venerdì 14 Novembre 2025
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Lobbismo, oppressione, militarizzazione dell’economia: la lista delle aziende peggiori al mondo

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Alcune delle aziende più grandi del mondo possono influenzare in modo determinante il processo democratico attraverso un’intensa attività di lobbismo, lo sfruttamento dei lavoratori e facendo leva sugli ingenti profitti che ricavano per finanziare un’agenda politica improntata al controllo tecnologico e alla militarizzazione dell’economia. È quanto emerge dal rapporto annuale Corporate Underminers of Democracy: si tratta di una lista annuale di aziende che violano i diritti umani e dei lavoratori, consolidano il potere dell’industria bellica e evadono le tasse, redatta dalla Confederazione Internazionale dei Sindacati (ITUC), la cui missione è la promozione e la difesa dei diritti e degli interessi dei lavoratori, attraverso la cooperazione internazionale tra sindacati, campagne globali e attività di sensibilizzazione. Nella lista stilata quest’anno compaiono Amazon, Anduril Industries, Meta, Northrop Grumman, Palantir Technologies, Space Expolration Technologies e Vanguard. Questi colossi informatici e tecnologici stanno favorendo un crescente militarismo, facendo pressioni per un’ampia deregolamentazione nel settore della difesa, non rispettano i diritti umani e dei lavoratori e, attraverso l’accentramento della ricchezza, riescono a imporre nuove forme di governo, basate sul sempre maggiore controllo tecnologico e digitale e sulla profilazione degli utenti. Sono i dati, infatti, la vera miniera d’oro delle società tecno-capitaliste.

Amazon

Il proprietario del gruppo Amazon, Jeff Bezos

L’azienda del miliardario Jeff Bezos, nota in tutto il mondo e dalla quale i consumatori occidentali acquistano e ricevono direttamente a casa innumerevoli beni di tutti i generi ogni anno, organizza regolarmente eventi nel settore della difesa e ha stipulato un accordo da 1,2 miliardi di dollari con Google e il governo israeliano di estrema destra per intensificare la sorveglianza dei palestinesi nei Territori Occupati. Secondo un rapporto del Relatore Speciale delle Nazioni Unite, Amazon sostiene l’infrastruttura cloud israeliana Project Nimbus, che i funzionari militari hanno descritto come «un’arma in tutti i sensi» per la sorveglianza e la presa di mira. L’azienda di Bezos ha inoltre speso almeno 19,1 milioni di dollari per fare lobbismo presso il governo degli Stati Uniti nel 2024, al fine di mantenere lo status di Amazon Web Services (AWS), ossia di principale fornitore di cloud computing per l’industria degli armamenti. E nel 2025 ha esercitato pressioni per impedire la regolamentazione dell’intelligenza artificiale. Ma il potere d’influenza di Amazon non finisce qui, estendendosi anche all’ambito delle agenzie di intelligence: il colosso di vendita online ha, infatti, un contratto da 10 miliardi di dollari con la National Security Agency, diversi contratti a supporto della Joint Warfighting Cloud Capability del Dipartimento della Difesa e centinaia di milioni di dollari in contratti con la CIA (Central Intelligence Agency). Ciò significa che Amazon collabora direttamente nelle attività di intelligence nazionali, avendo probabilmente anche voce in capitolo rispetto alle decisioni e all’operato dei servizi segreti.

Sul piano dell’equità e della giustizia sociale, si osserva un’enorme sproporzione tra i compensi percepiti dai vertici e quelli dei lavoratori: basti pensare che l’attuale amministratore delegato di Amazon, Andy Jassey, percepisce uno stipendio 43 volte superiore a quello medio di un dipendente Amazon, mentre l’azienda investe milioni di dollari in consulenti antisindacali per reprimere l’organizzazione e le proteste dei suoi dipendenti in tutto il mondo.

