La Corte australiana ha deliberato con sentenza unanime respingendo il ricorso dei legali di Novak Djokovic contro la cancellazione del visto. Il tennista rimarrà ora in stato di fermo a Melbourne fino al momento della sua espulsione e non potrà partecipare al torneo Australian Open, che inizierà domani. Le misure di espulsione prevedono in genere anche il divieto di rientro nel Paese per tre anni, con alcune eccezioni. Djokovic si è detto “deluso” dalla decisione dei giudici, ma ha affermato di rispettare la sentenza e di voler collaborare con le autorità per quanto riguarda la sua partenza.
Covid: annullata dal Tar la circolare del Ministero sulla vigile attesa
Il Tar del Lazio ha accolto il ricorso del Comitato cura domiciliare Covid-19 ed ha annullato la circolare del Ministero della Salute aggiornata al 26 aprile 2021 nella parte in cui, riguardo al trattamento domiciliare dei pazienti Covid, prevedeva la cosiddetta «vigilante attesa» e la somministrazione di fans e paracetamolo durante i primi giorni di malattia, indicando di non utilizzare determinati medicinali. Come riportato dall’agenzia di stampa Ansa, infatti, il Tar ha stabilito tramite apposita sentenza che tali parti della circolare si pongano «in contrasto con l’attività professionale così come demandata al medico nei termini indicati dalla scienza e dalla deontologia professionale», imponendo ai medici «puntuali e vincolanti scelte terapeutiche». In tal senso, i farmaci che nello specifico la circolare indicava di non utilizzare per le persone ammalatesi di Covid erano quelli generalmente utilizzati dai medici di medicina generale.
Il Tar ha stabilito che sia «onere imprescindibile di ogni sanitario quello di agire secondo scienza e coscienza, assumendosi la responsabilità circa l’esito della terapia prescritta quale conseguenza della professionalità e del titolo specialistico acquisito». Alla luce di ciò la circolare in questione, con cui il Ministero della Salute aveva fatto proprie le linee guida dell’Aifa (Agenzia italiana del farmaco), contrasta come detto con «la richiesta professionalità del medico e con la sua deontologia professionale, imponendo, anzi impedendo l’utilizzo di terapie da questi ultimi eventualmente ritenute idonee ed efficaci al contrasto della malattia Covid-19 come avviene per ogni attività terapeutica».
Esultano dunque il presidente ed avvocato Erich Grimaldi e l’avvocato Valentina Piraino, ovverosia coloro che hanno sottoscritto il ricorso. Secondo quest’ultima si tratta di una decisione che «cristallizza una volta per tutte quale sia il ruolo del medico di medicina generale, ovvero agire e non lasciare i malati Covid ad attendere l’evolversi della malattia». Grimaldi, invece, ricorda che quanto stabilito dal Tar mette «finalmente un punto fermo a una battaglia che portiamo avanti da due anni per dimostrare che le linee guida ministeriali fossero di fatto uno strumento per vincolare i medici di medicina generale alle eventuali responsabilità che derivano dalla scelta terapeutica». Facendo ciò, ha aggiunto l’avvocato, il governo «ha di fatto privato i cittadini delle cure domiciliari precoci, paralizzando la sanità territoriale e portando al collasso il sistema ospedaliero, con le drammatiche conseguenze che migliaia di famiglie conoscono purtroppo molto bene».
[di Raffaele De Luca]
La psiche collettiva: una profezia di Jung
È uscito il mese scorso in Francia un interessante libro di Frédéric Lenoir che espone con appassionata chiarezza l’opera di Carl Gustav Jung (Jung. Un voyage vers soi, Albin Michel editore). Folgorante questo attualissimo passaggio dello psicanalista svizzero, 1944, giustamente ripreso da Lenoir: “Sono convinto che lo studio scientifico dell’anima sia la scienza dell’avvenire… Appare in effetti, con una chiarezza sempre più accecante che non sono né le carestie, né i terremoti, né i microbi, né il cancro ma che è proprio l’uomo a costituire per l’uomo il più grande pericolo. Il motivo è semplice: non esiste ancora alcuna protezione efficace contro le malattie psichiche: ora, queste epidemie sono infinitamente più devastatrici delle peggiori catastrofi! Il supremo pericolo che minaccia tanto l’essere individuale quanto i popoli nel loro insieme è infatti il pericolo psichico”.
L’inconscio collettivo che, secondo Jung, noi avremmo ereditato da tempi ancestrali, con i suoi miti, le sue interdizioni e le sue potenti pulsioni, se viene sollecitato per esercitare potere, per influenzare i comportamenti mediante le emozioni, impedisce a ciascuno di armonizzare il retaggio del passato, il proprio patrimonio di sensazioni materiali e spirituali, con l’ esperienza del vissuto.
Una accelerazione, una forzatura che produce choc emotivi, provocando sovrapposizioni di razionale e irrazionale, sconfinamenti tra salute individuale e benessere sociale. Il disagio che ne deriva gioca nell’interesse di chi vuole dominare senza farlo risultare troppo.
[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]
Amnesty all’Italia: emergenza deve avere fine, non discriminare i non vaccinati
Le misure adottate dal governo italiano per contrastare l’emergenza sanitaria sono finite nel mirino dell’organizzazione impegnata nella difesa dei diritti umani Amnesty International: la sezione italiana della stessa, infatti, ha pubblicato ieri un testo in cui esprime la propria posizione critica riguardo alle misure adottate nel nostro Paese, ponendo la lente di ingrandimento in maniera particolare sulla durata dello stato di emergenza e sulla discriminazione riservata ai cittadini non vaccinati.
Nello specifico, per quanto riguarda lo stato di emergenza, recentemente prolungato fino al 31 marzo 2022, Amnesty International Italia «sollecita il governo a riconsiderare attentamente se prorogare la misura oltre tale data, in quanto tutte le misure di carattere emergenziale devono rispondere ai principi di necessità, temporaneità e proporzionalità». Venendo poi al tema vaccini – che recentemente sono stati resi obbligatori per gli over 50 in Italia – la posizione di Amnesty International è la seguente: se da un lato continua a ribadire la necessità che gli stati promuovano una «distribuzione equa e globale dei vaccini» e «riconosce la legittima preoccupazione degli stati di aumentare i tassi di vaccinazione come parte di un’efficace risposta di salute pubblica al Covid-19», dall’altro «non sostiene i mandati di vaccinazione obbligatoria generalizzati ed esorta gli stati a considerare qualsiasi requisito di vaccinazione obbligatoria solo come ultima risorsa e se questi sono strettamente in linea con gli standard internazionali sui diritti umani».
