venerdì 14 Novembre 2025
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La NATO accusa Mosca di violare lo spazio aereo estone e invia in risposta jet italiani

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L’ennesima scintilla accesa sul fronte orientale d’Europa arriva dall’Estonia: Tallinn ha accusato la Russia di aver violato il proprio spazio aereo con tre jet da combattimento MiG-31. I caccia, secondo la versione estone, avrebbero sorvolato l’isola di Vaindloo, nel Golfo di Finlandia, restando all’interno dello spazio nazionale per circa dodici minuti, senza piani di volo registrati, con i transponder spenti e senza comunicazioni con il controllo aereo, costringendo due F-35 italiani dispiegati nelle basi sul Baltico per il dispositivo “Sentinella dell’Est” ad alzarsi in volo per intercettarli e respingerli. Una dinamica che, per le autorità baltiche, rappresenta un atto deliberato di provocazione. Immediata la reazione del ministero degli Esteri, che ha convocato l’ambasciatore russo, denunciando l’episodio come «una grave violazione della sovranità nazionale e del diritto internazionale». Mosca ha respinto l’accusa con fermezza. Il ministero della Difesa russo ha dichiarato che i jet stavano effettuando un volo programmato da Carelia verso Kaliningrad, lungo rotte internazionali sopra le acque neutrali del Mar Baltico: «Durante il volo, gli aerei russi non si sono discostati dalla rotta aerea concordata e non hanno violato lo spazio aereo estone», ha dichiarato il ministero, precisando che i jet hanno sempre mantenuto una distanza superiore ai tre chilometri dall’isola di Vaindloo.

La smentita netta da parte di Mosca non è bastata per placare l’ira di Tallinn che denuncia «un’audacia senza precedenti», specificando che si tratterebbe della quarta violazione russa registrata dall’inizio del 2025. Il ministro degli Esteri estone Margus Tsahkna ha condannato la violazione come “totalmente inaccettabile”. Seguendo l’esempio della Polonia di dieci giorni fa, Tallinn ha formalmente invocato l’Articolo 4 del Trattato della NATO, chiedendo consultazioni immediate, che il Consiglio Nordatlantico ha già convocato per l’inizio della settimana prossima. Dall’Unione Europea, sono arrivate reazioni forti a poche ore dall’adozione del diciannovesimo pacchetto di sanzioni alla Russia: l’Alto Rappresentante per la politica estera, Kaja Kallas, ha definito la violazione come una “provocazione estremamente pericolosa”, sottolineando che Mosca sta testando i limiti di risposta dell’Occidente. Ursula von der Leyen ha assicurato che l’Europa “risponderà a ogni provocazione”. Anche il Presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, ha promesso che le azioni di Mosca saranno affrontate collettivamente al prossimo incontro informale del Consiglio, a Copenaghen del primo ottobre. Quella in Estonia «è stata una inaccettabile violazione dello spazio aereo di un Paese europeo, quindi dell’Unione Europea e della NATO», ha commentato il ministro degli Esteri Antonio Tajani, mentre il ministro della Difesa Guido Crosetto ha chiarito che «a un passo dalla follia un ministro della Difesa deve sempre pensare al peggio» e ha deciso di avviare piani logistici di contrasto per evenienze belliche. Un progetto riservato che guarda anche alla guerra ibrida, ora che la Difesa italiana potrà ingaggiare esperti di cybersicurezza. Per il presidente americano Donald Trump, la violazione russa dello spazio aereo dell’Estonia «potrebbe essere un grosso problema».

