venerdì 14 Novembre 2025
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PFAS: l’Europa allenta i divieti sugli inquinanti eterni

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L’Agenzia europea delle sostanze chimiche ha rivisto la proposta di restrizione sui PFAS, le sostanze chimiche “eterne” che accumulandosi nell’ambiente e negli organismi umani provocano gravi danni alla salute, escludendo otto interi settori produttivi dal divieto, rinviandoli a una fase successiva, senza date precise. Si apre così la strada a deroghe che ne riducono drasticamente la portata. È un passo indietro rispetto alle ambizioni annunciate nel 2023, quando Bruxelles, su impulso di cinque Stati membri e con il supporto tecnico dell’ECHA, aveva promesso una delle restrizioni più ampie mai concepite sotto il regolamento REACH (la normativa europea che mira a migliorare la protezione della salute umana e dell’ambiente dai rischi delle sostanze chimiche): il divieto quasi totale dei PFAS. Era stato annunciato un intervento risolutivo, accompagnato da una consultazione pubblica senza precedenti. Citando come ragioni principali i limiti di tempo e il Piano d’azione per l’industria della Commissione europea di luglio, la giustificazione formale di questo compromesso è che mancherebbero alternative affidabili in quei settori, ma la percezione diffusa è che l’agenzia abbia ceduto alle pressioni dell’industria, con il rischio di compromettere l’efficacia dell’intera normativa, rinviando a data da destinarsi la regolamentazione di comparti ad alto impatto ambientale.

Le categorie rimosse coprono aree strategiche e ad alta intensità di consumo chimico. Si tratta delle applicazioni di stampa, come inchiostri e rivestimenti; delle sigillature, fondamentali in edilizia e nell’industria pesante; dei macchinari, dove i PFAS vengono impiegati per ridurre attriti e usura; degli esplosivi, sia civili sia militari; delle forniture per la difesa, che comprendono rivestimenti e componenti ad alte prestazioni; dei tessili tecnici, usati ad esempio per abbigliamento da lavoro o dispositivi di protezione; delle applicazioni industriali più ampie, come solventi e catalizzatori; e infine di alcuni usi medici, inclusi imballaggi immediati e materiali di rilascio di farmaci. Settori che, secondo l’organizzazione ambientalista svedese ChemSec, rappresentano non eccezioni marginali, ma fonti consistenti di inquinamento. Parallelamente, il nuovo documento dell’ECHA non si limita a rinvii, ma apre spazi di deroga anche nei comparti rimasti dentro la restrizione. Tre scenari sono allo studio: il primo prevede un divieto completo con appena diciotto mesi di transizione; il secondo introduce esenzioni temporanee, tra cui cinque anni aggiuntivi per il packaging alimentare in plastica e per le superfici antiaderenti industriali; il terzo consente l’uso laddove le emissioni possano essere “strettamente controllate”, una formulazione che lascia ampio margine interpretativo.

ChemSec non ha usato mezzi termini. Per l’organizzazione, l’aggiornamento dell’ECHA rappresenta «un disastro» perché frammenta la restrizione, ne svuota la portata e rischia di premiare proprio quei settori che non hanno investito in alternative più sicure. L’ONG sottolinea come migliaia di cittadini, associazioni e imprese abbiano partecipato alla consultazione pubblica chiedendo un bando ambizioso, e come queste richieste siano state sostanzialmente ignorate. Il rinvio degli otto settori, unito alla possibilità di deroghe prolungate, mina la credibilità stessa dell’Unione europea come leader nella lotta all’inquinamento chimico. Questa decisione premia, inoltre, le industrie che hanno omesso informazioni durante la consultazione pubblica e penalizza invece le aziende lungimiranti che hanno già investito nella sostituzione dei PFAS in queste otto categorie di utilizzo aggiuntive. Le prossime tappe sono già fissate: entro il 2026 i comitati scientifici dell’ECHA dovranno esprimersi, ma la decisione finale spetterà alla Commissione e non arriverà prima del 2027. Nel frattempo, i PFAS continueranno a diffondersi. L’Italia conosce bene la portata del problema: ad Alessandria, come già accaduto in Veneto, il sangue dei cittadini risulta contaminato dai composti prodotti da Solvay, con conseguenze che vanno dall’aumento delle patologie tiroidee e tumorali fino a disturbi dello sviluppo nei bambini. La multinazionale ha prodotto per anni composti fluorurati, scaricandoli nel fiume Bormida e contaminando la falda. In Veneto, a giugno 2025, una sentenza storica ha condannato fino a 17 anni di carcere i dirigenti della Miteni, riconoscendone le responsabilità nella contaminazione che ha colpito oltre 350 mila persone: un verdetto che dimostra come i tribunali, quando la politica esita, possano intervenire a sancire la gravità dei crimini ambientali. Ogni deroga, ogni rinvio, ogni concessione all’industria significa prolungare l’esposizione quotidiana di milioni di persone. Di fronte a questo scenario, l’allentamento delle restrizioni appare come una resa politica che sacrifica la salute dei cittadini europei agli interessi economici di pochi gruppi industriali. Una resa che rischia di pesare per generazioni, perché i PFAS, una volta dispersi nell’ambiente, restano lì per sempre.