Amnesty dunque sostiene che «gli stati debbano concentrarsi sull’aumento dell’adesione volontaria al vaccino», tuttavia ritiene altresì che l’obbligo di vaccinazione possa in determinate occasioni essere adottato ma che «tutti gli stati devono assicurarsi che qualsiasi proposta in tal senso sia mirata, limitata nel tempo e adottata solo come ultima risorsa» nonché «accompagnata da una logica basata sull’evidenza che spieghi perché l’obiettivo non possa essere raggiunto con misure meno restrittive». Insomma, «ci sono casi in cui l’obbligo di vaccinazione può essere giustificato» tuttavia, oltre a quanto ricordato, esso deve inoltre essere «stabilito dalla legge, ritenuto necessario e proporzionato a uno scopo legittimo legato alla protezione della salute pubblica», ed inoltre vi devono essere anche «garanzie e meccanismi di monitoraggio per assicurare che questi requisiti non si traducano in violazioni dei diritti umani».
Proprio con riferimento ai diritti, poi, l’organizzazione esprime la sua posizione in merito al Green Pass rafforzato introdotto in Italia, ribadendo non solo che debba trattarsi di «un dispositivo limitato nel tempo» ma anche appunto che il governo debba «continuare a garantire che l’intera popolazione possa godere dei suoi diritti fondamentali, come il diritto all’istruzione, al lavoro e alle cure, con particolare attenzione ai pazienti non-Covid che hanno bisogno di interventi urgenti e non devono essere penalizzati». Amnesty International Italia chiede inoltre che «siano previste misure alternative – come l’uso di dispositivi di protezione e di test Covid-19 – per permettere anche alla popolazione non vaccinata di continuare a svolgere il proprio lavoro e di utilizzare i mezzi di trasporto, senza discriminazioni».
Amnesty infine cita anche il diritto di manifestazione pacifica: seppur, a seguito della direttiva della ministra dell’Interno del novembre 2021 secondo l’organizzazione non risulti ad oggi esservi una effettiva compromissione dello stesso, Amnesty International Italia afferma che «continuerà a rivendicare il diritto a manifestare pacificamente forme di dissenso e a garantire il diritto di cronaca degli operatori e delle operatrici dell’informazione, denunciando ogni atto di aggressione o violenza ingiustificata nei loro confronti».
Detto ciò, non si tratta della prima volta in cui Amnesty prende posizione in merito alla gestione della pandemia in Italia. Negli scorsi mesi infatti aveva pubblicato un rapporto sulle condizioni degli operatori sociosanitari dipendenti delle RSA durante la prima ondata della pandemia, con numerose testimonianze raccolte che descrivevano inadatte condizioni di sicurezza e lavoro nelle strutture: tuttavia, tra i dipendenti coloro che avevano denunciato gli abusi subiti e la totale assenza di sicurezza sono stati sottoposti a pressioni e ritorsioni, fino alla perdita dell’impiego.
[di Raffaele De Luca]
Il nucleare può realmente essere parte dell’energia del futuro?
Tra non molto, l’Europa si esprimerà definitivamente sulla ormai ampiamente dibattuta questione della tassonomia verde. Il 21 gennaio sapremo quindi se gas naturale ed energia nucleare andranno considerate fonti finanziabili in quanto utili alla transizione. Una strada che appare già segnata pur non trovando un pieno appoggio politico e tantomeno da parte della comunità scientifica internazionale. Pensiamo al Nobel per la fisica Parisi, il quale, in riferimento al nucleare si è detto ‘scettico’ ad un suo ritorno in Italia. Per non parlare poi della posizione degli ambientalisti, notoriamente e fermamente contraria ad entrambe le possibilità in esame a Bruxelles. In particolare, per quanto riguarda il gas, come abbiamo più volte ribadito, si fa fatica a percepire tale fonte energetica come una mera ‘risorsa di transizione’ libera da interessi economici: insomma, quanto è realmente necessaria? E quanto è necessario che lo sia per l’una o l’altra industria? Perché di questo stiamo parlando, un combustibile fossile – esattamente come tutti gli altri che numerosi scienziati raccomandano di abbandonare immediatamente – che, tra l’altro, non sembra nemmeno garantire sempre e comunque un significativo taglio nelle emissioni di gas serra. E di cui l’Italia, tra l’altro, potrebbe benissimo farne a meno. Discorso a parte per il nucleare, sul quale ci focalizzeremo. L’energia atomica, indubbiamente ‘pulita’ quantomeno in termini di gas climalteranti, solleva però ancora tanti dubbi relativi alla sicurezza generale e alla gestione dei rifiuti radioattivi. Per questo motivo abbiamo parlato con il professor Gianfranco Caruso, associato della Sapienza di Roma in Impianti Nucleari. Un punto di vista esperto, sebbene non propriamente super partes, che tuttavia aiuterà a chiarire alcuni importanti e spinosi punti della questione.
Salve Professore, l’Europa è ad un passo dall’inserire il gas naturale e l’energia nucleare nella tassonomia verde. Lei che opinione ha al riguardo?
Concordo con questa proposta della Commissione Europea. Lo scopo fondamentale, del tutto condivisibile, è facilitare la transizione verso un futuro prevalentemente basato sulle energie rinnovabili. L’utilizzo del gas naturale, a breve e medio termine, e dell’energia nucleare può contribuire a dismettere definitivamente le centrali basate su combustibili fossili a maggior impatto ambientale, come quelle a carbone, in attesa che la quota prodotta dalle rinnovabili possa aumentare ancora. Si tenga presente che nel mondo le centrali a carbone forniscono ancora un contributo notevole nella produzione di energia elettrica e ci sono tuttora, soprattutto in Cina, India e in altri paesi decine di centrali a carbone operative e anche in costruzione (la stessa Germania, che ne ha circa 40 operative, nel 2020 ha inaugurato la nuova centrale a carbone Datteln-4). Secondo la IEA (International Energy Agency) il 2021 è stato un anno record per la produzione di energia elettrica da carbone e le previsioni sono che tale situazione si manterrà per i prossimi 3 o 4 anni. Purtroppo la variabilità del prezzo del gas, dovuta principalmente a fattori geopolitici, ma anche di carattere tecnico (ad esempio lo spegnimento delle centrali nucleari in esercizio, non solo in via definitiva – come in Germania – ma anche per manutenzione – come accaduto recentemente in Francia per 4 centrali con una riduzione della produzione da fonte nucleare del 10%), e ambientale (d’inverno le ore utili di irraggiamento solare sono limitate) rende il carbone economicamente ancora più competitivo: si veda ad esempio la recente temporanea riaccensione delle centrali a carbone di La Spezia e Monfalcone in Italia. Da un punto di vista puramente tecnico-economico un mix di tutte diverse fonti di energia disponibili meno climalteranti sembra essere necessario, benché ovviamente andrà rimodulato nel tempo con l’obiettivo di ridurre sempre di più le emissioni fino al raggiungimento della condizione Net Zero Emissions. L’inclusione nella tassonomia “verde” non implica l’inevitabile ricorso a queste fonti, ma evita di privarsi a priori della possibilità di poter utilizzare, se ritenuto necessario o utile dai singoli Paesi, una fonte flessibile come il gas o una fonte affidabile e a bassissime emissioni come il nucleare, ed è una scelta che ritengo opportuna.