Nel fitto intreccio di accuse e smentite, il clima di tensione tra Russia e NATO si fa sempre più incandescente. Da un lato, l’Estonia e gli altri Paesi baltici si percepiscono come la prima linea dell’Alleanza, costantemente esposta a sconfinamenti e provocazioni; dall’altro, Mosca denuncia un’operazione orchestrata dall’Occidente per costruire artificialmente un nuovo scenario da guerra fredda. Non è un meccanismo nuovo: negli ultimi giorni, diverse denunce rivolte alla Russia si sono rivelate fragili o infondate. È il caso dei presunti droni russi che avrebbero attraversato lo spazio aereo polacco, salvo poi scoprire che alcuni dei rottami che hanno colpito il tetto di una abitazione a Wyryki-Wola, nella regione di Lublino, appartenevano a un missile difettoso lanciato dalle stesse forze di Varsavia. O ancora, l’episodio del presunto sabotaggio GPS all’aereo di Ursula von der Leyen, inizialmente dipinto come un atto ostile di “guerra ibrida” del Cremlino, che successivamente si è scoperto non essere mai avvenuto. In questo contesto, ogni episodio diventa immediatamente la prova di un’aggressione imminente, utile a rafforzare la narrazione di una minaccia russa costante. La ripetizione di accuse prive di solide evidenze rischia di erodere la credibilità dell’Occidente e, soprattutto, di alimentare una spirale pericolosa: più si accumulano sospetti, meno conta verificarli, perché ciò che prevale è la “percezione”. L’incidente denunciato da Tallinn si inserisce in una catena di episodi che da mesi spinge l’Europa orientale verso una crescente militarizzazione, trasformando ogni possibile incidente in un casus belli. La nuova accusa rischia così di diventare l’ennesimo tassello di una strategia comunicativa che esaspera lo scontro e allontana ogni prospettiva di pace, trascinando l’opinione pubblica in una guerra permanente fatta di accuse mediatiche e verità parziali.

Fitch alza il rating dell’Italia a BBB+, outlook stabile

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L’agenzia Fitch ha migliorato il giudizio sull’Italia, portandolo da BBB a BBB+ con outlook stabile, grazie a una maggiore fiducia nel percorso di finanze pubbliche. Per il biennio 2025-2027 è prevista una riduzione graduale del deficit, che quest’anno dovrebbe attestarsi al 3,1% del PIL. Il debito pubblico è stimato in crescita fino al 137,6% del PIL nel 2026, pur restando significativamente superiore alla media dei paesi con rating BBB. Politica stabile e riforme in corso concorrono al miglioramento degli indicatori di credito.

Francia, continua la mobilitazione: centinaia di migliaia in piazza per lo sciopero generale

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Continuano le mobilitazioni in Francia, dove la crisi politica e socioeconomica ha innescato animate proteste da parte dei cittadini, soprattutto contro i tagli alla spesa pubblica proposti dal governo. Ieri centinaia di migliaia di persone hanno partecipato allo sciopero nazionale in tutta la Francia contestando le politiche di austerità e chiedendo l’annullamento dei piani fiscale del precedente governo, l’aumento della spesa pubblica, una tassazione maggiore per le fasce ricche della popolazione e l’annullamento di una modifica che prevede l’estensione degli anni lavorativi per andare in pensione. Giovedì è stata la seconda giornata di ampie proteste negli ultimi dieci giorni, dopo la manifestazione organizzata lo scorso 10 settembre che ha dato vita al movimento “Bloquons tout” (“Blocchiamo tutto”). Insieme alla mobilitazione contro la riforma delle pensioni voluta dal presidente Emmanuel Macron, quelle attuali sono state le manifestazioni di contestazione più partecipate degli ultimi due anni e si sono svolte in forma prevalentemente pacifica.

Secondo la confederazione di sindacati CGT, alle proteste hanno preso parte un milione di persone, mentre secondo le autorità i partecipanti sarebbero stati circa la metà. I disordini hanno coinvolto anche le città di Nantes, di Rennes e di Lione. Sebbene siano state mobilitazioni prevalentemente pacifiche, si sono verificati alcuni scontri con le forze dell’ordine a margine delle manifestazioni e il ministero dell’Interno ha riferito di 181 persone arrestate, di cui 31 nella capitale. Sono stati circa 80.000 i poliziotti e i gendarmi schierati nel corso della giornata, insieme a unità antisommossa, droni e veicoli blindati. A Parigi, la polizia ha lanciato gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti che lanciavano loro lattine di birra e pietre ed è intervenuta anche per impedire che alcuni dimostranti prendessero di mira le banche. Il livello di violenza è stato comunque contenuto rispetto a quanto aveva ipotizzato il ministro dell’Interno Bruno Retailleau, ma l’ira dei francesi è incontenibile: «La rabbia è immensa, così come la determinazione. Il mio messaggio al signor Lecornu oggi è questo: sono le strade a dover decidere il bilancio», ha affermato Sophie Binet, presidente del sindacato CGT.

