarne per la festa della donna». Per i media occidentali, l’ennesima polemica che ha travolto il Cremlino sarebbe un’iniziativa di Russia Unita, che avrebbe consegnato tritacarne e fiori alle madri dei soldati caduti in Ucraina, un atto descritto dalle testate mainstream come una “provocazione” sprezzante e crudele, che avrebbe scatenato un’ondata di indignazione sui social media. 

Basta il titolo di Adnkronos per cadere nella trappola mediatica, come osserva Valerio Savaiano, esperto di comunicazione: Tritacarne alle madri dei soldati uccisi in Ucraina, il regalo choc in Russia. Il titolo, infatti, mancando di precisare che i soldati uccisi sono quelli russi, lascia intendere che il partito di Putin si sia fatto beffe delle madri dei soldati ucraini. E, invece, si è trattata di una piccola commemorazione dei soldati russi morti in Ucraina

In un panorama mediatico ormai pervaso da una narrazione bellicista e russofobica, nessuno si chiede quale sarebbe il senso di un governo che sbeffeggia le madri dei propri soldati caduti in guerra. Nessuno si interroga sul perché testate di Paesi diversi pubblichino simultaneamente la stessa storia, con lo stesso taglio e le stesse parole chiave. Basta andare oltre i titoli per rendersi conto che siamo nel consueto campo della distorsione e della strumentalizzazione di una notizia per alimentare il “frame” del sadico Putin e dei russi invasori, cattivi e senza pietà.

L’episodio del “regalo choc” si è verificato l’8 marzo a Polyarny Zori, una cittadina dell’Oblast di Murmansk, dove il movimento femminile del partito di governo, Russia Unita, ha organizzato un’iniziativa intitolata Fiori per le mamme degli eroi. Lo scopo era quello di rendere omaggio alle madri dei soldati russi caduti nel conflitto, offrendo loro fiori ed elettrodomestici di vario genere. Tra le madri, una donna ha richiesto specificamente un tritacarne (che non era previsto), che le è stato quindi consegnato e in un video ha ringraziato “goffamente” per il dono di cui aveva bisogno. L’uso della parola “goffamente” è un chiaro tentativo di insinuare che la donna sia stata costretta a ringraziare per l’elettrodomestico. In ogni caso, non si sarebbe trattato di un “regalo provocatorio” imposto dal partito o da Putin in persona, ma una richiesta esaudita. Eppure, questo piccolo dettaglio è stato completamente stravolto nella narrazione dei media mainstream, trasformando un’iniziativa di sostegno e riconoscimento in una macabra beffa ai danni delle madri dei caduti.

Tutto è partito dai social media, dove alcuni utenti hanno notato la presenza del tritacarne e hanno collegato l’episodio all’uso della parola per descrivere le sconfitte sul campo di battaglia. Il problema, infatti, è che la parola russa per il tritacarne, «myasorubka», ha lo stesso doppio significato dell’inglese e si riferisce a una tattica che comporta pesanti perdite, in cui piccoli gruppi di soldati vengono inviati in attacco, rischiando pesanti perdite, con l’obiettivo di logorare e sopraffare le truppe nemiche.

Da lì, il passo è stato breve: alcuni giornalisti e testate allineate con la narrazione occidentale hanno colto la palla al balzo per rilanciare la vicenda come una prova della crudeltà russa, come se il Cremlino provasse un piacere perverso nell’umiliare le famiglie dei propri caduti. 

Questa narrazione non è casuale. Arriva in un momento in cui la Commissione Europea, guidata da Ursula von der Leyen, sta spingendo per un massiccio riarmo dell’Unione Europea, giustificandolo con la minaccia russa. Ma come convincere i cittadini a sostenere ingenti spese militari, quando per anni è stato detto che non c’erano fondi per sanità, welfare, pensioni e istruzione? Semplice: si demonizza il nemico e, a corrente alternata, lo si ridicolizza, proiettando su di esso caratteristiche esagerate e anche grottesche, come l’Emmanuel Goldstein di orwelliana memoria. Così, Putin ha un piede nella fossa, soffrendo un po’ di Alzheimer e un po’ di schizofrenia, ma è pronto a scatenare un conflitto nucleare, anche se le sue truppe cavalcano ciuchini, combattono a mani nude e senza calzini con le pale.

Il trucco è sempre lo stesso. Si costruisce un’immagine dell’avversario come malvagio e inumano, così che ogni decisione bellica diventi giustificabile e, anzi, necessaria. La logica è puramente emozionale: se i russi arrivano a tanto – farsi beffe delle madri dei soldati morti – dobbiamo difenderci a ogni costo, anche sacrificando il nostro benessere economico e sociale. Come dimenticare Beppe Severgnini che, ospite negli studi di Otto e mezzo, dichiarava che bisognava fermare Putin assolutamente, altrimenti «sarebbe arrivato a Lisbona»? Il risultato è una costruzione dell’opinione pubblica orientata verso una guerra che viene presentata come inevitabile.

Se davvero vogliamo difendere la libertà e la democrazia, la prima cosa che dovremmo fare è esercitare lo spirito critico. Altrimenti, il vero tritacarne sarà quello che macinerà la verità in nome della propaganda di guerra.

[di Enrica Perucchietti]