In relazione alla crisi climatica in atto, secondo la sua esperienza, l’energia nucleare potrebbe rappresentare davvero una soluzione a lungo termine?
L’energia nucleare può rappresentare una parte della soluzione, non la soluzione in sé, fornendo comunque un contributo importante, anche a lungo termine. Risulta difficile ad oggi ipotizzare una soluzione 100% di rinnovabili (di cui una buona percentuale è legata all’idroelettrico che ha scarsi margini di incremento) che sia affidabile, disponibile a richiesta, flessibile, costante e con limitato consumo di suolo quanto sarebbe necessario. Il nucleare può costituire, anche in un futuro più lontano, una base utile, e forse indispensabile, come sottolineato in alcuni degli ultimi rapporti delle agenzie internazionali, per raggiungere e mantenere gli obiettivi prefissati. Secondo i dati dell’Agenzia Europea per l’Ambiente, la Francia, la nazione più nuclearizzata di Europa, ha avuto nel 2020 un’intensità di produzione di gas serra (quanta CO2 equivalente viene emessa per kilowattora prodotto) pari a circa 1/6 della Germania, che sta completando l’abbandono del nucleare entro l’anno corrente, malgrado il grande piano di investimenti nelle rinnovabili del governo tedesco.
In questo senso, si parla tanto di quarta generazione, ma è realmente una tecnologia matura?
La quarta generazione non è, oggi, una tecnologia che si possa definire “matura”, in quanto non abbiamo già in esercizio impianti nucleari basati su questi principi progettuali. Gli impianti nucleari attualmente in costruzione nel mondo (55 in 19 Paesi, in cui è prevista la connessione alla rete fra i 2022 e il 2027) sono in gran parte basati sulla cosiddetta “terza generazione” e “terza generazione avanzata” (III+), e sono in parte simili a quelli della seconda generazione (a cui appartiene la stragrande maggioranza degli impianti attualmente in funzione, costruiti negli anni ‘70 e ‘80) per quanto riguarda le tipologie di reattori e i componenti di base, ma presentano sistemi di sicurezza all’avanguardia e, soprattutto, fanno sempre più ricorso ai sistemi a sicurezza passiva (il cui funzionamento non dipende da interventi umani o, in generale, da fonti di alimentazione esterne). La quarta generazione si propone di rispondere ai principali quesiti che ci si pongono riguardo all’utilizzo dell’energia nucleare: ridurre le emissioni, l’affidabilità, la sicurezza, la disponibilità delle riserve di combustibile, la minimizzazione delle scorie radioattive, la competitività economica, la non proliferazione ad uso militare. Senza entrare nel dettaglio di ciascuno degli aspetti citati, moltissimi paesi al mondo aderenti al Forum Internazionale Generation IV, nato per iniziativa del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti oltre 20 anni fa per lo sviluppo di questa nuova generazione di reattori, stanno portando avanti progetti che si trovano a diverse fasi di sviluppo, anche allo scopo di confrontare approfonditamente le 6 diverse idee concettuali che sono state finora selezionate. Quindi, pur con il vantaggio di 80 anni di esperienza nelle tecnologie della fissione nucleare, non abbiamo un progetto di IV generazione “pronto” per entrare in funzione commerciale entro il 2030, ma certamente entro quella data ci saranno diversi prototipi e dimostrativi operativi (ad esempio il progetto Natrium di Terrapower, finanziato da Bill Gates) che daranno delle risposte sugli impianti da sviluppare nel decennio successivo. Sarà perciò possibile dopo quella data coprire il periodo che ci separa dal 2050 e oltre, quando si ritiene che sarà operativo il primo reattore dimostrativo di taglia significativa basato sulla fusione nucleare, tecnologia che sembra incontrare un maggior favore nell’opinione pubblica. A breve termine, comunque, i Paesi che vorranno mantenere o sviluppare una infrastruttura di produzione da energia nucleare possono intanto adottare una tecnologia matura come quella della terza generazione avanzata, di cui esistono diverse tipologie di impianti già in esercizio, o accelerare sui cosiddetti SMR (Small Modular Reactors), piccoli reattori nucleari basati su tecnologie affidabili e già provate e che, nella loro evoluzione, facilitare lo sviluppo della quarta generazione. I Paesi che hanno mantenuto le competenze necessarie sia scientifiche che tecniche e industriali nel settore nucleare (indipendentemente dalla attuale presenza di impianti operativi), riusciranno a cogliere tutte le opportunità che si presenteranno, se le riterranno valide. Per questo motivo l’Italia – comunque coinvolta in diversi progetti europei – dovrebbe aumentare il supporto alla formazione universitaria e alla ricerca in questo settore, per far sì che le eccellenze industriali e di ricerca (ANSALDO, SOGIN, ENEA, per citare le principali) possano mantenere e incrementare le competenze nazionali che, se non altro per motivi anagrafici, rischiano di continuare a ridursi irreversibilmente. Un rifiuto totale e aprioristico dell’energia nucleare, a volte per motivi più ideologici che tecnici, risulterebbe a mio parere controproducente.
Ad ogni modo, l’energia nucleare fatica ad essere ben vista dall’opinione pubblica. La percezione del rischio è giusta o esagerata?