I settori più colpiti dagli scioperi sono stati quelli dell’istruzione e del trasporto pubblico, ma anche dell’elettricità: secondo il sindacato FSU-SNUipp, un insegnante di scuola primaria su tre era in sciopero in tutto il paese e quasi uno su due ha abbandonato il lavoro a Parigi. I treni regionali, invece, hanno subito interruzioni, mentre la maggior parte delle linee ferroviarie ad alta velocità TGV del Paese è rimasta in funzione. Gran parte delle farmacie è rimasta chiusa e la società energetica EDF ha avvisato di un calo nell’erogazione di energia elettrica di circa 4000 megawatta a causa dello sciopero del personale in alcune centrali del paese. Nei settori dell’elettricità e del gas, dove il sindacato CGT ha indetto uno sciopero dall’inizio di settembre per chiedere salari più alti e tasse sull’energia più basse, il sindacato ha segnalato una «forte mobilitazione». Alcuni ​​manifestanti si sono inoltre radunati per rallentare il traffico su un’autostrada vicino alla città sudorientale di Tolone.

Le proteste si inseriscono in un clima politico caratterizzato da crisi e tensioni parlamentari: la scorsa settimana, l’8 settembre, l’ex primo ministro François Bayrou, è stato sfiduciato dal parlamento proprio a causa del suo piano di bilancio lacrime e sangue, pensato per fare risparmiare alle casse statali quasi 44 miliardi di euro. È proprio l’austerità di Bayrou che ha innescato le ampie proteste degli ultimi giorni. Da parte sua, il nuovo primo ministro voluto da Macron, Sebastien Lecornu, in un post sulla piattaforma X ha promesso di incontrare nuovamente i sindacati «nei prossimi giorni». Questa mattina i dirigenti delle otto principali organizzazioni sindacali francesi si sono incontrati per redigere una dichiarazione congiunta, in base alla quale se Lecornu non fornirà una risposta adeguata alle aspettative dei lavoratori entro il 24 settembre, i sindacati inviteranno nuovamente la popolazione a scendere in piazza e a scioperare. Secondo il quotidiano francese Le Monde, il titolo del comunicato stampa menziona anche l’invio di un “ultimatum” al capo del governo.

Macron e Lecornu si trovano sotto pressione da parte di due fronti opposti tra loro: da un lato, i manifestanti e i partiti di sinistra contrari al taglio della spesa pubblica; dall’altro, la finanza e gli investitori preoccupati dal possibile sforamento del deficit della seconda economia dell’eurozona. La situazione attuale vede la Francia in una crisi politica e sociale senza precedenti, in cui allo scontento popolare si aggiunge la profonda divisione parlamentare: nessuno dei tre partiti principali, infatti, ha la maggioranza.

La crisi della Francia non è però un problema solo nazionale, ma riflette in modo marcato la divisione sociopolitica, la crisi economica e lo scollamento tra governo e cittadini delle nazioni europee. Al momento Lecornu, messo all’angolo dalla collera popolare, ha manifestato la volontà di scendere a compromessi.

O’scià: il respiro di Lampedusa

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O’scià vuol dire respiro. È il saluto che accoglie chi arriva a Lampedusa, l’isola-frontiera che da anni porta sulle spalle il peso delle rotte migratorie del Mediterraneo. 