Industrie Anduril e Meta

Anduril, probabilmente la meno nota delle aziende incluse nella lista, è una società statunitense specializzata in sistemi di difesa basati sull’intelligenza artificiale, tra cui droni autonomi, torri di sorveglianza, IA per il processo decisionale sul campo di battaglia, sistemi di sicurezza delle frontiere e software di simulazione per l’addestramento militare virtuale. In breve, è l’azienda che sta costruendo l’infrastruttura per la guerra automatizzata – in cui le macchine possono uccidere in modo autonomo – e la sorveglianza digitale, in modo rapido e su larga scala. La società lavora per il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, la Border Patrol e le forze militari degli alleati della NATO.

Per quanto riguarda Meta, la società di Mark Zuckerberg che controlla Facebook e Instagram, la compagnia era già finita nel mirino per avere censurato diversi utenti sui suoi social media in particolare durante il periodo della pandemia di Covid19, anche in base alle direttive del governo statunitense. Recentemente, Meta ha censurato i contenuti che denunciano il genocidio a Gaza ed esprimono sostegno nei confronti della resistenza palestinese. Arrivando al punto di denunciare chi, all’interno della stessa azienda, si opponeva alla censura. Allo stesso tempo ha permesso sulle sue piattaforme social la pubblicazione di annunci pubblicitari da parte di agenzie immobiliari israeliane che promuovono la vendita di abitazioni in villaggi e località della Cisgiordania occupata. Anche il colosso di Zuckerberg, inoltre, sta virando sempre più verso l’uso militare delle sue tecnologie: ad esempio, ha revocato il divieto di utilizzo militare della sua IA Llama per le aziende statunitensi e ha annunciato un partenariato con le industrie Anduril, con l’obiettivo di sviluppare visori per la realtà virtuale per il controllo di macchinari da campo senza pilota. Anche il Pentagono utilizza l’IA di Meta: si tratta di un modello linguistico di grandi dimensioni che si basa su dati pubblici e concessi in licenzaottenuti anche da post condivisi pubblicamente dagli utenti su Facebook e Instagram e interazioni degli utenti con l’intelligenza artificiale di Meta. Questi dati possono ora essere utilizzati dall’esercito statunitense e dagli appaltatori dell’industria bellica per scopi di sorveglianza e guerra.

Tecnologie Palantir e Vanguard

In foto: il CEO di Palantir. Alex Karp

Nel corso di un ventennio, Palantir, di proprietà del miliardario Peter Thiel, è diventata di fatto il sistema operativo di dati per la guerra, le attività di polizia, il controllo dell’immigrazione e l’analisi di intelligence. Palantir ha accumulato almeno 1,3 miliardi di dollari in contratti militari statunitensi per la costruzione di piattaforme di sorveglianza di nuova generazione utilizzate sia dalle forze armate che dalla polizia nazionale. L’azienda specializzata nell’analisi di big data sta peraltro svolgendo un ruolo determinante nella Striscia di Gaza assediata, dove i suoi prodotti supportano l’applicazione, da parte di Israele, di un sistema di puntamento basato sull’intelligenza artificiale noto come Lavender. Il consiglio di amministrazione dell’azienda è apertamente filoisraeliano e a gennaio, per la prima riunione del 2025, si è riunito a Tel Aviv dichiarando esplicitamente il suo sostegno a Israele. Per tutto il mese di maggio, le azioni di Palantir sono esplose, rendendola la società con le migliori performance nell’indice S&P 500. Il sistema di spionaggio Palantir permette inoltre la sorveglianza di massa anche dei civili americani attraverso la raccolta dei dati personali della popolazione.

La società consulente d’investimenti statunitense Vanguard, invece, risulta il più grande investitore al mondo nella produzione di armi nucleari. Nel 2022, Vanguard ha investito la cifra da capogiro di 68,2 miliardi di dollari in aziende produttrici di armi nucleari, tra cui Aerojet Rocketdyne (Stati Uniti, Regno Unito), Airbus (Paesi Bassi), BAE Systems (Regno Unito), Boeing (Stati Uniti), General Dynamics (Stati Uniti), Honeywell (Stati Uniti), L3Harris (Stati Uniti), Leonardo (Italia), Lockheed Martin (Stati Uniti), Northrop Grumman (Stati Uniti), RTX (Stati Uniti), Safran (Francia) e Thales (Francia). È inoltre tra i primi due azionisti di Amazon (7,97%), Palantir (9,43%), Northrop Grumman (9,37%) e Meta (8,88%).