La percezione del rischio è forse esagerata in alcuni Paesi, mentre in altri è maggiormente diffusa una più corretta informazione del rapporto rischi-benefici, anche per tutte le diverse attività umane. Si pensi alla Finlandia, ad esempio, dove l’opinione pubblica è ben informata a livello locale e nazionale ed è in generale favorevole all’utilizzo dell’energia nucleare. Purtroppo, gli addetti ai lavori in molti casi non sono riusciti, per vari motivi, a trasmettere correttamente e efficacemente le informazioni che consentirebbero di creare una opinione più consapevole sul nucleare, anche per l’oggettiva complessità della materia. E, in generale, dire “no” e non approfondire oltre è molto più semplice che dire “si”. Una maggiore diffusione della conoscenza, per partire dalle basi, delle radiazioni e della radioprotezione nei diversi livelli dei processi formativi degli studenti sarebbe sicuramente utile per poter poi approfondire gli aspetti più tecnico-economici della questione. Sapere, ad esempio, che i livelli di radiazione anche estremamente bassi (e ovviamente conoscere i rischi che comportano dal punto di vista degli effetti potenziali), si possono misurare in maniera accuratissima e istantaneamente, contrariamente a quanto accade per molte altre sostanze o fenomeni dannosi che ci circondano, sarebbe molto utile per meglio giudicare alcune affermazioni “assolute” che purtroppo a volte sono riportate sui mezzi di informazione e che, spesso, derivano da estrapolazioni prive di senso. Ritengo quindi che sull’energia nucleare sia importante informare, discutere e confrontarsi, senza ritenere chiuso l’argomento.
C’è poi la questione delle scorie radioattive. In Italia, saremmo veramente pronti a gestirle se si tornasse al nucleare?
Dal mio punto di vista, tutte le tecnologie necessarie ad una corretta gestione delle scorie radioattive sono disponibili, sia per il trattamento, il trasporto e lo stoccaggio. In Italia la SOGIN ha il bagaglio di conoscenze necessario e all’avanguardia. Esiste inoltre un’autorità di controllo indipendente (ISIN, Ispettorato Nazionale per la sicurezza Nucleare e la Radioprotezione) che andrebbe nel caso potenziata in termini di risorse umane. Il processo non sarebbe molto diverso da quello attualmente in atto per lo smantellamento delle installazioni nucleari dismesse. I rifiuti radioattivi ad attività molto bassa e bassa, che nell’arco di 300 anni raggiungeranno un livello di radioattività tale da non rappresentare più un rischio per l’uomo e per l’ambiente, verranno smaltiti definitivamente in un Deposito Nazionale (di cui molti Paesi sono già dotati) dove verranno conferiti anche tutti i rifiuti provenienti non solo dal settore energetico, ma anche quelli derivanti dalla ricerca, dall’industria e dalla medicina nucleare, che continueranno comunque ad essere prodotti. Come in molti altri paesi europei, il deposito accoglierà temporaneamente, in una apposita zona i rifiuti a media e alta attività in attesa della disponibilità di un deposito cosiddetto geologico (a circa 500 m di profondità), che costituisce ad oggi la soluzione più idonea per il loro smaltimento definitivo in sicurezza per centinaia di migliaia di anni. Si tenga presente che di questi attualmente solo 400 metri cubi sono rifiuti provenienti ad oggi in Italia dai residui del riprocessamento del combustibile effettuato all’estero e dal combustibile nucleare non riprocessabile. In caso di riprocessamento del combustibile, per riutilizzare alcuni degli elementi radioattivi più pericolosi in altri reattori (il cosiddetto “ciclo chiuso”, previsto anche nella IV generazione) una centrale nucleare da 1000 MW elettrici (che in un anno può produrre 7-8 miliardi di kWh, sufficienti a titolo di esempio ad alimentare più di 2 milioni di abitazioni con un consumo medio di 3500 kWh/anno) produce un volume relativamente esiguo (circa 3-4 metri cubi) di rifiuti vetrificati ad alta attività ogni anno. Non sono certo quantità ingestibili, anche se le centrali fossero 4 o 5, più o meno il numero equivalente alla produzione di energia elettrica da fonte nucleare che importiamo annualmente dall’estero. Per il loro smaltimento definitivo in un deposito geologico, molti Paesi stanno provvedendo alla loro localizzazione sul proprio territorio nazionale (IAEA, Status and trends in spent fuel and radioactive waste management, 2022). In Finlandia è in fase avanzata di costruzione a Onkalo e sarà completato entro i prossimi due anni, la Svezia ha concluso il processo autorizzativo per il sito di Forsmark, la Cina ha iniziato la costruzione di un deposito di prova, la Francia ha individuato il sito ed è in attesa delle ultime autorizzazioni per iniziarne la costruzione; altri Paesi (Germania, UK, Giappone, etc.) sono nelle diverse fasi di selezione e localizzazione. Ad oggi l’Italia, insieme ad altri Paesi europei che hanno un volume limitato di scorie radioattive ad alta attività, potrebbe usufruire della possibilità di conferirli in un deposito geologico centralizzato a livello europeo, ancora da individuare.
E chi, come la Francia, già ne fa ampiamente uso, come se la cava? Spedirle in Siberia non vale…
La Francia ha due depositi per i rifiuti a bassa e bassissima attività, il primo in Normandia, già saturo nella metà degli anni ’90 con oltre 500000 metri cubi di capacità, e un secondo in attività nell’area nord-est, nella regione dello Champagne-Ardenne (L’Auble), di oltre 1000000 di metri cubi, più di 10 volte la capacità del deposito previsto in Italia. Questo secondo deposito è stato realizzato con un forte coinvolgimento della popolazione dei comuni circostanti, inizialmente contraria, ma successivamente favorevole dopo una adeguata campagna informativa. Come già detto la Francia ha già individuato il sito per il deposito geologico per i rifiuti a media e alta attività a Bure, sempre nel nord-est, e si è in attesa del decreto di dichiarazione di pubblica utilità, preliminare all’autorizzazione definitiva alla costruzione, che dovrebbe partire nel 2025. La consultazione pubblica ha portato a migliorarne la progettazione, introducendo un periodo di prova e la possibilità di renderlo “reversibile” (estraendo i rifiuti depositati). Sul tema della “spedizione in Siberia” non ho sufficienti dettagli per esprimere un giudizio, in quanto l’informazione finora diffusa è relativamente generica. Di quale tipologia di “rifiuti nucleari” si tratta esattamente? Qual è lo scopo di questa eventuale “spedizione”? In assenza di queste informazioni non è possibile esprimersi o concludere se si tratti o meno di un’azione nel rispetto delle norme internazionali.
In conclusione. In Italia, e nell’area mediterranea in generale, non sarebbe più ragionevole puntare tutto su eolico, solare e sistemi di accumulo energetico?