Insieme a Giulia Cicoli, cofounder di Still I Rise, siamo andate a Lampedusa a fine luglio con un obiettivo preciso: guardare da vicino un luogo che troppo spesso viene raccontato solo nei momenti di tragedia e provare a capire cosa significa vivere e arrivare su questa soglia d’Europa. 

Dal primo giorno abbiamo visto che Lampedusa è un paradosso. Qui non si nasce: non ci sono ostetriche né ospedale e le residenti devono spostarsi a Palermo o Agrigento per partorire. Gli unici bambini che oggi nascono davvero sull’isola sono quelli delle donne migranti, venuti alla luce durante gli sbarchi. Se nascere è raro, morire è purtroppo frequente — come ci ricordano anche le notizie di naufragi di questo agosto. Al cimitero abbiamo trovato tombe senza nome, vite custodite in celle frigorifere in attesa di trasferimento, storie che non diventano notizia ma che restano incise nella memoria dell’isola. 

Abbiamo assistito anche agli sbarchi. In pochi minuti uomini, donne e bambini vengono condotti al molo, sotto lo sguardo delle forze dell’ordine e degli operatori. La prima richiesta è sempre la stessa: «Avete Wi-Fi?». Non è un dettaglio, ma il segno che il bisogno più urgente, dopo la paura e il silenzio del mare, è dire a casa: «Sono vivo». Accanto a loro la società civile offre ciabatte, tè caldo, piccoli gesti di umanità. Ma tutto avviene in fretta: in 24 ore le persone vengono trasferite altrove. Come è possibile, in così poco tempo, informare sui diritti, garantire cure, riconoscere vulnerabilità? È la crepa che più ci interroga, perché qui la frontiera non è mai neutra: è un dispositivo che seleziona, incasella, esclude. 

Eppure Lampedusa non è solo dolore. Abbiamo incontrato Agricola Mpidusa, una cooperativa che pianta semi in una terra difficile, creando lavoro e comunità. È la dimostrazione che anche su quest’isola di passaggi e partenze ci sono energie che resistono, che costruiscono futuro. Il nostro viaggio si è concluso alla Porta d’Europa, il monumento che guarda al mare e che ricorda a tutti che da qui tutto comincia e tutto finisce. Ed è proprio lì che abbiamo capito perché eravamo arrivate: per raccogliere un filo che non può spezzarsi. 

Come Still I Rise, vogliamo seguire le traiettorie delle migrazioni lungo tutto il loro percorso. Da Lampedusa, punto di approdo e di transito, continueremo a osservare cosa accade dopo: nei centri di accoglienza in Sicilia, nelle città italiane dove i migranti cercano di ricostruire la propria vita, lungo le rotte europee che troppo spesso si trasformano in muri invisibili. 

Perché la migrazione non è un episodio isolato, non è “un’emergenza”: è un fenomeno strutturale, che attraversa i confini e ci riguarda tutti. Raccontarla significa restituire un’immagine reale e onesta di questo sistema, significa sottolineare i successi ma anche le mancanze, che non colpiscono solo i migranti ma raccontano molto anche dell’Italia, delle sue fragilità e delle sue contraddizioni. 

Lasciamo Lampedusa con più domande che risposte, ma con la certezza di un compito: continuare a guardare, ascoltare, testimoniare. Perché finché ci sarà chi attraversa il mare, ci dovrà essere chi sceglie di non voltarsi dall’altra parte. E questo è solo l’inizio.

La Commissione UE vara un nuovo pacchetto di sanzioni contro la Russia

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La Commissione Europea ha annunciato l’approvazione del diciannovesimo pacchetto di sanzioni contro la Russia. Questa volta le sanzioni prendono di mira 118 navi, accusate di essere parte della cosiddetta “flotta ombra” utilizzata da Mosca per commerciare beni sotto sanzioni e, per la prima volta, colpisce alcune piattaforme di criptovalute che Mosca utilizzerebbe per i pagamenti internazionali. Inoltre la Commissione ha affermato di essere al lavoro per cessare ogni importazione di gas russo, assecondando ancora una volta il desiderio espresso da Donald Trump. L’esecutivo von der Leyen proporrà di fissare l’entrata in vigore del divieto al 1° gennaio 2027, rispetto alla scadenza originaria del 2028.