Ravenna: la rivolta di portuali e cittadini ferma il carico di armi verso Israele

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«Abbiamo preso posizione come enti pubblici per chiedere di non far transitare i due container dal terminal. Abbiamo scritto una Pec come Comune, Provincia e Regione e, pochi minuti fa, Sapir ci ha comunicato che non avrebbe aperto i cancelli del porto all’arrivo dei mezzi».  È il primo pomeriggio di giovedì quando il sindaco di Ravenna, Alessandro Barattoni, convoca una conferenza stampa d’urgenza per annunciare il blocco di un carico di munizioni diretto a Israele che, per l’ennesima volta, stava per transitare dal porto cittadino. Si tratta di due container provenienti dalla Repubblica Ceca, classificati 1.4, cioè materiale esplosivo, che dopo aver oltrepassato il confine dall’Austria stavano per essere caricati sulla nave Zim New Zealand con destinazione Haifa: lo stesso percorso effettuato il 30 giugno scorso e probabilmente in numerose altre occasioni. 

In questo caso però l’intervento congiunto delle istituzioni locali è stato decisivo: i container non hanno potuto essere imbarcati e hanno dovuto lasciare via terra lo scalo romagnolo. Una decisione arrivata all’indomani delle forti proteste che martedì avevano portato migliaia di persone a sfilare lungo le banchine del porto chiedendo lo stop all’invio di armi a Israele. A segnalare la presenza del carico erano stati, anche questa volta, alcuni lavoratori del porto. Appresa la notizia, il sindaco Barattoni, la presidente della Provincia Valentina Palli e il presidente della Regione Michele De Pascale hanno inviato a Sapir, la società che gestisce lo scalo, una comunicazione formale in qualità di azionisti chiedendo di non consentire l’operazione di carico, sottolineando che la conferma della spedizione avrebbe destato gravissime preoccupazioni per il contesto del conflitto in corso a Gaza, in cui ogni giorno muoiono civili innocenti. Da lì la decisione dell’azienda di non aprire i cancelli ai mezzi provenienti dall’Austria, evitando così che i container finissero a bordo della nave diretta in Israele. 

Appresa la notizia, sia il sindaco che il presidente della Regione hanno manifestato la loro soddisfazione sui social: «Ho appena ricevuto comunicazione che i due camion portacontainer hanno lasciato il nostro porto. Grazie a tutti coloro che hanno contribuito a questo risultato» ha scritto Alessandro Barattoni. «In Emilia-Romagna sappiamo da che parte stare: con le vittime innocenti e gli ostaggi, mai con i governi criminali e le organizzazioni terroristiche» ha aggiunto Michele De Pascale.