È evidente che l’area mediterranea è particolarmente favorita dal punto di vista della disponibilità di alcune fonti rinnovabili. Per quanto detto in precedenza, chi è a favore dell’utilizzo dell’energia nucleare (non solo per la produzione di energia elettrica, ma anche per scopi diversi quali la produzione di calore per usi industriali e civili, la dissalazione dell’acqua di mare, la produzione di idrogeno) ritiene che il contributo delle energie rinnovabili debba inevitabilmente e auspicabilmente crescere parallelamente ad un uso efficiente dell’energia, ma crede anche che esse non potranno da sole risolvere in maniera efficace il problema energetico e climatico, a meno di non intraprendere un percorso di decrescita o a costi – in senso ampio – elevatissimi. Quindi piuttosto che mantenere in funzione o aumentare ulteriormente la produzione di energia da combustibili fossili, sarebbe meglio, a mio parere, dotarsi di una percentuale più o meno significativa, a seconda delle condizioni economiche, sociali e climatiche di ciascun Paese, di produzione da fonte nucleare.
[di Simone Valeri]
Birmania: nuove accuse di corruzione per Aung San Suu Kyi
In Birmania, l’ex leader e premio Nobel Aung San Suu Kyi sta subendo un nuovo attacco da parte della giunta militare al potere: secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa Agence France-Presse (AFP), che cita fonti vicine al caso, un tribunale della giunta ha infatti colpito quest’ultima con cinque nuove accuse di corruzione relative al presunto noleggio e all’acquisto di un elicottero. Stando a quanto riportato dai media ufficiali, per San Suu Kyi l’accusa è nello specifico quella di aver provocato una perdita finanziaria allo Stato birmano violando le regole relative appunto al noleggio e all’acquisto di elicotteri. Ad essere colpito da tali accuse, inoltre, è stato anche l’ex presidente della Birmania, U Win Myint.
Il canone Rai e il finanziamento a nostra insaputa
Si chiama un po’ pomposamente “Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione”, e in teoria dovrebbe appunto servire per alimentare e incentivare un panorama di voci libere e indipendenti. In realtà, la raccolta pubblicitaria e le dinamiche dei media italiani, da anni, sono serviti più a strangolarle, che a fargli da amplificatore. Basti pensare che il tesoretto viene gestito dal ministero per lo Sviluppo Economico, quindi di volta in volta ha un colore e un indirizzo politico, al quale viene assegnato il compito di aprire o chiudere il rubinetto, decidendo chi ha diritto e a quanto. Un fondo che, all’insaputa di quasi tutti i cittadini, passa attraverso il canone Rai.
Il gruzzoletto ammonta a circa 110 milioni l’anno e ne beneficia una platea piuttosto vasta di tv e radio commerciali, esattamente 137 televisioni e 163 emittenti radiofoniche (oltre a 621 tra tv e radio comunitarie, ossia cooperative, opere diocesane, parrocchie, associazioni culturali), ma anche testate giornalistiche di carattere nazionale. Proprio questo, invero, è il punto. Perché il finanziamento a questa fetta cospicua e nemmeno troppo sommersa di media, passa – all’insaputa dei più – attraverso il canone Rai che tutti dobbiamo pagare. La norma infatti prevede che una parte della “bolletta” associata a quella della luce, e con la quale gli italiani finanziano l’emittente di Stato, serva appunto a sostenere tutto il sommerso che sta dietro a Mamma Rai. In molti casi, peraltro, proprio testate o emittenti che fanno concorrenza alla Rai stessa.
Non sono certo in molti, gli italiani che lo sanno. Non sanno per esempio che l’anno scorso tv e radio locali che in molti casi, non possono vedere e non vedranno mai, hanno beneficiato di 66 milioni da questo fondo, nell’anno appena iniziato la cifra dovrebbe essere aumentata di 5 milioni. Come non sanno che la quota rimanente a disposizione, viene elargita ad una platea di 107 tra giornali e periodici, comprese 8 testate editate per le minoranze linguistiche. Anche in questo, l’imbuto tra cui passa il fiume di soldi pubblici è politico, perché la lista e i criteri di ammissione sono gestiti dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’Editoria, in questo caso col governo Draghi si tratta del senatore forzista Giuseppe Moles. Ma la lunga lista dei giornali che vengono sostenuti dal Fondo, attraverso la Rai, comprende testate molto note, la più fortunata delle quali è Dolomiten, quotidiano in lingua tedesca di Bolzano che incassa sei milioni e 176 mila euro. Ma anche i giornali cattolici Famiglia cristiana e Avvenire non possono lamentarsi per il trattamento che ricevano: rispettivamente sei e cinque milioni di euro. Ci sono anche Libero (5,4 milioni di euro), Italia Oggi (quattro milioni), Il Manifesto (tre milioni), Il Foglio (un milione e 800mila euro).
La legge che ha accorpato il canone Rai alla bolletta risale al governo Renzi, fu pensata (e molto criticata) per cercare di ridurre l’alto tasso di evasione su questo contributo all’Ente di stato e se è per quello, con la coercizione, si è notevolmente abbassato il numero dei morosi (dal 27% al 5%): 7 milioni di italiani in più, totale circa 22 milioni, pagano 90 euro di canone Rai, non sapendo che 5 euro vanno a tutti gli altri senza che gli italiani in pratica lo sappiano. Una situazione che non fa contenta nemmeno la Rai, anzi. Grazie alla norma che fa pagare coercitivamente tutti, quindi aumentando la platea di cittadini che pagano, il gettito è aumentato a quasi 2 miliardi, ma tra Iva, tasse di concessione e appunto il Fondo, le risorse per Mamma Rai non sono aumentate, anzi sono diminuite. Tanto è vero che il sindacato Usigrai fece anche un ricorso al Presidente della Repubblica e l’amministratore Rai, Carlo Fuortes, appena insediato ha sollevato il problema davanti alla commissione di Vigilanza.
Ha poi proposto di azzerare il Fondo e quindi di drenare le risorse per il servizio pubblico che negli anni ha visto dimezzarsi le entrate pubblicitarie (dal 2008 al 2021: da 1 miliardo 187 milioni a 557), scatenando però subito una tempesta tra gli editori e i giornalisti. E ricevendo di fatto l’altolà da parte del presidente della Fieg (Federazione Italiana Editori Giornali), Andrea Riffeser Monti, che ha tuonato a difesa del pluralismo e per difendere le decine di testate che campano coi soldi del Fondo. E all’insaputa degli italiani che li finanziano.