L’operato di queste aziende mostra come la concentrazione di ricchezza nella mani di pochi miliardari comporti anche una concentrazione di potere che svuota immediatamente di significato e di credibilità le società cosiddette democratiche, in cui le decisioni che contano non sono prese dai cittadini, ma sono fondate sul potere del denaro. È quella che viene definita plutocrazia e trova il suo centro pulsante nelle grandi società tecnologiche, nella Silicon Valley e nella potente finanza internazionale. Inutile dire che questa oligarchia porta avanti un’agenda distopica di controllo tecnologico e profilazione digitale della popolazione e sta ora virando radicalmente verso il settore bellico, considerato anche l’inquieto e incerto scenario geopolitico. Il tutto mostra anche come la tecnologia – considerata una conquista della civiltà moderna – possa essere impiegata velocemente in settori di guerra provocando distruzione e morte come sta dimostrando il caso di Gaza. Tale concentrazione di potere in una ristretta cerchia di persone – che spesso sposa l’ideologia transumanista e tecnoscientista – non potrà che erodere ulteriormente i diritti dei lavoratori e influenzare l’agenda politica globale in una direzione autoritaria e fortemente propensa alla guerra, all’oppressione e alla militarizzazione. Il tutto mentre le economie occidentali subiscono un brusco declino.

USA-Afghanistan, tensioni su base Bagram

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«Se l’Afghanistan non restituisce la base di Bagram agli Stati Uniti, succederanno cose brutte»: sono le dichiarazioni che il presidente USA Trump ha pubblicato sul suo social media Truth. Il riferimento è alla base statunitense che i militari hanno dovuto abbandonare nel 2021 e attualmente sotto il controllo dei talebani. Le autorità talebane hanno escluso qualsiasi ritorno delle truppe militari americane nel Paese.

Gli utili delle banche continuano a crescere mentre diminuiscono sportelli e lavoratori

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Nonostante un contesto economico complesso, i primi sette gruppi bancari italiani hanno chiuso il primo semestre del 2025 con un utile netto in forte crescita, toccando i 15 miliardi di euro, in aumento del 15,9% rispetto allo stesso periodo del 2024. Questa performance, trainata da commissioni e risultati finanziari, si scontra però con un continuo e preoccupante ridimensionamento della presenza sul territorio e della forza lavoro. Il numero degli sportelli, per la prima volta, è sceso sotto la soglia psicologica delle diecimila unità, mentre i dipendenti in Italia sono diminuiti di altre 5.000 unità. Le statistiche, elaborate dall’Ufficio Studi e Ricerche della FISAC CGIL, evidenziano dunque un paradosso: mentre i profitti continuano a salire, il presidio del territorio e l’occupazione si riducono.

I dati dipingono un quadro chiaro: la redditività del sistema bancario rimane sostenuta, ma la sua natura sta cambiando. Il tradizionale motore del margine d’interesse è infatti in flessione (-5,1%), segnale di una normalizzazione dei tassi dopo i picchi del 2023-2024. Questo calo è stato però più che compensato da un’impennata delle commissioni nette (+5,5%), spinte dall’aumento della raccolta amministrata, e da risultati eccezionali nell’area finanza (+45,7%) e nelle attività assicurative (+7,6%). In sintesi, le banche stanno compensando la minore redditività del credito con un aumento dei ricavi da servizi e investimenti. A contribuire in maniera decisiva al risultato finale è stato anche un significativo contenimento dei costi. Le spese per il personale sono diminuite del 2,0%, un dato direttamente collegato alla riduzione di 6.000 dipendenti a livello globale, di cui circa 5.000 solo in Italia. Parallelamente, gli altri costi operativi sono rimasti sostanzialmente stabili (+0,8%), mentre è calato in modo consistente (-15,9%) l’accantonamento per le rettifiche sul rischio di credito, un elemento su cui – come sottolinea il rapporto – è difficile esprimere un giudizio definitivo data l’incertezza macroeconomia.