La grande protesta di martedì 16 settembre contro il transito di armi dal porto di Ravenna verso Israele

In realtà le istituzioni locali avrebbero potuto fare molto di più per monitorare il transito di armi dal porto di Ravenna, da cui numerosi container diretti in Israele hanno continuato a partire anche dopo il 7 ottobre 2023. Proprio dai lavoratori del porto arrivano le denunce più circostanziate: gli operai raccontano di aver visto passare container di munizioni destinate alle Forze di Difesa Israeliane, caricati su grandi portacontainer dirette a Haifa e Ashdod, quasi sempre navi della compagnia israeliana ZIM. Il tutto, come è emerso dall’accesso agli atti effettuato il 30 giugno, senza le necessarie autorizzazioni per far viaggiare materiale bellico fuori dall’Unione Europea. «Comune e Regione sono tra gli azionisti principali di Sapir, il principale operatore del porto – ha spiegato all’Indipendente Carlo Tombola di Weapon Watch, tra i primi a raccogliere le segnalazioni dei portuali – e quindi avrebbero potuto controllare e far sentire la loro voce già mesi fa su quello che accadeva nello scalo romagnolo, peraltro l’unico scalo internazionale della regione». La manifestazione di martedì e le dichiarazioni dell’Onu hanno sicuramente smosso le acque: «Prima erano violazioni della legalità, adesso siamo al livello di complicità in un genocidio» aggiunge Tombola. 

Sul caso è intervenuto anche Antonio Tajani, incalzato in Senato dal Movimento 5 Stelle: «Io non so nulla di quello che è successo e comunque non sono armi italiane», ha dichiarato con disarmante serenità il ministro degli Esteri. Parole che lasciano più di un brivido, se si considera che la legge 185 del 1990 stabilisce con chiarezza che tutte le esportazioni, importazioni e persino i semplici transiti di armamenti devono essere autorizzati e controllati dal Governo. Eppure, il titolare della Farnesina sembra ritenere l’ignoranza un alibi più che sufficiente. Una linea difensiva che, se non fosse tragica, sarebbe comica. 

Insomma, ancora una volta sono i movimenti dal basso, quelli dei cittadini che manifestano e degli operai che bloccano i container, ad obbligare la politica a prendere posizione. L’episodio di Ravenna lascia però aperto un filo di speranza: che il controllo dei traffici di armi non resti un affare oscuro relegato alle carte di dogana, ma diventi questione di trasparenza pubblica, di responsabilità politica e di coscienza collettiva.

Gli USA mettono il veto alla risoluzione ONU per l’ingresso di aiuti a Gaza

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Gli Stati Uniti hanno posto il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che chiedeva un cessate il fuoco immediato e permanente nella Striscia di Gaza, il rilascio degli ostaggi e la rimozione delle restrizioni agli aiuti umanitari. Il testo, presentato dai dieci membri non permanenti e approvato dagli altri 14 membri del Consiglio, è stato bloccato dal solo voto contrario di Washington. Gli USA hanno motivato la decisione sostenendo che la bozza non condannava esplicitamente Hamas e stabiliva un “pericoloso falso parallelismo” con Israele. La risoluzione definiva la situazione a Gaza “catastrofica” e chiedeva l’accesso immediato e sicuro degli aiuti per i 2,1 milioni di palestinesi nella Striscia. Il veto ha messo in evidenza l’isolamento degli Stati Uniti all’interno del Consiglio e ha riacceso le tensioni diplomatiche sulla gestione del conflitto.

L’Olanda ha vietato le terapie di conversione ai danni delle minoranze sessuali

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La Camera dei Deputati olandese ha approvato il divieto delle cosiddette terapie di conversione, ovvero tutte quelle pratiche coercitive finalizzate a modificare l'orientamento sessuale o l'identità di genere di una persona. La nuova legge introduce sanzioni per chi sottopone individui a trattamenti di persuasione volti a “correggere” la propria identità sessuale o di genere. La norma va a incidere su pratiche di stampo parareligioso ancora diffuse: non si parla di semplici conversazioni religiose non coercitive volte a illustrare al soggetto che, ad esempio, essere gay è "peccato" secondo la ...

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Ucraina, ricevuti dalla Russia i corpi di mille soldati caduti

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Oggi, giovedì 18 settembre, l’Ucraina ha ricevuto i corpi di mille soldati caduti nel conflitto, raro gesto di collaborazione tra i due Paesi mentre i negoziati di pace restano bloccati. Il quartier generale per il trattamento dei prigionieri di guerra ha annunciato che gli ufficiali effettueranno gli esami necessari per identificare i corpi «nel più breve tempo possibile». L’operazione segue diversi scambi di prigionieri, l’ultimo ad agosto con 146 detenuti trasferiti da ciascuna parte. Gli scambi di prigionieri e l’accordo per il ritorno in patria dei caduti sono tra i pochi risultati concreti dei tre round di colloqui di Istanbul, svoltisi da maggio a luglio.