[di Salvatore Maria Righi]
Le sanzioni americane stanno condannando a morte i civili afghani
Da quando i talebani si sono insediati in Afghanistan e gli Stati Uniti hanno ritirato le proprie truppe dal territorio, per i civili si prospettano tempi molto duri. Anzi, quei giorni sono già arrivati.
Cosa ha ridotto così in miseria il popolo afghano? I fattori sono tanti e probabilmente frutto di anni di politiche e interventi sbagliati. Tuttavia il collasso economico succeduto al ritiro dell’esercito americano, unito alle enormi sanzioni imposte al Paese e alla cessazione di molti aiuti umanitari, hanno siglato una vera e propria condanna. Milioni di persone soffrono quotidianamente la fame. Molte di loro moriranno. Paul Spiegel, direttore del Center for Humanitarian Health, dopo essere tornato da un viaggio in Afghanistan per conto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha detto che “se gli Stati Uniti e altri Paesi occidentali non cambiano le loro politiche sanzionatorie, più afgani moriranno a causa delle sanzioni che per mano dei talebani”.
Le morti saranno quindi anche conseguenza di decisioni politiche e strategie. Ad agosto Ajmal Ahmady, Governatore della Banca Centrale locale, diceva che le riserve valutarie del Paese sono per lo più depositate in conti esteri e “pertanto, possiamo dire che i fondi accessibili ai talebani sono forse lo 0,1-0,2% delle riserve internazionali totali dell’Afghanistan”. Nello stesso periodo gli Stati Uniti hanno congelato gran parte dei 9,5 miliardi di dollari di beni di proprietà proprio della Banca centrale dell’Afghanistan, interrompendo i trasferimenti di denaro verso il Paese.
Quello delle sanzioni è un efficace strumento di controllo, utilizzato dagli Stati Uniti soprattutto negli affari di politica estera. Il problema è che il governo afghano, costruito anche con l’intervento straniero nel corso di moltissimi anni, dipende quasi interamente dal sostegno fuori porta, in particolare in ambito sanitario ed alimentare.
E gli effetti cominciano già a mostrarsi in maniera più che evidente. Per sottrarsi alla fame molte persone sono arrivate a vendere i propri organi. Nasir Ahmad, un chirurgo locale, ha detto di aver effettuato 85 operazioni di trapianto di rene negli ultimi mesi, operazione nel 99% dei casi effettuata su individui poveri spinti da motivi economici. E ancora. 3,2 milioni di bambine e bambini al di sotto dei cinque anni stanno soffrendo di malnutrizione acuta.
L’insicurezza alimentare che oggi si sta affrontando nel Paese è la più grave degli ultimi decenni. Gli interventi umanitari sono fondamentali per evitare una catastrofe umanitaria che colpisce tutti indistintamente, anche chi fino a qualche tempo fa poteva dirsi “fortunato”. La disoccupazione dilagante ha ridotto in povertà quasi tutta la popolazione. L’Onu ha per questo chiesto cinque miliardi di dollari ai paesi donatori per finanziare un piano di aiuti che agisca in maniera emergenziale. L’Organizzazione ha poi anche chiesto altri 623 milioni di dollari per aiutare i quasi 6 milioni di rifugiati afgani che vivono nei Paesi vicini come Iran e Pakistan.
“Il fatto è che senza non ci sarà futuro”, ha detto Martin Griffiths, sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli affari umanitari.
[di Gloria Ferrari]
Tonga, eruzione vulcanica: effetti in tutto il Pacifico Meridionale
Nell’Oceano Pacifico meridionale si è verificata una violenta eruzione sottomarina del vulcano Hunga Tonga-Hunga Haʻapai. Il fenomeno è stato talmente forte da essere percepito sin nelle isole Fiji, a 800 km di distanza, dove le persone residenti nelle zone costiere a bassa quota sono state evacuate. Nell’isola di Tonga, che si trova a soli 65km dal vulcano, è scattato un allarme tsunami, dopo che le persone hanno visto le proprie case invase dall’acqua e la cenere cadere sugli edifici. Secondo i servizi geologici locali, i pennacchi di fumo, gas e cenere hanno raggiunto un’altitudine di 20 km nel cielo. In Nuova Zelanda, che si trova a 2300 km di distanza, è stato annunciato il rischio del verificarsi di onde anomale improvvise come effetto dell’eruzione.
La verità sui marchi DOP e IGP: veri prodotti tipici o marketing?
Il più delle volte l’italianità e la regionalità del prodotto è solo sulla carta. In realtà la materia prima viene dall’estero e l’origine tradizionale del prodotto non è più rispettata. Esempi tipici di falsa provenienza sono l’aceto balsamico di Modena IGP, la Piadina romagnola IGP, la bresaola della Valtellina IGP, le cui materie prime arrivano dall’estero con una ricetta alterata e industriale rispetto all’originale con cui il prodotto è nato tanti anni fa…
Per proteggere i prodotti di qualità del territorio, l’Unione Europea da anni emette certificati DOP e IGP. Ma ad essere tutelata, più dei consumatori, delle tradizioni e dei piccoli produttori, è una forma di concorrenza che impone di togliere dai disciplinari ogni riferimento aggiuntivo sulla provenienza delle materie prime, a discapito di filiere locali virtuose dal punto di vista economico e ambientale. E’ successo così a Modena per l’aceto balsamico, e sta continuando a succedere in Romagna con la lunga diatriba sulla piadina, ad esempio.
Marchi DOP e IGP: cosa garantiscono al consumatore?
In teoria si tratta di veri e propri marchi di qualità rilasciati dall’Unione Europea per la tutela di prodotti alimentari tipici e tradizionali di un determinato territorio (mozzarella di Bufala Campana DOP, oliva Bella di Cerignola DOP…), quindi con l’obiettivo di proteggere le eccellenze enogastronomiche del made in Italy (i prodotti DOP e IGP sono presenti anche in altri Paesi europei).
- Prodotti DOP: sono cibi legati al territorio, le cui caratteristiche sono influenzate dalla zona geografica (una regione o un paese). La coltivazione, preparazione e trasformazione devono avvenire interamente nella zona indicata. Un disciplinare di produzione specifica le materie prime da utilizzare. Cosa significa? Che i fattori naturali, come il clima e le caratteristiche ambientali e del suolo, insieme ai fattori umani – sempre legati al territorio, come le tecniche di lavorazione tramandate – permettono di ottenere un prodotto unico, impossibile da realizzare uguale in un altro luogo. È il caso di alcuni formaggi tipici, come il Gorgonzola DOP, il Taleggio DOP, ma anche l’Aglio di Voghiera DOP, o il Pane di Altamura DOP.