Meta annuncia i Meta Ray-Ban Display, gli smart glasses di nuova generazione

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In occasione del Meta Connect 2025, Meta ha annunciato il lancio di un dispositivo noto come Meta Ray-Ban Display, una forma evoluta degli smart glasses che negli scorsi anni la Big Tech ha già commercializzato al fianco di Ray-Ban. La grande differenza? Stavolta all’interno della lente è presente un display, un dettaglio che potrebbe trasformarli da semplice gadget social a strumenti funzionali di realtà aumentata. Lo strumento si dota di comandi rapidi facilitati da un braccialetto sensorizzato e di funzionalità avanzate supportate dall’ intelligenza artificiale. Nulla si è invece detto sull’eventuale introduzione di soluzioni concrete per mitigare l’impatto dello strumento sulla privacy di coloro che finiscono sotto lo sguardo dell’indossatore.

Allontanandosi progressivamente dal miraggio del metaverso, Meta si sta sempre più appoggiando alla collaborazione che ha stretto con EssilorLuxottica per commercializzare prodotti capaci di ibridare reale e digitale. Meta Ray-Ban Display promette un’esperienza più immersiva grazie a comandi touch sulle aste e al suo braccialetto “neurale” che dovrebbe essere in grado di rilevare i gesti del polso. “Promette”, perché la dimostrazione live al Meta Connect 2025 ha riservato momenti imbarazzanti con intoppi che, dopo lunghi incespicamenti, sono stati attribuiti a una pessima connessione Wi-fi. Il prodotto sarà comunque venduto negli Stati Uniti il prossimo 30 settembre al prezzo di 799 dollari.

Se Meta Ray-Ban Display riuscirà a funzionare come si deve, finirà indiscutibilmente con l’essere uno strumento tech estremamente attraente. È l’apice delle odierne evoluzioni tecniche di Meta, il più grande successo che l’azienda può vantare nella gamma dei prodotti. Allo stesso tempo, però, gli smart glasses in questione sono spesso additati come un pericoloso strumento di videosorveglianza che rischia di violare la riservatezza dell’individuo o prestarsi ad altri usi degni di allarme. 

Nel 2024, un ex veterano statunitense, Shamsud-Din Jabbar, ha utilizzato occhiali Meta per filmare il French Quarter di New Orleans prima di compiere una strage a Capodanno che ha mietuto 14 vittime. Nel giugno del 2025, si è scoperto che almeno un agente della Polizia di Frontiera degli Stati Uniti (CBP) indossava l’apparecchio di registrazione durante un raid. Anche in Italia si è già assistito a derive allarmanti: Maria Rosaria Boccia, influencer e imprenditrice protagonista del cosiddetto “Caso Sangiuliano”, ha usato proprio i Ray-Ban Meta per riprendere aree conversazioni confidenziali e segreti ministeriali.

Questi episodi rappresentano certamente abusi da parte degli utenti, tuttavia evidenziano chiaramente come dispositivi concepiti per il consumo digitale, se non adeguatamente implementati, possano sfociare in panorami lesivi della privacy e addirittura mettere a repentaglio la sicurezza istituzionale. Sin dal 2021, il Garante della privacy italiano e il suo omologo irlandese hanno manifestato dubbi sulla legittimità dello strumento, tuttavia Meta ha difeso il prodotto sottolineando la presenza di un LED che si illumina durante le riprese video. Peccato che la prassi comune abbia dimostrato quanto sia facile oscurare o ignorare quel segnale, vanificando del tutto quest’unica funzione di trasparenza. Anzi, attorno all’occultazione del LED luminoso si è sviluppato addirittura un vivacissimo mercato parallelo, il quale prospera sulla base di un pubblico che, evidentemente, vuole registrare in maniera segreta le persone che gli sono attorno.