Il trend più preoccupante, evidenziato con forza dalla FISAC CGIL, è però quello della progressiva rarefazione della presenza fisica delle banche sul territorio. Gli sportelli dei sette grandi gruppi sono scesi a 9.873, toccando per la prima volta un livello inferiore alle diecimila unità. Si tratta di un calo drammatico: negli ultimi sette semestri sono state chiuse 2.026 filiali, un disimpegno che priva intere comunità di un servizio essenziale e di un presidio sociale. Questo processo di contrazione non accenna ad arrestarsi, confermando una strategia di business sempre più orientata al digitale e sempre meno legata al rapporto diretto con il cliente e i territori. Il quadro complessivo che emerge è quindi di una profonda contraddizione. Da un lato, un sistema bancario robusto e capace di generare profitti record in qualsiasi congiuntura, anche grazie a un regime di tassazione favorevole. Dall’altro, un costante deflusso di risorse – umane e fisiche – dalle comunità che queste stesse banche dovrebbero servire.

Il trend che fotografa l’aumento dei profitti degli istituti bancari è partito dalla fase post-pandemica. Secondo un’analisi della Fabi, in particolare, il sistema bancario italiano ha vissuto un «triennio d’oro» tra il 2022 e il 2024, sostenuto dalla stretta sui tassi decisa dalla Banca centrale europea a partire dalla metà del 2022. Nel 2024 gli istituti hanno realizzato utili aggregati per 46,5 miliardi di euro, +14% rispetto al 2023, e la somma degli utili pre-tasse nel triennio supera i 112 miliardi. Il punto di svolta è il 2022, con un utile netto balzato a 25,5 miliardi, dopo anni (2018-2021) di risultati più contenuti — medi tra 15 e 16 miliardi — e il crollo del 2020 a soli 2 miliardi. Il 2021 segnò un primo recupero (16,4 miliardi), ma è stato il biennio 2022-2024 a determinare la forte ripresa: addirittura +55% nel 2023 rispetto al 2022 e un ulteriore +14% nel 2024.

Proprio per compensare l’aumento degli utili delle banche, nel 2023 il governo Meloni aveva approvato una tassa sugli extraprofitti la cui efficacia si è dimostrata inversamente proporzionale all’enfasi propagandistica con cui era stata presentata. L’esecutivo Meloni, infatti, aveva depotenziato la norma attraverso un emendamento con cui si consentiva alle banche di non pagare il tributo, purché destinassero un importo di 2,5 volte superiore al consolidamento del proprio patrimonio. È quello che hanno fatto i principali istituti di credito, tra cui Unicredit, Intesa Sanpaolo, BPM, BPER, Credem, Mediobanca e Mediolanum, la banca controllata per il 30% dalla famiglia Berlusconi. I principali istituti di credito hanno deciso di non pagare, rafforzando invece il patrimonio.

Torino, migliaia di persone da tutto il Piemonte per la Palestina

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In attesa dello sciopero generale previsto per lunedì 22 settembre, a Torino migliaia di persone si sono radunate provenendo da tutto il Piemonte per manifestare a sostegno del popolo palestinese. Lo riporta la stampa locale, aggiungendo che il corteo è partito da piazza Statuto e si è concluso in piazza Vittorio Veneto dopo aver attraversato Porta Nuova e la Prefettura di via Pietro Micca, dove è stata issata la bandiera palestinese accanto a quella italiana e piemontese. I manifestanti sono stati accompagnati da decine di associazioni italiane e straniere che hanno sfilato al grido di «No armi no guerre» e «Stop al genocidio» e da diversi sindacati e partiti: Cgil, Potere al Popolo, Movimento 5 Stelle, Pci e Rifondazione Comunista.

La nuova legge italiana sull’IA, tra vuoti normativi e rischi di sorveglianza

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Mercoledì 17 settembre 2025, il Senato ha approvato in via definitiva la legge italiana sull’Intelligenza Artificiale. Il pacchetto normativo anticipa l’avvento dell’AI Act europeo, ponendo l’Italia in una posizione di avanguardia amministrativa, con l’intento di stimolare l’innovazione e rafforzare l’economia nazionale. L’opposizione e i difensori dei diritti digitali si ritengono però insoddisfatti del testo della legge, accusandolo di essere privo di mordente, più adatto a garantire al Governo degli strumenti di sorveglianza che a tutelare davvero gli interessi dei cittadini.
Impresa, lavor...

