mercoledì 2 Luglio 2025

Il mondo delle Big Tech si inginocchia ai piedi di Trump

Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca sta trasformando rapidamente il panorama politico dell’intero mondo. Tra le variazioni più eclatanti e significative spicca il drastico cambio di atteggiamento delle grandi aziende tecnologiche. A lungo considerate il bastione delle ideologie progressiste, queste realtà stanno rapidamente cambiando colore, con i rispettivi dirigenti che sembrano mettersi in fila per cercare il favore del Presidente eletto, nella speranza di accattivarsi i favori di un’Amministrazione che sarà mossa da una retorica conservatrice e autoritaria. Dai meccanismi elettorali alla diplomazia internazionale, tutto lascia presagire che il prossimo Governo di Donald Trump si prepari a esercitare un potere incontrastato e che gli imprenditori di rilievo abbiano coralmente deciso di chinare il capo pur di tutelare gli interessi finanziari dei loro investitori.

I primi sintomi dalla prospettiva di Amazon

Che i leader del settore tech non volessero inimicarsi il possibile e probabile nuovo Presidente era apparso evidente già in occasione della corsa al voto. Un segnale chiaro era per esempio arrivato dal The Washington Post, testata considerata dagli osservatori statunitensi come di “sinistra”, ma che ha comunque scelto di non pubblicare il consueto articolo di endorsement alla candidata Democratica Kamala Harris. Una neutralità che ha lasciato di stucco molti, soprattutto considerando le frequenti e pungenti critiche del quotidiano a Donald Trump, critiche che in passato avevano scatenato l’ira dell’ex Presidente al punto che questi aveva deciso di bandire gli autori del giornale da alcuni eventi della sua campagna elettorale del 2016.

Ufficialmente, il giornale ha motivato la sua decisione con la volontà di “tornare alle origini e non sostenere pubblicamente alcun candidato presidenziale”. Tuttavia, indiscrezioni interne, riportate in forma anonima dallo stesso quotidiano, suggeriscono che la scelta sia stata imposta dall’alto. Molto dall’alto: il silenzio sarebbe stato ordinato direttamente dal proprietario, Jeff Bezos, noto fondatore di Amazon e Blue Origin, aziende che hanno tutto l’interesse a mantenere rapporti cordiali con i centri di potere governativi. Tra Bezos e Trump esiste una storica antipatia che è spesso sfociata sul personale. Già nel 2016, Trump aveva minacciato esplicitamente di creare «problemi» ad Amazon, etichettando il suo proprietario come “Jeff Bozos”, ovvero “Jeff lo stupido”. Nel frattempo, Bezos accusava l’allora candidato di rappresentare un pericolo e che la sua eventuale elezione avrebbe «eroso la democrazia».

In foto: Jeff Bezos, il fondatore delle aziende tech Amazon e Blue Origin, nel 2013 ha acquistato il The Washington Post per 250 milioni di dollari

Negli ultimi mesi, però, sembra che qualcosa sia cambiato. Jeff Bezos si è dichiarato «effettivamente molto ottimista» riguardo al possibile ritorno di Trump alla Casa Bianca, descrivendolo come un leader «cresciuto» e «molto più pacato e stabile» rispetto al suo primo mandato. Le ragioni di questa apparente riappacificazione sono facilmente intuibili: Bezos apprezza e sostiene le promesse di deregolamentazione ventilate da Trump. «Sembra deciso a investire molte energie per ridurre le normative», ha affermato il fondatore di Amazon, «se posso aiutarlo in questo, lo farò senza esitazioni». Il 3 gennaio 2025, la fumettista e premio Pulitzer Ann Telnaes ha rassegnato le dimissioni dal The Washington Post dopo che la testata ha bloccato la pubblicazione di una sua vignetta in cui Bezos veniva raffigurato, in ginocchio, ai piedi del Presidente eletto Donald Trump.

I sudditi tech baciano l’anello regale 

La rivoluzione nel comportamento di Jeff Bezos si è palesata esplicitamente a metà dicembre 2024, ovvero quando l’imprenditore si è recato a Mar-a-Lago, in Florida, per far visita alla residenza di Donald Trump. Questa ossequiosa processione, tuttavia, non rappresenta un’eccezione, bensì l’esempio di una tendenza ormai consolidata. Nei giorni precedenti e successivi alla visita di Bezos, il Presidente eletto ha accolto nella sua dimora anche Mark Zuckerberg, fondatore e CEO di Meta, Sundar Pichai, CEO di Google, Tim Cook, CEO di Apple, e Shou Zi Chew, CEO di TikTok. Tutti hanno manifestato con evidente solerzia il desiderio di entrare nelle grazie del futuro inquilino della Casa Bianca. Mar-a-Lago si è trasformata dunque in una moderna corte rinascimentale, un crocevia di potere dove chiunque ambisca a mantenere buoni rapporti con il prossimo Presidente degli Stati Uniti si presenta per dimostrare la propria predisposizione a servire.