Il quadro è aggravato dalla fame di dati che caratterizza il settore dell’intelligenza artificiale. Meta, come molti suoi concorrenti, ha un interesse concreto a raccogliere contenuti multimediali per addestrare modelli sempre più sofisticati. Per questo motivo, l’azienda si arroga il diritto di fare ciò che vuole di video, audio e immagini processate o analizzate da Meta AI, anche quando l’operazione viene eseguita direttamente dagli smart glasses. E il Meta Ray-Ban Display ambisce a rendere ancora più pervasive e permeabili attraverso il sistema “Live AI”. Il sistema normativo europeo sta, almeno per il momento, arginando le derive più estreme di questo approccio, tuttavia, in un prossimo futuro, potremmo vivere in un mondo in cui contenuti trafugati attraverso gli smart glasses finiranno direttamente negli archivi di Meta, diventando di loro proprietà.

Boicottare Israele: il nuovo libro de L’Indipendente è una guida per passare all’azione

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Cosa possiamo fare per fermare Israele e il genocidio in corso a Gaza? Questa la domanda che tutti noi ci siamo fatti in questi infiniti mesi di massacro israeliano all’interno della Palestina occupata, assistendo inerti al silenzio complice dei nostri governi, a cominciare da quello italiano. Il libro “Boicottare Israele, azioni concrete per fermare il genocidio in Palestina” nasce dalla volontà di rispondere a questa domanda, fornendo a tutti una guida semplice, chiara ed esaustiva per sapere come colpire le radici economiche e finanziarie che nutrono i crimini israeliani, e quindi contribuire a fermare l’afflusso di denaro che rende possibile l’occupazione della Palestina e il massacro del suo popolo. Semplici gesti per essere cittadini attivi e non più spettatori, esercitando scelte consapevoli durante la propria quotidianità: quando si fa la spesa, quando si naviga su internet, quando si cerca un hotel per una vacanza o un viaggio di lavoro, quando si fa il pieno all’automobile.

Una guida scritta dalla redazione de L’Indipendente con l’indispensabile collaborazione di BDS Italia – il movimento che coordina a livello nazionale la campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro il regime israeliano – e il prezioso contributo di Francesca Albanese (Relatrice speciale ONU sui territori palestinesi occupati) e Omar Barghouti (Difensore dei diritti umani palestinese, cofondatore del movimento BDS e co-vincitore del Premio Gandhi per la Pace 2017), che del libro hanno scritto rispettivamente introduzione e postfazione del testo.

I detrattori spesso sostengono che il boicottaggio non serve. È una bugia studiata per demotivare le persone. A dimostrarlo sono non solo i risultati concreti già raggiunti, che sono dettagliati all’interno del libro, ma soprattutto l’autentico terrore che il governo israeliano ha della campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni: il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato il BDS una “minaccia strategica”, mentre il governo di Tel Aviv ha stanziato milioni di dollari per contrastare il movimento a livello internazionale.

La lista dei prodotti da evitare per sanzionare concretamente le aziende che lucrano sull’occupazione e la rendono di fatto possibile è stata scelta con cura con il prezioso contributo di BDS Italia e della stessa Francesca Albanese che con il suo ultimo rapporto, intitolato Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio, ha contribuito in maniera decisiva a permetterci di individuare i nodi principali del sistema economico che fiancheggia l’occupazione e il genocidio.

È grazie a questa sinergia che abbiamo potuto pubblicare la prima guida completa in lingua italiana dei prodotti da boicottare in solidarietà alla lotta palestinese. L’obiettivo che ci siamo dati è quello di farla circolare il più possibile, rendendola disponibile al prezzo di copertina più basso che ci era consentito al netto dei costi: 9,50 euro, spese di spedizione incluse. Per acquistarla potete visitare questo link, oppure cliccare sull’immagine sottostante. Grazie.