- Prodotti IGP: la qualità del prodotto è collegata alla zona geografica, ma è sufficiente che solo un passaggio della lavorazione avvenga nel luogo indicato. Un olio IGP può essere prodotto con olive tunisine spremute in Italia, perché in questo caso è considerato più importante il metodo di trasformazione della provenienza della materia prima.
Prodotti DOP e IGP: quale differenza in concreto?
La differenza fra prodotti DOP e prodotti IGP sta nel fatto che, nel caso del prodotto DOP, tutto ciò che concerne la produzione e la commercializzazione del prodotto, ha origine nel territorio dichiarato (es. olio extravergine di oliva Riviera Ligure DOP). Un olio extravergine DOP è prodotto solo con olive di quella zona e una percentuale di acidità generalmente inferiore a quella prevista per il normale extravergine (acidità meno di 0,8%). Mentre nel caso del prodotto IGP, il territorio dichiarato conferisce al prodotto, attraverso alcune fasi o componenti della elaborazione, le sue caratteristiche peculiari, ma non tutti i fattori che concorrono all’ottenimento del prodotto provengono dal territorio dichiarato.
L’elenco completo di tutti i prodotti DOP e IGP presenti in Italia può essere consultato sul sito del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali.
Bresaola della Valtellina IGP: prodotto made in Italy, ma la carne arriva dal Brasile!
Bresaola della Valtellina IGP? È fatta in gran parte con carne congelata di zebù, un bovino con la gobba che viene allevato in Sudamerica (Brasile, nello specifico), ma che è originario dell’Asia e dell’Africa. In Brasile gli zebù furono importati nel XX secolo e incrociati con una razza bovina francese, la Charolaise. Il salume derivato da questo bovino si spaccia come tipico della Valtellina. Una truffa alimentare? In realtà no, affatto. Lo consente il disciplinare di produzione, ma il consumatore medio non lo sa, nonostante secondo il Consorzio di Tutela, attivo dal 1998, il gradimento degli italiani nei confronti della bresaola sia cresciuto del 39% rispetto a 15 anni fa.
Non è una truffa, ma un po’ ingannevole lo è…
L’articolo 2 del disciplinare di produzione IGP specifica che la bresaola valtellinese debba essere solamente «elaborata» nella tradizionale zona di produzione che comprende l’intero territorio della provincia di Sondrio. E all’articolo 3 si prescrive che debba essere ricavata da cosce di bovino tra i 18 mesi e i 4 anni. Insomma, per produrre Bresaola della Valtellina IGP, fatta e stagionata all’italiana e in Italia, si può utilizzare — appunto — qualsiasi tipo di bovino, anche quello che di italiano non ha nulla. Tutta colpa, anzi merito, del bos taurus indicus, comunemente detto zebù. Incrociando la vacca comune con questo bovino dotato di gobba e grande giogaia, gli allevatori brasiliani ottennero un animale con la carne dura come la suola delle scarpe. “Ma è carne magra e va benissimo per le nostre bresaole”, dice Emilio Rigamonti, presidente del consorzio che tutela appunto la bresaola della Valtellina.
Paradossalmente, la carne magra degli zebù allevati spesso al pascolo brado, rischia di essere ben più sana di quella bovina italiana da allevamento industriale e intensivo, che si produce con animali sempre chiusi in stalla e che sviluppano molto più grasso nelle carni oltre a residui di antibiotici e pesticidi dei mangimi…
Qualche consumatore sarà sorpreso. Forse pensava, magari guardando la pubblicità in tv, che la carne da stagionare fosse gentilmente offerta dalle vacche e dai manzi delle montagne bergamasche. “Sono ormai decenni – dice l’uomo del consorzio – che acquistiamo carne brasiliana e il motivo è semplice: solo quella va bene per il nostro prodotto. Quella italiana ed europea sono troppo grasse. E poi bisogna ricordare che lo zebù è un bovino come gli altri. Ha solo quel nome strano, che richiama Belzebù… “.
Niente di strano quindi, a sentire chi fa profitto con questo salume e gestisce il Consorzio di Tutela della breasola IGP. A dire la verità, però, al consumatore dà fastidio che il Ministero delle Politiche Agricole permetta la denominazione di un prodotto, come IGP (Indicazione Geografica Protetta) della Valtellina. La gente si aspetta di mangiare un prodotto fatto con carne italiana allevata in Valtellina! In conclusione questo salume si faceva un tempo, è vero, con le carni dei bovini allevati nella Valtellina, ma poi il prodotto è diventato industriale trasformandone la filiera e oggi rimangono pochissime piccole aziende agricole nella provincia di Sondrio che producono ancora la vera bresaola della Valtellina.
La Piadina Romagnola IGP
Questo alimento ha ricevuto la certificazione IGP nel 2014, ma si tratta di una IGP richiesta dall’industria, fatta per gli industriali della piadina e non richiesta dai piccoli produttori del territorio romagnolo. Se ne producono 70-80 mila pezzi al giorno! Qualsiasi prodotto alimentare che abbia un marchio DOP o IGP ha anche un disciplinare di produzione ben preciso e circoscritto, ovvero il prodotto va preparato sempre e solo con le specifiche, gli ingredienti e le tecniche di lavorazione indicate dal suo disciplinare di produzione. Se ad esempio la piadina si prepara secondo altri criteri non può essere più denominata, imbustata, etichettata e venduta come piadina romagnola IGP, pena severe sanzioni amministrative e penali per chi la spaccia come qualcosa che nei fatti non è.
All’articolo 5 del Disciplinare di produzione della Piadina Romagnola IGP si elencano le materie prime obbligatorie per la preparazione di questo alimento e la sua etichettatura. La farina deve essere di grano tenero, il sale deve essere pari o inferiore a 25 grammi su un chilo di farina, i grassi che si devono obbligatoriamente utilizzare e che sono ammessi sono: strutto, olio extravergine di oliva oppure olio d’oliva (raffinato), fino a un massimo di 250 grammi per chilo di farina. Il lievito consentito è quello chimico (carbonato acido di sodio, o difosfato disodico), non è ammessa invece la preparazione con il lievito di birra o il lievito madre. Per quanto riguarda l’uso dei grassi impiegati nell’impasto, è bene notare come sia ammesso lo strutto di qualsiasi genere, fosse anche strutto di maiali allevati all’estero, sebbene la ricetta originale usasse solo lo strutto di maiale della razza Mora romagnola, un suinetto scuro e oggi quasi estinto. Ma soprattutto è ammesso l’uso, in alternativa allo strutto, dell’olio d’oliva (non extravergine di oliva), molto raffinato e non di qualità, che si ottiene dalle lavorazione residue delle bucce di oliva dopo aver estratto a freddo quello extravergine. L’olio d’oliva si estrae a caldo, attraverso macchinari ad alta temperatura e pressione; questo fa si che si degradino le sostanze grasse dell’olio stesso, ecco perché non è salutare. La farina è sufficiente che sia di grano tenero, secondo il Disciplinare. Quindi non serve che questa farina sia locale, di grano coltivato in Romagna (come era una volta) ma può venire da qualsiasi parte del mondo.
