giovedì 20 Novembre 2025
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Valsusa: consulenza nega lacrimogeni ad altezza d’uomo, per i No Tav è depistaggio

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«La Stampa gioca di sponda con la Procura per tentare la strategia dell’insabbiamento»: è questa la prima parte del testo pubblicato sul sito Notav.info in seguito alla notizia, data dal quotidiano italiano, avente ad oggetto la consulenza della Procura sul caso di Giovanna Saraceno, attivista No Tav rimasta gravemente ferita nel mese di aprile durante le manifestazioni di protesta svoltesi in Val di Susa. La consulenza esclude il fatto che la donna abbia riportato le ferite a causa di un lacrimogeno lanciato dalla polizia, al contrario di quanto sostenuto dai No Tav, secondo cui quest’ultima sarebbe invece stata colpita in pieno volto. «Un tentativo di depistaggio bello e buono, a cui siamo fin troppo abituati nel nostro Paese», affermano gli attivisti, che si rifanno non solo alla testimonianza di Giovanna ma anche alla «pratica degli spari ad altezza d’uomo», che è «comune in Val Susa».

In tal senso, basterà ricordare che negli scorsi mesi la Corte d’Appello di Torino ha messo nero su bianco, in una sentenza, che le forze dell’ordine hanno compiuto diversi atti illeciti nei confronti del movimento No Tav durante gli scontri avvenuti in Valsusa il 3 luglio 2011. Tra questi l’esplosione di «ordigni lacrimogeni con un’angolazione insufficiente, ovvero con lanci tesi invece che a parabola». In più, proprio in seguito all’incidente che ha coinvolto Giovanna, sono stati diffusi dei video riguardanti la medesima giornata di proteste dai quali si vedono chiaramente agenti di polizia sparare lacrimogeni ad altezza d’uomo. Dunque, i No Tav affermano che «quello de La Stampa è un gesto violento e servile che sminuisce i danni fisici subiti da Giovanna e che smaschera la malafede di chi ad ogni costo cerca di bloccare il dissenso che da oltre 30 anni si manifesta in Valsusa». Per questo nella giornata di lunedì gli attivisti hanno manifestato, tramite una piccola delegazione, a Piazza Castello: il tutto con l’obiettivo di «mostrare alla Ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e al suo parterre di vip della sicurezza le immagini della violenza delle sue amate forze di polizia».

Detto ciò, nel testo pubblicato su Notav.info vengono anche riportate le parole di Valentina Colletta, l’avvocato di Giovanna Saraceno, che dopo aver letto l’articolo pubblicato su La Stampa ha affermato: «Ci si trova per l’ennesima volta davanti alla violazione del segreto istruttorio». Secondo l’avvocato si tratta di informazioni delicate che sono uscite dalla Procura della Repubblica per «approdare, senza alcun approfondimento critico e senza alcun interesse per la versione contraria, alle solite redazioni giornalistiche». La difesa di Giovanna, infatti, non è stata informata del deposito della consulenza, motivo per cui Colletta ha affermato che sarà in grado di valutare le conclusioni del Dr. Testi (consulente tecnico) solo se e quando la Procura «le darà l’occasione di leggerle». Ed infine ha aggiunto: «so soltanto che Giovanna ha riferito di essere stata colpita da un candelotto lacrimogeno sparato a distanza ravvicinata e ad altezza d’uomo e non ho ragione per non crederle».

[di Raffaele De Luca]

Bill Gates e Jeff Bezos finanziano attività estrattive in Groenlandia

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La nuova sfida di oggi, per molte multinazionali, è la ricerca di nuove fonti di cobalto, vista la richiesta sempre crescente di veicoli elettrici. È così che nascono progetti in cui coinvolte sono grandi società, dove vengono riscontrati ingenti investimenti da parte di uomini d’affari, come è accaduto per il progetto Disko-Nuussuaq in Groenlandia: la società di esplorazione mineraria KoBold Metals, e la londinese Bluejay Mining (JAY.L) hanno infatti firmato un accordo col fine di cercare i principali materiali che danno vita ai veicoli elettrici. Il territorio di interesse delle società è appunto la Groenlandia, e tra chi ha scelto di finanziare il progetto, spuntano i nomi di due magnati contemporanei: Jeff Bezos e Bill Gates. Quest’ultimo, conosciuto per essere il fondatore di Microsoft Corporation, ha in mano, insieme al fondatore di Amazon.com Inc., Jeff Bezos, la supervisione del fondo per il clima e la tecnologia Breakthrough Energy Ventures che è tra i principali investitori della società privata KoBold Metals. Rod McIllree, presidente esecutivo di Bluejay, ha infatti parlato di Gates e Bezos come coloro che «Portano molta capacità tecnica e finanziaria a questo progetto. Quello che portiamo è la risorsa e la capacità di operare efficacemente in Groenlandia». Altri fondamentali investitori del progetto sono poi Andreessen Horowitz e la compagnia energetica norvegese Equinor ASA.