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Continuano i raid su Gaza, media: “Almeno 51 morti dall’alba”

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Dall’alba di oggi, sabato 20 settembre, almeno 51 persone sono state uccise dai raid nella Striscia, tra cui 43 nella città di Gaza. Lo riferiscono le fonti ospedaliere locali e i reporter di Al Jazeera, aggiungendo che gli attacchi israeliani avrebbero colpito anche l’abitazione del fratello di Mohammed Abu Salmiya, direttore del complesso medico al-Shifa, uccidendo l’uomo e molti dei suoi figli, alcuni minori. Riportati anche problemi anche in materia di evacuazione, in quanto l’esercito israeliano avrebbe chiuso via Salah al Din, una strada chiave utilizzata dai palestinesi sfollati in fuga dal nord di Gaza. «La situazione è molto difficile. L’occupazione vuole che tu odi la vita. Non vuole che tu viva», ha riferito un palestinese che dormiva sul ciglio della strada.

Un anno dopo l’alluvione in Romagna, a Traversara le case sono ancora distrutte

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La prima cosa che si incontra entrando a Traversara è un semaforo. È uno di quelli che di solito si usano per i sensi unici alternati nei pressi dei cantieri. Ma qui non segnala lavori in corso: divide in due la città. Da una parte le case ancora in piedi, dall’altra quelle totalmente distrutte. Il semaforo, appoggiato a terra, avrebbe dovuto essere provvisorio. In realtà è lì da esattamente un anno. Il 19 settembre 2024, infatti, il fiume Lamone, gonfio fino all’orlo per le piogge torrenziali di quei giorni, ha rotto l’argine, travolgendo il piccolo paese romagnolo. Non era la prima volta. Da maggio 2023, a partire dalla prima grande alluvione che ha devastato la Romagna, Traversara si è allagata quattro volte. Ma l’ultima è stata la più feroce: il fiume ha distrutto le prime trenta abitazioni che ha incontrato sul suo percorso, per poi sommergere l’intera zona abitata.

Il fiume Lamone. Foto di Fulvio Zappatore

Traversara è un borgo di appena cinquecento anime, sprofondato nel cuore della bassa padana, nel comune di Bagnacavallo, provincia di Ravenna. Qui la pianura domina incontrastata. L’unico limite allo sguardo è l’argine del fiume, innalzato negli anni di decine di metri sopra le case per difenderle dalla furia dell’acqua. In via Torri una lunga fila di case è rimasta com’era un anno fa: muri sventrati, stanze a cielo aperto. È la cosiddetta “zona rossa”, tuttora inaccessibile. Dai varchi si scorgono materassi, sedie, termosifoni, biciclette, tavolini. Frammenti di vita quotidiana trasformati in un museo della catastrofe. Chi viveva lì è dovuto scappare senza poter prendere nulla e non è più tornato. A separare le abitazioni dalla strada c’è una recinzione metallica, su cui gli abitanti hanno appeso cartelli che gridano la loro rabbia e la loro frustrazione. Su uno si legge: «Noi viviamo sempre con la valigia pronta». Su un altro: «Voi non avete mosso un dito». Sotto la frase, il dito disegnato è il medio.

«Alle 10.35 del mattino l’argine ha ceduto e siamo stati inondati da cinque metri d’acqua – ricorda Luca Baldi, presidente del comitato Traversara Futura – A quel punto io, mio figlio e mia moglie ci siamo rifugiati sul tetto attendendo i soccorsi. Ora abitiamo a Lugo, in un appartamento in affitto e, dopo 365 giorni esatti, siamo ancora in attesa dell’autorizzazione per rientrare nella nostra casa».

Assieme a lui altre 50 persone vivono la stessa situazione: «Io abitavo nella casa che si vede bene dalla strada – racconta Gianfranco Bernardi – quella con la parete sventrata e il termosifone che penzola dal soffitto. L’acqua è salita a una velocità impressionante, dopo pochi minuti ci arrivava già al ginocchio. Così ho preso mia mamma e siamo scappati».