Blocchiamo tutto: lunedì sarà sciopero generale per Gaza, manifestazioni in 25 città

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Lunedì 22 settembre l’Italia si prepara a una giornata di mobilitazione nazionale senza precedenti, proclamata dall’Unione Sindacale di Base (USB), promossa con lo slogan “Blocchiamo tutto”. Il fine è manifestare solidarietà verso Gaza, chiedere la rottura con quello che USB definisce «lo Stato terrorista di Israele», denunciare la corsa al riarmo, sostenere la missione umanitaria della Global Sumud Flotilla e, più in generale, affermare un impegno militante, civile e politico «con la Palestina nel cuore». Lo sciopero riguarderà l’intera giornata e coprirà settori pubblici e privati: trasporti, scuola, logistica, commercio, energia, portualità, così come i settori industriali, con la partecipazione prevista di lavoratori, studenti e cittadini. Porte via, valichi, trasporti pubblici, bus, metro saranno fermi in molte città; i ferrovieri sono chiamati a dare «un segnale di grande compattezza». Le piazze si riempiranno con manifestazioni che in molte realtà punteranno a «circondare le grandi stazioni ferroviarie».

USB rivolge l’appello a quanti finora sono rimasti silenziosi: «Ora devono far vedere che dicono e fanno qualcosa». Il movimento invoca sanzioni, embargo, rottura dei rapporti diplomatici e commerciali con Israele come misure concrete, cui si somma la richiesta di cessare il “massacro” e ogni forma di complicità da parte dei governi occidentali. Già sono state rese note decine di città che ospiteranno le manifestazioni: Milano, Roma, Napoli, Torino, Genova, Bari, Palermo, e molte altre (in tutto almeno 25) con ritrovi fissati in luoghi simbolo come porti, stazioni, prefetture. Questa scelta radicale si inserisce in un più ampio contesto sindacale e politico che ha visto altre mobilitazioni recenti. La CGIL ha indetto una giornata di mobilitazione per venerdì 19 settembre con ore di sciopero da parte di alcune categorie (metalmeccanici, terziario) e manifestazioni territoriali, chiedendo che il governo sospenda ogni accordo commerciale con Israele e che si ponga fine all’escalation militare. Ma USB va oltre: propone uno sciopero totale, che blocchi i servizi – salvo le restrizioni previste dalla legge – e che impegni la società civile nella coralità della protesta. Le istituzioni reagiscono con preavvisi di disagi, soprattutto nel settore dei trasporti; le autorità di garanzia ricordano che per servizi essenziali, come scuola, sanità, trasporti pubblici, vigono limiti, ma USB sostiene che lo sciopero sarà regolare, salvo quei settori specifici. Si annunciano, dunque, giorni di forti contrapposizioni, non solo nel merito della politica estera italiana, ma sul ruolo del sindacato come soggetto politico, sulla legittimità del dissenso tramite lo sciopero, e sulla capacità di una protesta sociale di rovesciare equilibri consolidati. La posta in gioco è alta: fermare le relazioni economiche e diplomatiche con Israele, porre la Palestina al centro del dibattito pubblico, e farlo con uno sciopero che, nelle intenzioni degli organizzatori, «rompa gli argini».