Altre indicazioni fornite dal Disciplinare, riguardano la possibilità di usare e aggiungere alcol nel momento del confezionamento (per garantirne una maggiore conservazione all’interno della confezione) e di poter addirittura congelare o surgelare per 12 mesi il prodotto. Entrambi questi aspetti sono molto lontani dalla tradizione: i produttori locali non aggiungevano alcol e non congelavano il prodotto, che veniva preparato in giornata e venduto nelle piadinerie di città il giorno stesso. Cosa c’è di male? Nulla, se non fosse che lo si continua a spacciare come prodotto tipico locale del territorio della Romagna, e che lo stesso Consorzio di Promozione e Tutela della Piadina Romagnola IGP, una associazione di garanzia con il compito istituzionale di vigilare e far rispettare il disciplinare a tutti i produttori, in realtà è controllato economicamente dagli industriali della piadina. Ecco che tutto, allora, appare molto “finto” e ingannevole. La facciata è una, ma la realtà dei fatti un’altra.
L’aceto balsamico di Modena IGP
Il vero re degli IGP in Italia è lui: l’aceto Balsamico di Modena IGP, un marchio che frutta 700 milioni di euro l’anno. Alla base del suo successo c’è uno dei prodotti di eccellenza del nostro Paese: il vero, tradizionale aceto balsamico di Modena, che si ottiene però solo ed esclusivamente con il metodo tradizionale che è il seguente: partendo da un quintale d’uva si ottiene alla fine circa mezzo litro di aceto dopo 25 anni di invecchiamento nelle botti. Questo prodotto è il vero nettare, quello da cui è partita tutta la storia dell’aceto balsamico. Un prodotto che costa centinaia di euro al litro e che ha ottenuto nel 2000 in Europa la certificazione DOP (Denominazione di Origine Protetta), da non confondersi con la certificazione IGP, ideata solo nel 2009 da astuti industriali e proposta all’Unione Europea per poi essere accolta e riconosciuta.
La produzione dell’Aceto Balsamico di Modena IGP, secondo le regole del suo Disciplinare, deve essere effettuata nel territorio amministrativo delle province di Modena e Reggio Emilia. Si badi bene che si parla di produzione da farsi in quel territorio, ma non si dice che le materie prime del prodotto debbano provenire da quel territorio. Le uve e l’aceto di vino utilizzati per produrre l’aceto balsamico IGP possono arrivare da qualsiasi parte del mondo, e infatti avviene esattamente questo. Le uve arrivano non solo dall’Italia ma anche da Argentina, Grecia e altri Paesi. La sola cosa imprescindibile è che le uve appartengano ai 7 vitigni indicati dal disciplinare di produzione. E’ evidente come rispetto all’aceto balsamico Tradizionale di Modena (il vero aceto di Modena insomma), che ha invece la certificazione DOP con tutto ciò che ne consegue, che qui siamo di fronte ad una industrializzazione totale dell’alimento. Di legame con il territorio di Modena è rimasto solo l’imbottigliamento e la stagionatura di 60 giorni nelle cantine di Modena.
Per produrre l’aceto balsamico di Modena IGP è sufficiente una quantità di mosto d’uva pari al 20%, il resto è costituito da aceto di vino (minimo 10% e fino all’80% del prodotto), aceto di qualsiasi tipo (non specificata la tipologia di aceto né la percentuale di prodotto da utilizzare) e da colorante caramello (massimo il 2%). Quando il consumatore acquista un aceto balsamico IGP però, non può conoscere queste informazioni in dettaglio, dal momento che il disciplinare vieta espressamente di indicare in etichetta la provenienza dell’uva, la percentuale di aceto aggiunta ed il tempo d’invecchiamento. Nel sito ufficiale del Consorzio di Tutela dell’aceto balsamico IGP si legge che “la produzione può avvenire esclusivamente nelle province di Modena e Reggio Emilia”, ma questa affermazione va presa con le pinze, dal momento che per produzione si intende soltanto la preparazione finale nelle botti e l’imbottigliamento e invecchiamento di 60 giorni. E’ un po’ come dire “pasta 100% italiana”, ma poi scoprire che è fatta con del grano coltivato in Canada o Australia, che viene trasferito ai pastifici italiani per l’impasto e cottura della semola. Si può davvero sostenere che questi prodotti siano il risultato di una territorialità e tradizione italiana? Di una Indicazione Geografica Protetta (IGP)?
Forse non è proprio così. Sarebbe quindi, più serio e onesto dire che il prodotto viene fatto con una variazione della ricetta originale e con materie prime che provengono anche da territori diversi da quello italiano.
In definitiva, l’Indicazione Geografica Protetta è sulla carta un modo per tutelare le eccellenze del made in Italy dalla contraffazione, ma le logiche di profitto industriale hanno stravolto a tal punto questo principio da farlo arrivare al paradosso di un italiano (aceto balsamico IGP) che copia un altro italiano (aceto Tradizionale balsamico DOP, la vera eccellenza), facendo un ritocco alla ricetta della tradizione per creare un prodotto più vendibile su larga scala ed esportabile in tutto il mondo. Ribadiamo che il balsamico IGP ha fatturati stellari nel mondo e da quando ha ottenuto la certificazione ha dimezzato i fatturati del balsamico Tradizionale DOP. È bene ricordare che non tutti i prodotti IGP sono slegati dal territorio italiano e dalla ricetta tradizionale originale con cui sono nati, pertanto questa analisi non vuole generalizzare i punti presentati sulla bresaola della Valtellina, la piadina romagnola e l’aceto balsamico di Modena. Sebbene altri IGP e persino altre DOP presentino questo ingannevole legame col territorio e con le eccellenze del made in Italy, molti altri rimangono ancora vere certificazioni di indicazione geografica protetta.
[di Gianpaolo Usai]