La casa di Gianfranco Bernardi con la parete sventrata e il termosifone che penzola dal soffitto. Foto di Fulvio Zappatore

Anche chi non ha avuto la casa distrutta ma “soltanto” allagata non se l’è passata meglio: «L’acqua è arrivata a 180 cm di altezza – racconta Alfio, che abita a pochi metri dalla zona rossa –. Abbiamo dovuto rifare tutto il primo piano e ricomprare macchine e motorini che erano in garage. In tutto, 180mila euro di danni. Però almeno abbiamo ancora la nostra casa».

Passata l’emergenza chi è rimasto nella propria abitazione ha ricevuto i 5mila euro del “Contributo di immediato sostegno” e, per il resto, ha dovuto mettere mano al portafoglio per sistemare i danni. Ora aspetta i rimborsi attraverso la piattaforma Sfinge, con i fondi messi a disposizione da Regione e Governo. Chi invece non è ancora potuto rientrare percepisce il “Contributo di autonoma sistemazione” per coprire le spese d’affitto: circa 300 euro al mese per un singolo, che aumentano in base al numero dei componenti del nucleo familiare. Un sostegno utile, ma che difficilmente compensa la precarietà di vivere lontano da casa propria, senza certezze sui tempi della ricostruzione.

In molti, tra gli sfollati, raccontano di una quotidianità sospesa: valigie sempre pronte, documenti e foto salvati all’ultimo minuto, la sensazione di essere “ospiti” in un luogo che non è il loro. «Io so solo che non ho più la mia casa – racconta Attilia Alboni – e ora qua è un degrado totale». La casa di Attilia, detta “Lia”, era proprio sotto l’argine che ha ceduto. Di tutto l’edificio restano solo il pavimento e i primi tre gradini delle scale.

La signora Lia dietro le macerie. Foto di Fulvio Zappatore

Ora però c’è una nuova, difficile decisione che gli abitanti di Traversara dovranno affrontare: provare a ricostruire tutto o abbandonare per sempre la propria casa, cercando una sistemazione altrove. È questo, infatti, il cuore del decreto sulle delocalizzazioni varato dal commissario straordinario Fabrizio Curcio, con l’intesa della Regione e il via libera della Corte dei Conti. L’ordinanza prevede contributi fino a 2.200 euro al metro quadro per chi non potrà più ricostruire nello stesso sito, giudicato troppo a rischio. Le famiglie coinvolte avranno diverse possibilità: costruire su un altro terreno di proprietà, acquistare un’area edificabile, comprare un immobile già pronto oppure acquistarne uno da ristrutturare. Non si tratta solo di una questione economica, ma di identità. Chi accetterà la delocalizzazione dovrà lasciare per sempre l’area alluvionata: i terreni e le case demolite diventeranno patrimonio del Comune. «L’obiettivo è comunque quello di mantenere le persone a Traversara – ha spiegato a L’Indipendente il sindaco Matteo Giacomoni – puntando a ricostruire quello che si può».

Foto di Fulvio Zappatore

C’è però il problema della sicurezza, in un territorio che in appena due anni ha subito quattro alluvioni. E non è un dettaglio: senza interventi strutturali il rischio di nuove esondazioni resta alto. Per questo, accanto al decreto sulle delocalizzazioni, il cuore del dibattito è la messa in sicurezza del fiume Lamone. Sono già partiti i lavori di ripristino e consolidamento dell’argine sinistro all’altezza di Villanova di Bagnacavallo: un intervento da 7,5 milioni di euro, primo passo di un piano più ampio. In parallelo sono stati finanziati e in gran parte conclusi lavori urgenti sugli argini nei comuni di Ravenna, Russi e Bagnacavallo, per oltre 5 milioni di euro, mentre un cantiere da 1,7 milioni è in corso proprio nel tratto che attraversa Traversara. Ma non basta. Gli esperti sottolineano da tempo che la vera sfida è creare spazi dove il fiume possa sfogarsi senza travolgere i centri abitati. Da qui il progetto delle vasche di laminazione, bacini artificiali in grado di contenere milioni di metri cubi d’acqua nei momenti di piena. L’Emilia-Romagna ne ha già attivate alcune, ma sul Lamone se ne progettano di nuove, ritenute indispensabili per ridurre il rischio idraulico in pianura.