L’atto di sottomissione a cui si sono sottoposti i leader delle Big Tech non si ferma alla sola passerella pubblica, ma tocca anche il fattore economico. Nonostante i trascorsi burrascosi con Trump, Meta e Amazon hanno ufficializzato donazioni simboliche da un milione di dollari ciascuna per sostenere la raccolta fondi inaugurale della presidenza. Sam Altman, CEO omosessuale di OpenAI che in passato aveva definito l’omofobo Donald Trump «una minaccia inaccettabile», ha annunciato a sua volta un contributo personale di un milione di dollari. Uber donerà un milione, cui si aggiungerà un altro milione proveniente direttamente dalla CEO Dara Khosrowshahi. Anche Tim Cook ha dichiarato di voler attingere al proprio patrimonio personale per versare un milione di dollari, giustificando la scelta come un gesto atto a promuovere lo «spirito d’unità».

Questa dinamica viene evidenziata anche dal fatto che le grandi aziende tecnologiche stanno ristrutturando i propri organigrammi e adottando strategie inedite per adattarsi al pragmatismo della realpolitik. Meta, ad esempio, ha sollevato Sir Nick Clegg dal ruolo di responsabile delle policy, una posizione che ha ricoperto per quasi sette anni, promuovendo quella moderazione dei contenuti che viene spesso criticata dai Conservatori come una forma di censura. Al suo posto subentrerà Joel Kaplan, ex politico Repubblicano ed ex Vice Capo di Stato Maggiore durante l’amministrazione di George W. Bush. Neppure il tempo di registrare il passaggio di cariche che, il sette gennaio, Meta ha annunciato che rinuncerà ai fact-checker e che rivedrà le sue policy di moderazione. Commentando la svolta al canale televisivo Fox, Kaplan ha fatto notare che, per quanto “inizialmente ben intenzionati”, gli analisti tecnici esterni hanno dimostrato “troppo pregiudizio politico in ciò che hanno scelto di verificare e nel come lo hanno fatto”. Zuckerberg ha inoltre reso noto l’ingresso di tre nuovi membri nel Consiglio di Amministrazione: l’italiano John Elkann, presidente di Stellantis, Charlie Songhurst, investitore tech e Dana White, imprenditore vicino a Trump.

Amazon, dal canto suo, trasmetterà in diretta streaming su Prime Video la cerimonia di insediamento di Trump e ha acquistato i diritti di distribuzione per un documentario dedicato a Melania Trump, passata e futura First Lady. Trump, noto per essere ben disposto nei confronti di chi lo adula e si conforma alla sua volontà, non può che accogliere con soddisfazione l’atteggiamento accomodante del mondo tech. «Una delle grandi differenze rispetto al primo mandato.. durante il primo mandato tutti mi combattevano, in questo tutti vogliono essere miei amici», ha chiocciato con sommo appagamento il Presidente eletto.

Il fattore Musk e la competizione sleale

La predisposizione delle grandi aziende a piegarsi sembra strettamente legata al travolgente successo elettorale di Donald Trump, ma anche al ruolo che la nuova Amministrazione promette di assumere sotto l’influenza del magnate sudafricano Elon Musk. Quest’ultimo ha messo da parte il suo precedente atteggiamento critico nei confronti di Trump e ha contribuito alla campagna del futuro Presidente con un’ingente donazione di 250 milioni di dollari. Forte di questo investimento, il miliardario si è guadagnato il diritto di sedere alla destra di Trump, persino in occasione degli incontri più riservati. A volte, rasentando il paradosso. Quando Jeff Bezos si è recato a Mar-a-Lago per confrontarsi con il Presidente eletto, Musk si è presentato a sua volta, inserendosi in un dibattito che, con tutta probabilità, riguardava i bandi governativi relativi alle aziende del suo competitor.

Trump ha inoltre annunciato l’intenzione di creare una commissione consultiva composta da Elon Musk e Vivek Ramaswamy, un miliardario proveniente dal settore farmaceutico. Questo nuovo organismo, denominato “Dipartimento dell’Efficienza Governativa” (DOGE), sarà incaricato di delineare i tagli al budget e ai servizi governativi. Tuttavia, tale commissione rischia di trasformarsi in un potente strumento para-governativo, permettendo ai suoi due membri di influenzare in modo significativo le politiche statunitensi senza però che questi siano soggetti ai vincoli della burocrazia o alle responsabilità politiche. Musk e Ramaswamy potrebbero avere infatti voce in capitolo sulla distribuzione degli investimenti pubblici in settori cruciali come aerospazio, biotecnologia e informatica, campi in cui esercitano entrambi interessi imprenditoriali. Qualora i due avessero ricoperto un incarico ufficiale, la situazione si configurerebbe come un conflitto di interessi inequivocabilmente illegale.