New York, arrestati 11 funzionari Dem in protesta contro agenzia immigrazione

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A New York undici funzionari eletti del Partito Democratico sono stati arrestati durante una protesta contro le condizioni di detenzione degli immigrati in un centro ICE (agenzia federale USA che si occupa del controllo delle frontiere e dell’immigrazione). L’azione è seguita a un’ordinanza federale che aveva imposto all’agenzia di migliorare celle sovraffollate e insalubri. Tra gli arrestati figurano il revisore dei conti Brad Lander, già fermato in giugno, e il difensore civico Jumaane Williams. Alcuni hanno tentato di ispezionare le celle al decimo piano di Federal Plaza, altri hanno bloccato i garage usati dai furgoni ICE, esponendo uno striscione “NYers against ICE”.

Turchia, i tracciati smascherano le bugie di Erdogan: nessun divieto al commercio israeliano

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A fine agosto il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan ha tenuto un discorso davanti al Parlamento del Paese per parlare dell’attuale situazione a Gaza. «Nessun altro Paese al mondo ha adottato più misure della Turchia in materia di sanzioni», ha annunciato Fidan con tono trionfale. La Turchia, sostiene il ministro, avrebbe chiuso i porti alle navi israeliane, impedito alle imbarcazioni turche di attraccare nei porti di Israele, chiuso lo spazio aereo del Paese agli aerei diretti verso lo Stato ebraico e addirittura «completamente interrotto i suoi scambi commerciali con Israele». Tutte affermazioni false o nel migliore dei casi controverse, tanto che alcune di esse sono state smentite dallo stesso governo turco. Altre, invece, sembrano basarsi su una autentica manipolazione dei dati: se le esportazioni verso Israele figurano azzerate, infatti, quelle verso la Palestina sarebbero aumentate esponenzialmente, tanto da toccare picchi di crescita del 120.000%.

Il ministro Fidan ha annunciato la chiusura dello spazio aereo e portuale turco ai mezzi legati a Israele lo scorso 29 agosto, in un discorso in Parlamento ripreso dai media del Paese: «Abbiamo chiuso i nostri porti alle navi israeliane. Non permettiamo alle navi turche di accedere ai porti israeliani», ha detto Fidan; analogamente, «non permettiamo agli aerei di entrare nel nostro spazio aereo». L’Indipendente ha provato a verificare le affermazioni di Fidan, trovando non poche incongruenze. Per quanto riguarda le dichiarazioni sugli aerei, consultando il sito di monitoraggio Flight Radar, è possibile notare che sin dall’annuncio di Fidan i velivoli diretti verso Israele hanno continuato senza alcun problema a sorvolare lo spazio turco. Dopo tutto, poche ore dopo l’intervento del ministro lo stesso governo avrebbe smentito sé stesso: un funzionario del ministero degli Esteri avrebbe infatti dichiarato all’agenzia di stampa Reuters che le parole di Fidan erano state interpretate male; «Le dichiarazioni del ministro si riferiscono ai voli ufficiali israeliani e ai voli che trasportano armi o munizioni in Israele. Ciò non si applica ai voli commerciali in transito», avrebbe detto il funzionario.

Il funzionario citato da Reuters non parla delle dichiarazioni relative ai porti, cosa che suggerisce che la Turchia avrebbe effettivamente impedito l’accesso ai porti del Paese a tutte le navi legate a Israele e negato alle navi turche di viaggiare verso porti israeliani. La notizia è confermata dalle istituzioni portuali del Paese, che hanno diffuso le nuove regole da seguire per i porti e le navi turche. «Le imbarcazioni battenti bandiera turca non potranno attraccare nei porti israeliani» recita la prima regola. Allo stesso tempo, si legge nella regola 2, «alle imbarcazioni battenti bandiera israeliana e affiliate [ndr. a Israele] non è consentito attraccare presso le strutture costiere del nostro Paese», così come ricevere alcun tipo di assistenza navale e portuale; tali restrizioni, sostiene la regola 8, si applicano anche «agli yacht privati ​​e commerciali battenti bandiera israeliana». Le affermazioni di Fidan circa il traffico portuale del Paese, insomma, non lasciano spazio a interpretazioni. Eppure, anche in questo caso, non sembrano corrispondere al vero.