Foto di Fulvio Zappatore

Intanto a Traversara sta tornando l’autunno, anche se il tempo sembra essersi fermato. Le case sventrate lungo via Torri restano lì, come un promemoria costante dell’alluvione. Un anno dopo, il semaforo all’ingresso del paese resta acceso. Non regola il traffico: scandisce una attesa. E Traversara, ferita e divisa, aspetta ancora di tornare a vivere.

Deportivo Palestino: la squadra palestinese che sogna di vincere il campionato cileno

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Sono più di 10.000 i chilometri che separano il Medio Oriente dal Sud America, ma nonostante questa distanza (geografica, storica e culturale), il calcio, come molte volte è accaduto, riesce a stringere due popoli, davanti a un goal o a una parata all’ultimo minuto. Nonostante i business milionari al quale questo sport ci ha abituato, in questo caso specifico, il pallone ha creato un ponte che ha unito e unisce ancora oggi la Palestina e il Cile.

Le relazioni tra questi due Paesi si sviluppano in un asse temporale ormai plurisecolare: i primi migranti lasciarono la Palestina all’epoca sotto dominazione ottomana e raggiunsero il Paese latino-americano durante gli ultimi anni del XIX secolo. Le prime comunità provenivano dalle aree di Betlemme, Bayt Jala e Beit Sahour e durante gli anni di crisi dell’impero intrapresero un viaggio che li condusse dall’Europa, all’Argentina e infine al Cile. 

Queste comunità rappresentarono il punto di arrivo per molte delle persone palestinesi che, in varie ondate, emigrarono dalla Palestina con la caduta dell’impero ottomano alla fine del primo conflitto mondiale o per le migliaia di palestinesi che si videro obbligati a fuggire in seguito alla costituzione dello Stato di Israele e alla conseguente Nakba. A oggi, la comunità palestinese in Cile conta all’incirca 500.000 persone ed è la più grande al di fuori del mondo arabo.

La storia del Deportivo Palestino affonda le sue radici nella comunità palestinese di Recoleta, quartiere a sud della capitale, Santiago. L’associazione nasce nel 1920 e pochi anni dopo si fonde con il Club Palestino, trasformandosi così in una società polisportiva. Tuttavia, sarà solo nel 1950 che, in occasione delle Primeras Olimpiadas Palestinas, farà il suo debutto la squadra di calcio che dopo aver vinto il torneo procede con l’iscrizione del team nella seconda divisione del campionato cileno. 

Raggiunta rapidamente la competizione massima, il Palestino ottiene negli anni successivi i risultati più importanti, tra cui la vittoria del campionato di prima divisione nel 1955 e nel 1978, della Copa Chile nel 1975, 1977 e 2018 e varie partecipazioni alla Copa Libertadores e alla Copa Sudamericana.

Nonostante nella squadra della stagione attuale non faccia parte alcun giocatore di origine palestinese, dalla sua fondazione il club è sempre stato fortemente legato alla questione palestinese, schierandosi apertamente a sostegno delle popolazioni gazawi e cisgiordana. All’interno del quartiere nel quale sorge lo stadio di casa, La Cisterna, il momento delle partite è un’occasione per vivere a pieno la cultura palestinese: attraverso il cibo, la musica o la politica, la comunità ricrea una porzione di Palestina nel luogo che ha accolto la sua gente. All’ingresso dello stadio vengono distribuite bandiere palestinesi e keffyah e, sia sul campo da gioco che sugli spalti, squadra e tifoseria hanno espresso nettamente più volte la propria condanna contro il genocidio che Israele sta commettendo a Gaza. 

Questa squadra, che può superficialmente sembrare un’anomalia calcistica, in Cile oltrepassa la fede sportiva e crea un legame indissolubile tra due popoli. «¡Más que un equipo, todo un pueblo!» (Più che una squadra, un popolo intero) è lo slogan che rappresenta una squadra che più volte ha attirato le attenzioni internazionali, grazie ad alcune azioni dentro e fuori dal campo.