La Commissione UE ammette: vaccini Covid rilasciati senza dati sulla sicurezza completi

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La Commissione Europea ha ammesso che i vaccini contro il Covid-19 sono stati messi in circolazione e somministrati ai cittadini in assenza di dati completi sulla sicurezza. Nel documento del Berliner Zeitung, emerge che l’eurodeputato austriaco Gerald Hauser (FPÖ) ha chiesto in una dichiarazione: «Perché la Commissione non ha informato i cittadini che l’efficacia e la sicurezza dei vaccini – come stabilito nel Trattato – non erano garantite?». Nella risposta arrivata a fine agosto, la Commissione ha spiegato: «L’approvazione condizionata è stata concessa per i primi vaccini Covid. Questo tipo speciale di autorizzazione facilita l’accesso ai farmaci che devono colmare una lacuna nelle cure mediche in situazioni di emergenza come la pandemia di Covid, mentre non è ancora disponibile un dossier completo dei dati». L’ammissione segna un momento di rottura rispetto alla narrazione prevalente che ha sostenuto fin dall’inizio dell’emergenza sanitaria che questi vaccini fossero stati approvati seguendo standard regolatori consueti e condizioni di urgenza giustificata.

I contratti tra la Commissione Europea e le case farmaceutiche imponevano standard severi di efficacia e sicurezza. Eppure, al momento dell’autorizzazione condizionata, parte di quei dati non era stata ancora raccolta o valutata. L’accordo siglato il 20 novembre 2020 con BioNTech-Pfizer, pubblicato in versione parzialmente oscurata, è rivelatore: nei “consideranda” si ammette che lo sviluppo fosse accelerato, che il percorso clinico potesse fallire, che l’approvazione regolatoria non fosse garantita e che le caratteristiche stesse del prodotto fossero ancora da definire. Il documento chiariva inoltre che il produttore non poteva assicurare né la piena disponibilità del vaccino né la sua efficacia nel prevenire l’infezione, né tantomeno escludere la comparsa di effetti collaterali gravi. Gli Stati membri, consapevoli di queste incognite, accettarono di condividere i rischi, anche attraverso indennizzi al produttore e ai partner industriali coinvolti. La Commissione, dal canto suo, ricorse a procedure straordinarie – rolling review e autorizzazioni condizionali – giustificate dall’urgenza della pandemia. Resta il fatto che, al momento dell’immissione sul mercato, mancavano ancora dati completi: studi clinici di lungo periodo, follow-up estesi e valutazioni definitive sugli effetti. Nonostante ciò, l’EMA ritenne che i benefici disponibili superassero i rischi, basandosi sulle evidenze raccolte fino a quel momento. Già nell’ottobre del 2022, al Parlamento europeo, Janine Small, presidente della sezione di Pfizer dedicata allo sviluppo dei mercati internazionali, aveva ammesso che il vaccino non era stato testato per fermare la trasmissione del virus prima che entrasse sul mercato.

Le implicazioni di questa ammissione sono molteplici e l’ammissione della Commissione apre scenari delicati. I contratti con le case farmaceutiche parlavano di sicurezza ed efficacia, ma l’assenza di dati completi ne ridimensiona la portata. La trasparenza è mancata: i cittadini non sapevano che molte verifiche erano ancora in corso. L’urgenza della pandemia è stata usata come giustificazione, ma il risultato è stato un dossier incompleto, con test condotti di fatto sulla pelle della popolazione. Le rolling review hanno permesso un monitoraggio in corsa, senza però la solidità di un percorso sperimentale ordinario. Intanto, nonostante il muro di gomma istituzionale, sono emersi e stanno continuando a emergere segnalazioni di effetti avversi che hanno colpito anche i giovani o le categorie vulnerabili mai pienamente tutelate. Le istituzioni europee ora dovranno rispondere a domande precise: quali vaccini specifici sono stati approvati con dati incompleti, su quale base è stata ritenuta accettabile tale carenza, quali sono le misure adottate per colmare queste lacune e come sono state adottate le procedure di compensazione per chi ha subito effetti avversi. È in gioco la definizione di un modello regolatorio per le emergenze future: senza trasparenza e responsabilità, ogni decisione si traduce in un esperimento sanitario, in cui a pagare non sono le aziende o i governi, ma i cittadini.