Per andare alla ricerca di materie prime, la KoBold Metals utilizza l’intelligenza artificiale, l’apprendimento automatico e altre tecniche di calcolo per raccogliere dati sui terreni, capire quali acquistare e quale sia il punto giusto per trivellare così da scoprire nuovi giacimenti minerari. Per il nuovo progetto Disko-Nuussuaq la società avrà, entro il 31 dicembre 2024, una spesa di 15 milioni di dollari in finanziamenti per il piano di esplorazione sulla costa occidentale della Groenlandia, in cambio di una quota del 51% nel progetto, come precisato dall’inglese Bluejay in un comunicato. La decisione di investire nell’area della Groenlandia occidentale viene poi dalla conferma, grazie ad alcuni studi, di una particolare somiglianza da parte dell’area in Groenlandia, con la geologia della regione russa di Norilsk-Talnakh, che è tra le più ricche di nichel e palladio. Come specificato da Rod Mclllree, presidente esecutivo di Bluejay, «Il tipo di mineralizzazione è molto simile, sono elementi del gruppo nichel-rame-cobalto-platino. E’ di altissimo grado. E’ stata identificata per la prima volta alla fine del XIX secolo, quando hanno scoperto un masso di metallo di 20 tonnellate che era in realtà caduto da una scogliera e rotolato sulla riva». Rod Mclllree ha poi aggiunto «Il prossimo anno il piano è quello di ottenere una comprensione più profonda utilizzando la tecnologia KoBold, e potremmo anche vedere alcune trivellazioni».

Un progetto, il Disko-Nuussuaq, enorme e che potrebbe portare a serie conseguenze. L’area del progetto, è paragonabile, per estensione, a quella del Lussemburgo: ben 2.776 km2. Ci sono per ora venti target pronti per la trivellazione su larga scala, per.i quali già sono state ottenute le licenze e non solo; le licenze sono state anche ampliate. Il fatto che il progetto sia innanzitutto per investire sulla realizzazione di veicoli elettrici, dimostrati essere una grande risorsa – anche se discussa – per la lotta contro il cambiamento climatico, preveda una così rischiosa operazione, apre dei punti di domanda. L’area è infatti molto delicata e l’operazione mineraria è gigantesca, in un momento storico in cui la situazione della Terra va peggiorando in tempi record: qualche giorno fa, infatti, c’è stato un ulteriore, importante allarme lanciato dall’Ipcc. Tra l’altro, è proprio un fondo per il clima e la tecnologia (il sopracitato Breakthrough Energy Venture) a finanziare un progetto che rischia di portare gravi conseguenze ambientali.

[di Francesca Naima]

Almeno 38 morti a causa degli incendi in Algeria

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Da ieri sera le fiamme hanno iniziato a devastare il nord dell’Algeria. Per ora si contano almeno trentotto vittime, di cui tredici civili e venticinque soldati, ed è stato lo stesso presidente Abdelmadjid Tebboune a informare della perdita dei soldati attraverso un tweet. Il grande caldo ha alimentato quello che è stato definito essere un incendio doloso, come specificano le autorità di una delle città più colpite, Cabilia, parlando «Di roghi di origine criminale».

I talebani conquistano un altro capoluogo: controllano il 65% dell’Afghanistan

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Pol-e-Khormi, capoluogo della provincia di Baghlan, al nord dell’Afghanistan, è l’ottavo capoluogo afghano conquistato dai talebani. Il membro del consiglio provinciale Hayatullah Wafa ha fatto sapere che i combattenti talebani hanno attaccato la città di Pul-e Khumri, circa una settimana fa: «La città è stata completamente conquistata, il nemico sta sfuggendo». I talebani hanno ora il controllo del 65% del territorio afghano e gli insorti «Minacciano di conquistare 11 capoluoghi di provincia e privare Kabul del supporto delle forze governative stazionate nel nord», come sottolinea un funzionario dell’Unione Europea.