La maglia della squadra richiama esplicitamente i colori della bandiera e alcuni dei simboli della resistenza palestinese. Nel 2014, il club ha deciso di adottare una maglia che utilizzava la forma della Palestina storica al posto del numero 1. Le reazioni non si sono fatte attendere: la comunità ebraica cilena ha mosso ricorso all’Associazione Nazionale di Football Professionale (ANFP) che ha successivamente multato la squadra per irregolarità nelle misure dei numeri e per espressione di contenuto politico. La notizia è rimbalzata rapidamente tra i giornali, scatenando il plauso e il sostegno di una parte della comunità internazionale.

Fuori dal terreno di gioco il club si è mobilitato per contribuire attivamente ai progetti sportivi in Palestina; nel 2020, dopo un viaggio che ha permesso alla squadra di rafforzare ulteriormente i legami in Cisgiordania, il Deportivo Palestino ha aperto tre scuole calcio in Palestina per mantenere vivo il sogno del calcio tra i bambini e le bambine palestinesi. Queste azioni hanno segnato ulteriormente la relazione del club con la Palestina, spingendo anche il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas a ringraziare apertamente la squadra per il suo impegno nel portare alti i colori del popolo palestinese. Dall’inizio del genocidio il club non ha perso occasione per denunciare i crimini israeliani a Gaza e ha aperto varie campagne di raccolta fondi per sostenere la popolazione gazawi e donare alimenti destinati alla Striscia.

Nel 2009 nasce la squadra femminile del club che nel 2015 vince il Campionato Clausura di prima divisione; attualmente, l’undici del Palestino vanta la presenza della giocatrice Rania Sansur, che oltre a essere la prima giocatrice con ascendenza palestinese nel team, è la prima giocatrice del club a essere stata convocata nella selezione nazionale assoluta della Palestina.

Se la squadra femminile ha potuto vantare il recente successo nel campionato cileno, l’undici maschile manca all’appuntamento dal 1978: quest’anno, però, sembrano esserci valide speranze per credere al miracolo. Al di là della competizione sportiva, due squadre portano con orgoglio la bandiera di un popolo che davanti all’indifferenza della comunità internazionale subisce quotidianamente l’annichilimento da parte dello Stato genocida di Israele.

A più di 10.000 chilometri di distanza e legata più che mai alla sua terra d’origine, in Cile una comunità sogna mentre vede i colori della sua bandiera muoversi nello stadio de La Cisterna. In mezzo al dolore di un intero popolo, il Deportivo rappresenta la resistenza della Palestina e il sogno di chi conserva il ricordo della propria terra d’origine. 

Bielorussia espelle diplomatico ceco in risposta alle accuse di spionaggio

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La Bielorussia ha reagito con una mossa diplomatica contro la Repubblica Ceca: ha ordinato a un diplomatico ceco di lasciare il Paese entro 72 ore, in risposta alle accuse di Praga che avrebbero svelato un presunto giro di spionaggio orchestrato dal KGB bielorusso. Secondo l’agenzia di intelligence ceca (BIS), la Bielorussia è riuscita a creare una tale rete di spionaggio perché i suoi diplomatici possono viaggiare liberamente attraverso i Paesi europei. Le autorità ceche, insieme a Polonia, Ungheria e Romania, avevano già espulso diplomatici bielorussi, sostenendo che agenti sotto copertura operavano in diversi Stati europei. Il governo di Minsk ha definito le accuse “preconcette” e parte di una campagna tesa a screditare il Paese.

Cyberattacco paralizza aeroporti di Bruxelles, Berlino e Londra

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Un attacco informatico ha colpito un fornitore di servizi esterno che gestisce i sistemi di check-in e imbarco, portando gravi disagi negli aeroporti di Bruxelles, Berlino-Brandeburgo e Londra Heathrow. I sistemi automatizzati sono andati offline, costringendo il personale a passare alle procedure manuali, con conseguenti ritardi e cancellazioni di voli. Bruxelles segnala già nove partenze cancellate e una quindicina di voli in ritardo oltre un’ora; l’operatore coinvolto dichiara di lavorare al più presto per ripristinare la normalità. Le autorità aeroportuali invitano i passeggeri a contattare le compagnie aeree prima di recarsi in aeroporto.