 

 

Preservare la foresta amazzonica tutela la salute delle popolazioni: lo studio

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La conservazione delle foreste amazzoniche non risulta solo cruciale per il clima e la biodiversità, ma risulta collegata a benefici per la salute di milioni di persone: è quanto emerge da un nuovo studio condotto da un team di scienziati locali, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista Communications Earth & Environment. Analizzando vent’anni di dati su 27 malattie, tra cui malaria, malattia di Chagas e hantavirus, in otto paesi del bioma amazzonico, gli autori hanno scoperto che i comuni vicini a foreste intatte situate in territori indigeni legalmente riconosciuti presentano un rischio significativamente minore di contrarre malattie. Inoltre, secondo l’indagine le foreste sono associate ad una diminuzione dei problemi respiratori e cardiovascolari legati al fumo degli incendi boschivi, oltre alla diminuzione delle malattie diffuse quando la deforestazione porta l’uomo a un contatto più stretto con animali e insetti. «Le foreste indigene dell’Amazzonia apportano benefici alla salute a milioni di persone», afferma Paula Prist, coordinatrice senior del programma foreste e praterie presso l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, aggiungendo che la loro protezione è indispensabile anche per il benessere umano.

La ricerca chiarisce un punto che la scienza sospettava da tempo: la salute pubblica e la salute delle foreste risultano strettamente interconnesse. L’elemento chiave, spiegano gli autori è rappresentato dalle particelle sottili prodotte dagli incendi, il cosiddetto PM2.5, ovvero materiale con diametro inferiore a 2,5 micrometri che, una volta inalato, può provocare malattie cardiovascolari, respiratorie e persino tumori. Gli incendi in Amazzonia sono spesso il risultato della siccità, della crisi climatica e delle pratiche agricole che utilizzano il fuoco per disboscare. Analizzando oltre 28 milioni di casi registrati tra il 2001 e il 2019, i ricercatori hanno messo in relazione la diffusione di patologie con la presenza di foreste e con il grado di frammentazione degli ecosistemi. È emerso che comunità circondate da aree forestali estese e poco frammentate hanno una minore esposizione alle conseguenze sanitarie degli incendi e un rischio più basso di malattie zoonotiche – ossia trasmesse da animali o insetti – come malaria e leishmaniosi. Il fattore decisivo, aggiungono, sembra essere il riconoscimento legale dei territori indigeni: dove questo è garantito, la copertura forestale rimane più ampia e continua, riducendo in modo significativo i rischi sanitari. Viceversa, i territori non riconosciuti risultano più esposti agli incendi e ai problemi di salute che ne derivano.

Le testimonianze raccolte nelle comunità amazzoniche, inoltre, aiuterebbero a rendere concreti i dati emersi. «È devastante: compromette tutte le funzioni e i benefici che le foreste offrono alle comunità indigene. Influiscono sull’aria che respiriamo e causano infezioni respiratorie, irritazioni oculari e infiammazioni alla gola», racconta il guardiaparco boliviano Marcos Uzquiano. Ana Filipa Palmeirim, coautrice dello studio, sottolinea che «anche quando gli incendi si verificano in aree remote, i venti diffondono l’inquinamento in lungo e in largo, creando emergenze sanitarie pubbliche mortali». A confermare la gravità della situazione sono anche alcune comunità direttamente colpite: Isabel Surubí Pesoa, sfollata dalla sua casa nelle pianure orientali della Bolivia, ha affermato: «La foresta è la nostra casa, è dove troviamo le medicine, dove piantiamo i raccolti, dove troviamo ossigeno pulito da respirare. Quando la foresta brucia, arrivano le malattie», mentre la sorella Verónica aggiunge che nella loro comunità diversi giovani sono morti per complicazioni polmonari dopo aver combattuto gli incendi. Per questo, spiegano gli autori, garantire diritti territoriali sicuri agli indigeni sarebbe «una delle strategie più efficaci per proteggere le foreste in Amazzonia» e, di conseguenza, la salute delle persone.

Călin Georgescu accusato in Romania di tentato colpo di Stato

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L’ex candidato presidenziale Călin Georgescu è stato incriminato per “attentato all’ordine costituzionale” dai pubblici ministeri rumeni. La procura lo accusa, insieme ad altre 21 persone, di aver pianificato un colpo di Stato in seguito all’annullamento delle elezioni del novembre 2024, invalidate dalla Corte costituzionale dopo le accuse di violazioni elettorali e per sospette “interferenze russe”. Georgescu, filorusso e contrario agli aiuti a Kiev, era arrivato al primo turno con il 23% dei voti, ma era stato escluso dalla nuova tornata vinta a maggio dal pro-UE Nicușor Dan. Secondo gli inquirenti, avrebbe discusso con l’imprenditore e mercenario Horațiu Potra, ora latitante, un piano per trasformare le proteste in rivolta. Georgescu rischia fino a 20 anni di carcere se riconosciuto colpevole.