Apple scansionerà ogni immagine presente sui suoi telefoni

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Il fine è certamente nobile, il mezzo senza dubbio insidioso. Pedofilia e terrorismo: questi sono i due temi che maggiormente catalizzano le ostilità della società occidentale contemporanea. Ambo i campi vengono riconosciuti come crimini di massima degenerazione, assolutamente privi di redenzione e ambiguità, da combattere con ogni mezzo disponibile.

Non è un caso dunque che Governi e aziende facciano sulla leva sulla pedofilia e sul terrorismo per giustificare l’introduzione di strategie di sorveglianza sempre più severe e invasive. Questa volta, ad aver fatto notizia è Apple, azienda che si sta preparando a spiare gli apparecchi dei propri utenti statunitensi pur di tenere a bada i flussi di pornografia e pedopornografia che riguardano in qualche modo i minori.

L’idea è quella di monitorare senza sosta i file che circolano su iCloud, alla ricerca degli scatti fotografici che siano in tutto o per tutto affini a quelli custoditi nei database pedopornografici del National Center for Missing and Exploited Children (NCMEC) e di altre organizzazioni di difesa dell’infanzia.

La mossa di Apple non è che l’ultima manifestazione di una tendenza che si sta estendendo all’intero settore informatico, ovvero il logorio della riservatezza personale in favore di lotte ufficialmente virtuose e giuste. Grandi difensori del diritto alla privacy quali Edward Snowden e la Electronic Frontier Foundation stanno lanciando l’allarme: «se oggi possono scansionare [i telefoni] alla ricerca di foto pedopornografiche, domani potranno cercare ciò che vorranno».

Sul piano prettamente tecnico, si teme che un intervento simile vada a indebolire la struttura dei sistemi operativi della ditta e che li renda più vulnerabili a infiltrazioni di hacker, tuttavia le paure si estendono soprattutto alla sfera politica. Esiste ovvero il timore concreto che in un prossimo futuro i Governi possano chiedere a Apple di tracciare anche altre tipologie di contenuti, magari manifesti LBGTQ o bandiere palestinesi.

In risposta alle obiezioni sollevate, la Big Tech ha recentemente pubblicato una serie di rassicurazioni, assumendosi l’impegno formale di non trasformare il nuovo strumento in un meccanismo di controllo alla portata di poteri il cui scopo è quello di limitare le libertà dei propri cittadini. Una promessa che merita a sua volta qualche perplessità, se si considera che l’azienda digitale in questione abbia in passato concesso alla Repubblica Popolare Cinese un immenso controllo sui clienti locali, pur di poter vendere i suoi iPhone.

Il caso Apple non è certamente isolato: solo il mese scorso, la Commissione Europea si è detta pronta a chiudere un occhio su alcune violazioni della General Data Protection Regulation (GDPR), ammesso che tali violazioni aiutino a ledere la crescente rilevanza del mercato pedopornografico. I social media hanno accolto tale esenzione con gioia.

[di Walter Ferri]

Rapito in Libia un funzionario governativo

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Le Nazioni Unite hanno dato la notizia del rapimento di Rida Faraj Fraitis, capo di gabinetto di uno dei due vicepremier della Libia. Fraitis è stato catturato la scorsa settimana nella capitale Tripoli da uomini armati. La stampa locale non aveva ancora parlato dell’accaduto e il governo di unità nazionale e transizione, insediato a Tripoli a inizio anno, non ha – per il momento – reagito dopo il rapimento. Nella dichiarazione di oggi, l’Unsmil esprime profonda preoccupazione per le conseguenze del rapimento, e fa appello alle autorità libiche purché si indaghi a fondo «Su tutte le accuse di violazione dei diritti umani internazionali».

Cristian, malato e colpevole di non voler acquistare cannabis dalla ‘ndrangheta

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È il 6 giugno 2019 quando i carabinieri di Paola, un piccolo comune della provincia di Cosenza, in Calabria, insospettiti da un forte odore di marijuana decidono di entrare nell’abitazione di Cristian Filippo, un ragazzo ventiquattrenne affetto da fibromialgia. Le forze dell’ordine trovano due piantine di canapa nonché i relativi strumenti necessari per la coltivazione, e Cristian viene accusato di spaccio: arriva infatti l’imputazione per aver «illecitamente coltivato e detenuto una sostanza stupefacente per cessione a terzi o comunque per un uso non esclusivamente personale». Il ragazzo passa dunque un mese agli arresti domiciliari, e successivamente viene disposto l’obbligo di dimora nel comune di Paola. Si arriva così al 10 giugno 2021, giorno in cui si tiene la prima udienza relativa al suo processo, nel quale rischia fino a 6 anni di carcere. Esso però di certo non terminerà presto, dato che la prossima udienza è prevista per marzo 2022.