Nel frattempo, nel settore tecnologico cresce il timore che Musk possa diventare una sorta di “Gran Visir” occulto, capace di abusare della sua posizione per penalizzare i rivali e favorire le sue aziende. Nei circoli diplomatici statunitensi circola un adagio: «se non sei seduto al tavolo, probabilmente sei sul menù». Musk, al momento, ha un posto d’onore al banchetto governativo e i dirigenti delle Big Tech stanno correndo forsennatamente per assicurarsi di trovare a loro volta una seggiola, così da non finire cannibalizzati. Questo clima di apprensione è ben esemplificato dalla situazione di Sam Altman e della sua OpenAI, realtà da tempo in contrasto con Musk. Il CEO di Tesla, che era stato cofondatore della nota azienda d’intelligenza artificiale, è diventato un avversario del progetto dopo aver fallito nel tentativo di assumerne il controllo e ora le due parti sono coinvolte in un’aspra disputa legale. «Potrei sbagliarmi, ma sono fermamente convinto che Elon farà la cosa giusta», ha dichiarato Altman alla conferenza DealBook organizzata dal New York Times. «Sarebbe profondamente antiamericano sfruttare il potere politico per danneggiare i concorrenti e avvantaggiare le proprie imprese».

Non è affatto certo che il ruolo politico di Musk sia però destinato a perdurare. Il miliardario rappresenta una presenza molto ingombrante, si distingue per ideali politici vaghi espressi attraverso sfuriate intrise di qualunquismo, inoltre ha mostrato storicamente l’abitudine di mutare drasticamente opinione in base ai suoi capricci e agli opportunismi del momento. Pur formalmente affiliati al movimento Make America Great Again (MAGA) di Donald Trump, sia Musk che Ramaswamy perseguono piuttosto obiettivi e visioni essenzialmente imprenditoriali e neoliberiste, le quali non rispecchiano necessariamente l’immaginario del Partito Repubblicano e che, anzi, hanno già provocato tensioni interne. Un esempio significativo è il loro deciso sostegno al visto temporaneo per lavoratori altamente qualificati, l’H-1B, una soluzione burocratica che punta a importare negli Stati Uniti personale formato a basso costo, favorendo di fatto immigrazione e dumping salariale.

Trump, una volta assolutamente ostile all’idea, si è più recentemente convinto che sia «grandioso» avere in pancia all’economia dei lavoratori con poche pretese e maggiormente vulnerabili ai diktat dei datori di lavoro. Tuttavia, questa apertura non ha trovato il favore di molti dei politici Repubblicani più radicali, né tantomeno di una parte significativa dell’elettorato. In molti, infatti, sostengono che il lavoro debba essere riservato agli statunitensi e invocano la deportazione di tutti gli “invasori” stranieri, a prescindere dal fatto che abbiano o meno le carte in regola per risiedere negli USA. Questa fazione sta iniziando a notare che il cosiddetto Dipartimento dell’Efficienza governativa sarà gestito da un oriundo di origine indiana, Ramaswamy, e da uno straniero che è probabilmente immigrato illegalmente negli Stati Uniti, Musk. E la pancia dell’elettorato Repubblicano non è da sottovalutare: nel caso dei visti H-1B, il riscontro è stato così esplosivo che il caparbio Musk ha dovuto ritrattare la sua posizione, concedendo ai detrattori che il sistema dei visti sia «rotto e richieda grandi riforme».

[di Walter Ferri]

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7 Commenti

  1. La Storia si evolve e si ripete dall’ altra parte del pianeta. Il Rasputin di turno (Elon) fa da suggeritore all’ ultimo zar (Donald) in preda a megalomania. Poi arriverà una rivoluzione speculare con il ceto medio americano (quello non inebetito da cannabinoidi, oppiacei e materialismo neo- liberista) tradito ed incattivito, nel ruolo dei bolscevichi, che andrà a ripulire la nazione più ricca del mondo dagli insulsi privilegiati che la vogliono governare.

  2. Visto dall’ interno le sfumature sono completamente diverse da come scrivete.
    Dico visto dall’interno perché per casuali ragioni personali, son uno dei pochissimi che hanno giornalmente lottato conto la redazione del Washington Post a nome di Jeff Besos, come uno dei suoi più antichi e affezionati clienti, minacciando giornalmente licenziamenti a suo nome, se continuavano con la solfa pro Genocide Biden.
    Attualmente sto auspicando un legame forte tra il vice di Trump e Jeff Besos per le successive due amministrazioni e continuo a minacciare i giornalisti lì che non capiscono la necessità di venire sostituiti dalla IA di giornalismo investigativo che Jeff Besos sta
    progettando, perché gli umani si vendono, ma gli algoritmi no.
    Seguendo gli insegnamenti di Machiavelli per portare avanti l’umanità fino alla Singolarità, se sarà possibile, per i prossimi venti anni, non guarderò in faccia nessuno.

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