Dopo tre morti in un mese Genova blocca il taser alla polizia

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Il periodo di sperimentazione per l’impiego dei taser da parte delle forze dell’ordine a Genova non partirà. Lo ha annunciato l’assessora alla Sicurezza Arianna Viscogliosi in consiglio comunale, chiarendo che l’amministrazione guidata dalla sindaca Silvia Salis non intende proseguire la procedura avviata nel 2022 dalla precedente giunta di centrodestra. Una scelta arrivata in un contesto nazionale reso ancora più teso da tre morti avvenute in poche settimane dopo l’uso della pistola a impulsi elettrici da parte delle forze dell’ordine.

In Italia, l’iter per l’introduzione dell’utilizzo della pistola a impulsi elettrici è iniziato nel 2014, con l’autorizzazione a dare l’arma in dotazione alla polizia contenuta nel dl 119/2014. Successivamente, l’art. 19 del dl 113/2018 ha previsto l’estensione della dotazione anche alla polizia locale in tutti i capoluoghi di provincia e i Comuni al di sopra dei 100 mila abitanti, per un periodo di prova non superiore ai sei mesi (previa adozione di un apposito regolamento comunale). Un emendamento al dl Milleproroghe approvato quest’anno ne ha poi ulteriormente esteso l’utilizzo in forma sperimentale a tutti i Comuni, a prescindere dal numero di abitanti. L’arma, definita «non letale», funziona attraverso una scarica elettrica da 50 mila volt, che induce una paralisi temporanea nel soggetto che la riceve. Gli effetti, su persone con malfunzionamenti cardiaci o con l’attività cardiaca compromessa dall’uso di droghe, possono essere molto gravi, se non letali.

Di fatto, il periodo di sperimentazione a Genova non è mai iniziato. I dispositivi erano stati acquistati, un protocollo era stato firmato con la ASL per la formazione degli agenti, ma il passaggio necessario per avviare la sperimentazione – l’approvazione del regolamento comunale – non è mai stato completato. E, secondo quanto dichiarato dall’assessora Viscogliosi durante un’interrogazione in Comune, non lo sarà in futuro, anche alla luce degli ultimi fatti di cronaca. Il più recente risale al 15 settembre ed è accaduto a Reggio Emilia, dove un uomo è deceduto poco dopo essere stato colpito da un taser. Altri due decessi si erano verificati ad agosto, a Ostia e a Manesseno, alle porte di Genova. In entrambi i casi, i carabinieri coinvolti sono stati iscritti nel registro degli indagati per omicidio colposo. Anche alla luce di questi fatti, l’assessora Viscogliosi ha confermato che l’iter avviato sotto la precedente amministrazione si è interrotto e non verrà ripreso.

Il taser è infatti in uso in varie parti del mondo sin dall’inizio degli anni Duemila ed il suo impiego è accompagnato da decine di studi che ne confermano il rischio di morte. Amnesty International stima che tra il 2001 e il 2018 solo negli Stati Uniti e in Canada oltre mille persone siano morte dopo l’uso di taser. Nel 90% di questi casi, a essere colpite erano state persone disarmate. La stessa azienda produttrice ammette un rischio di morte, seppur basso, legato al dispositivo. Secondo studi come quello condotto dall’Università di Cambridge, inoltre, l’introduzione dei taser ha in alcuni casi aumentato il rischio di aggressioni contro gli agenti e l’uso eccessivo della forza. 

Non è la prima volta che progetti di questo genere naufragano a Genova. Prima del taser, nel capoluogo ligure c’era già stato un tentativo (fallito) di dotare la polizia locale del bolawrap, un dispositivo in grado di immobilizzare a distanza la persona mediante un laccio lanciato verso gambe o tronco. Un progetto naufragato dopo una fase di test.