Ad ogni modo, però, ci si chiede per quale motivo i carabinieri abbiano deciso di complicare ulteriormente la vita al ragazzo, soprattutto se si considera che tutto ciò è accaduto in Calabria, una regione in cui la ‘ndrangheta coltiva un terzo di tutta la cannabis italiana ma dove, evidentemente, si preferisce colpire i semplici consumatori. E in un certo qual modo si può affermare che la colpa di Cristian sia stata non solo quella di aver coltivato due piantine di cannabis che gli avrebbero permesso di usufruire di un prodotto controllato, ma anche di non aver finanziato il mercato nero. Rivolgendosi ad esso, infatti, il ragazzo avrebbe certamente rischiato meno, dato che acquistando qualche grammo dalle organizzazioni criminali non avrebbe di certo corso il rischio di finire in carcere. Un vero e proprio paradosso.

A tutto ciò si aggiunga appunto che Cristian è un ragazzo malato: la patologia di cui soffre provoca forti dolori muscolari associati ad affaticamento, rigidità, problemi di insonnia, di memoria ed alterazioni dell’umore. E, come affermato dal ragazzo, i farmaci tradizionali nel suo caso non sono riusciti ad alleviare tali sofferenze, motivo per cui ha deciso di autoprodursi la sua cura. E in un certo senso, Cristian ha dovuto per forza di cose ricorrere a tale scelta: seppur egli fosse dotato di prescrizione medica, e nonostante il fatto che  in Italia sia legale prescrivere la cannabis medica, ottenerla in Calabria è praticamente impossibile. La Regione, infatti, non ha approvato alcun provvedimento per far sì che essa venga erogata a carico del servizio sanitario regionale.

È per questo motivo che “Meglio Legale”, una nuova campagna per la legalizzazione della cannabis, ha lanciato un appello per sostenere Cristian e per far sì da un lato che la Regione garantisca a tutti i pazienti l’accesso alla cannabis terapeutica, e dall’altro che il Parlamento liberalizzi per tutti i cittadini la coltivazione domestica di cannabis. In tal senso, nelle scorse settimane è stata depositata Alla Commissione Giustizia della Camera dei deputati una proposta di legge (supportata da “Meglio Legale”) che mira a rendere legale la coltivazione di cannabis ad uso personale.

[di Raffaele De Luca]

Afghanistan: talebani conquistano anche la città di Farah

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I talebani hanno conquistato anche Farah, città capoluogo dell’omonima provincia situata nell’ovest dell’Afghanistan. A renderlo noto è stato un loro portavoce, il quale ha affermato che «la città è sotto il completo controllo dei mujaheddin». Si tratta del settimo capoluogo provinciale conquistato dai talebani dall’inizio della nuova offensiva.

Un indice di vulnerabilità per tutelare le foreste tropicali

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Le foreste tropicali sono i polmoni del nostro pianeta. Fonti di ossigeno e spugne di anidride carbonica, sono oggetto di studio di scienziati che da anni si impegnano nella ricerca di efficaci sistemi di monitoraggio. Di recente, un’équipe internazionale di 50 ricercatori riunito e coordinato dalla National Geographic Society, ha fatto importantissimi progressi con l’invenzione di una scala numerica per la valutazione dei rischi corsi dalle foreste pluviali a causa del cambiamento climatico. Il suo nome è Tropical Forest Vulnerability Index (Tfvi), in italiano “Indice di Vulnerabilità delle Foreste Tropicali”, che gli esperti sono riusciti a mettere a punto grazie allo sfruttamento di immagini satellitari e di altri indicatori e strumenti di osservazione. Con la raccolta di dati sulla temperatura del suolo, sui tassi di fotosintesi e sui livelli di biodiversità, arricchita da quelli su deforestazione e incendi, nonché sullo scambio di carbonio e acqua tra alberi e atmosfera, hanno stilato un bilancio globale più utile delle analisi locali effettuate fino ad ora. Queste ultime, infatti, essendo circoscritte, non possono essere estese con facilità e non permettono di effettuare confronti tra una foresta e l’altra. Il Tvfi, invece, lavora su scala globale, viene aggiornato mensilmente e consente ai ricercatori di identificare e monitorare aree particolarmente a rischio prima che sia troppo tardi per agire.