Per quanto riguarda il divieto alle navi legate a Israele di entrare nei porti turchi, L’Indipendente non è riuscito a verificare la veridicità delle affermazioni di Fidan. Consultando la lista di navi battenti bandiera israeliana sul sito di monitoraggio marittimo Marine Traffic sembra che l’11 settembre uno yacht privato, chiamato Li Ad, fosse diretto verso la città turca di Mersin. Cercando l’imbarcazione sulla mappa ed entrando sulla pagina a essa riservata, tuttavia, la nave risultava diretta al porto di Herzliya, in Israele. Ben diversa la situazione per quanto riguarda il divieto per le navi turche di entrare nei porti israeliani: lo stesso 11 settembre, infatti, la nave Burak Deval, battente bandiera turca, era attraccata nel porto di Haifa, e la nave Medkon Mersin, di proprietà di una compagnia turca e battente bandiera panamense, era diretta verso il porto di Ashdod. Il fatto che le navi turche continuino a operare senza indugio nei porti israeliani smentisce anche le affermazioni per cui la Turchia avrebbe «completamente» tagliato i propri rapporti commerciali con Israele. Secondo l’agenzia di stampa di proprietà governativa Anadolu, infatti, a partire dal 2 maggio, la Turchia avrebbe «sospeso completamente esportazioni, importazioni e commercio di transito in tutte le categorie di prodotto, senza che avvenga alcun commercio attraverso dogane o zone franche, portando il commercio con Israele a zero».

Giornali e operatori mediatici turchi lontani dalle aree di influenza governative sono ben consci del fatto che i rapporti del Paese con Israele non sarebbero mai stati davvero interrotti: il giornalista di inchiesta turco Metin Cihan ha infatti consultato i dati governativi relativi alle esportazioni e alle importazioni del Paese. Ad agosto 2023, la Turchia aveva esportato acciaio per circa 91 milioni di dollari verso Israele, e per circa 17mila dollari verso la Palestina; l’anno dopo, tuttavia, tali figure si sono invertite. La Turchia avrebbe completamente interrotto la vendita di acciaio a Israele, ma avrebbe esportato verso la Palestina circa 20 milioni di dollari in acciaio, registrando un aumento di poco inferiore al 120.000%. L’aumento spropositato di esportazioni verso la Palestina, per quanto più ridotto di quello comunicato da Cihan, è confermato anche da Anadolu secondo cui a settembre 2024 la Turchia avrebbe esportato acciaio per oltre 48 milioni di dollari verso la Palestina, contro i 156mila del 2023, con un presunto aumento che sfiora il 31.000%. Le figure delle esportazioni turche in Palestina sono ben poco verosimili, specialmente con il genocidio in corso a Gaza. Risulta, piuttosto, assai più probabile che la Turchia registri le esportazioni di acciaio verso Israele come esportazioni verso la Palestina, manipolando i dati interni.

Stop a riconoscimento facciale “FaceBoarding” a Linate, dubbi sulla sicurezza

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Il Garante per la protezione dei dati personali ha sospeso temporaneamente il sistema di “FaceBoarding” all’aeroporto di Milano Linate. La decisione resterà valida fino alla conclusione dell’istruttoria avviata per verificare la conformità del servizio alle norme europee sulla privacy. Il FaceBoarding, su base volontaria e riservato ai maggiorenni iscritti, consente ai passeggeri di effettuare tutte le fasi del check-in e dell’imbarco tramite riconoscimento facciale, senza presentare i documenti. L’Autorità ha sollevato criticità sulla gestione dei dati biometrici, conservati in un archivio centralizzato senza un reale controllo da parte degli utenti. SEA, società che gestisce lo scalo, difende la regolarità del sistema e auspica di poterlo riattivare una volta risolte le questioni legate alla tutela dei dati personali.