I ricercatori hanno quindi sviluppato un indice unico che può essere applicato a tutte le foreste tropicali. La ricerca effettuata tramite il suo utilizzo, ha dimostrato che le regioni tropicali reagiscono diversamente alle minacce climatiche e che alcune di loro appaiono meno resilienti di altre. In Asia, ad esempio, l’intenso sfruttamento dei terreni forestali arreca molti più danni del cambiamento climatico. In Congo, invece, le foreste sono particolarmente resistenti ai frequenti periodi di siccità. Tanta preoccupazione ha generato la Foresta amazzonica, dove il riscaldamento globale e la deforestazione stanno apportando gravi danni ad un ambiente che ospita il 10% della biodiversità globale. In generale, le foreste pluviali stanno perdendo la capacità di assorbire anidride carbonica, un fattore preoccupante per le implicazioni in termini di concentrazione di CO2 nell’atmosfera, che conferma la necessità di tutelare i polmoni verdi della Terra. Gli esperti, infatti, sperano che la loro ricerca, la quale ribadisce la drammaticità della situazione, possa orientare le future azioni delle autorità.

[di Eugenia Greco]

Austria, in opposizione al Green Pass aumenta l’istruzione domicliare

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A seguito delle misure anti-contagio previste per il rientro a scuola, i genitori contrari al vaccino stanno scegliendo di ritirare i figli dalle scuole. Tale forma di protesta sta avendo luogo in Austria, in cui le domande per l’homeschooling sono già 3.600; si prevede una crescita delle domande, le quali potrebbero arrivare a essere 6.000 prima che l’anno scolastico abbia inizio. Nel comparare i dati raccolti finora con i numeri dello scorso anno, sono già più di 1.000 le domande presentate dalle famiglie intente a “creare” una forma di istruzione domiciliare. Infatti, ne 2020 le domande presentate per l’homeschooling sono state circa 2.000. Si sta dunque verificando un vero e proprio boom della cosiddetta istruzione domiciliare da quando il governo in Austria ha annunciato quali saranno le regole da seguire per il prossimo anno scolastiche relative all’uso della mascherina così come la scelta di test permanenti in aula. Sono quindi molte le famiglie organizzatosi per permettere ai figli di apprendere, ma tra le mura di casa.

È stata la tv pubblica Orf a fare sapere le previsioni a livello numerico dei sempre più cittadini austriaci vogliosi di organizzare un’istruzione domiciliare. La scelta di presentare – da quanto per ora previsto – 6.000 domande per l’homeschooling in Austria può essere interpretata come una forma di protesta da parte delle famiglie che non accettano le nuove misure per il contenimento del contagio dettate dal loro Governo. Comunque, l’idea di un’istruzione parentale non è di certo cosa nuova: la scuola familiare esiste ovunque, con determinate regole e indicazioni da seguire, che variano di paese in paese. Ciò che però sta accadendo in Austria, visti i numeri molto alti e in fase di crescita, potrebbe portare a delle allarmanti conseguenze sull’istruzione in generale.

Infatti, sull’homeschooling ci sono da sempre diverse opinioni contrastanti. Secondo gli studi più moderni relativi alla didattica, è essenziale che lo studio sia sempre strutturato seguendo e captando la personalità e la sensibilità degli alunni. Dunque, passare sempre più da uno studio mnemonico (reputato ben meno efficace) a uno studio interessante, intuitivo e che abbia in sé il gusto del gioco, a qualsiasi età. Il passaggio da teorie più conservative a teorie più innovative su come ottimizzare l’apprendimento prevede, la maggior parte delle volte, un ambiente di “più persone”. Infatti, si apprende non solo da chi insegna ma anche dagli errori e dalle espressioni di altri studenti. Dopo i difficili periodi di lockdown, privare poi gli studenti di connessioni umane spesso possibili anche grazie all’ambiente scolastico, potrebbe non essere la scelta migliore per la crescita dei giovani. Al contempo, potrebbero verificarsi ancora più tangibili ingiustizie, solchi tra classi sociali sempre più evidenti, com’era già stato palesato con, per esempio, la DAD.

[di Francesca Naima]