martedì 11 Novembre 2025
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Gibuti, il piccolo stato africano dove si confrontano le potenze mondiali

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Sale sempre di più l’attenzione verso il piccolo Stato di Gibuti, affacciato sulle coste dell’Africa Orientale nella parte meridionale del Mar Rosso, sul Golfo di Aden. In posizione strategica rispetto al passaggio dall’Asia all’Europa via Suez, l’ex colonia francese è diventata terreno di scontro nella sfida globale tra la superpotenza statunitense e quella cinese. La presenza militare straniera a Gibuti risulta essere elevata, vista anche l’estensione territoriale del piccolo Stato africano; oltre a Stati Uniti e Cina sono presenti: Francia, Giappone, Arabia Saudita e Italia – presente dal 2013 con una base anti-pirateria – mentre Germania, Regno Unito e Spagna sono presenti appoggiandosi alle basi militari degli alleati. Russia e India hanno invece avanzato proposte di installazione. L’affitto delle aree ad uso militare straniero sono la principale fonte economica di Gibuti, uno tra gli stati più poveri al mondo: gli Stati Uniti pagano 63 milioni ogni 10 anni mentre la Cina paga 20 milioni di dollari all’anno, tra soldi liquidi e investimenti commerciali.

Gli Stati Uniti sono insediati dal 2002 nell’ex base francese Camp Lemmonier, sede della Combined Joint Task Force – Horn of Africa (CJTF-HOA) del Comando Africa degli Stati Uniti (USAFRICOM o AFRICOM). Questa base ospita 4.000 unità tra personale militare e civile e appaltatori del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti e risulta essere la più grande base permanente USA su suolo africano.

Nel 2017, a poche decine di chilometri a nord di Camp Lemmonier, la Cina ha costruito la sua prima base militare all’estero, destando non poche preoccupazioni per la strategia globale statunitense. Sebbene due anni prima i cinesi si fossero già insediati nell’area, le motivazioni apparivano di carattere commerciale, ovvero creare una struttura logistica di interscambio funzionale all’espansione economica cinese nel continente africano. La struttura cinese, oltre a comprendere diversi tipi di forze, è dotata anche di eliporto per droni e, dall’aprile dello scorso anno, anche di un molo lungo 660 metri per l’attracco di portaerei.

Il generale Stephen Townsend di AFRICOM, sempre lo scorso aprile, proprio in merito agli sviluppi della base cinese nel Paese, ha lanciato moniti parlando al Comitato dei servizi armati della Camera, definendola una «piattaforma per proiettare il potere in tutto il continente e le sue acque». Il generale ha anche aggiunto che i cinesi «cercano risorse e mercati per alimentare la crescita economica in Cina e sfruttare gli strumenti economici per aumentare la loro portata e influenza globale». Ciò risulta essere una spina nel fianco per gli Stati Uniti e per lo Strategic Competition Act, di cui vi abbiamo parlato lo scorso anno, ovvero la strategia globale di contenimento e offensiva nei confronti dell’ascesa cinese.

Secondo il generale, senza fornire alcuna reale prova, Pechino vorrebbe costruire anche ulteriori basi per legare «i loro investimenti nei porti marittimi commerciali in Africa orientale, occidentale e meridionale strettamente con il coinvolgimento delle forze militari cinesi al fine di promuovere i loro interessi geo-strategici». Nel dicembre passato, prima il Wall Street Journal e poi il New York Post, hanno riferito di funzionari governativi che hanno espresso preoccupazione per la possibilità che la Cina si installi con una base anche sulla sponda atlantica dell’Africa e, più precisamente, in Guinea Equatoriale.

Ciò che invece risulta certo è che la base statunitense di Gibuti è un hub per l’addestramento di forze etiopi, somale, ugandesi e di altri paesi africani. Inoltre, il Paese ospita emittenti di propaganda regionali e gruppi privati che operano come agenzie umanitarie. Un cablogramma pubblicato da Wikileaks, risalente al 2010, inviato dall’ambasciata degli Stati Uniti a Gibuti alla CIA, riporta che Gibuti è sede di «strutture di trasmissione [del governo degli Stati Uniti] utilizzate da Radio Sawa in lingua araba e dal Servizio somalo Voice of America, l’unico magazzino USAID Food for Peace per aiuti alimentari di emergenza pre-posizionati al di fuori [degli Stati Uniti continentali] e strutture di rifornimento navale per le navi statunitensi e della coalizione».

Nello stesso anno, Camp Lemonnier ha ospitato la prima conferenza al vertice di comando, controllo, comunicazioni, computer, intelligence, sorveglianza e ricognizione dell’Africa, per la guerra a distanza con i droni. Due anni più tardi, BT (ex British Telecom) ha costruito un cavo in fibra ottica da 23 milioni di dollari per la US Defense Information Systems Network e la National Security Agency. Il cavo andava dalla Royal Air Force Croughton (a nord di Londra) – gestita dalla US Air Force a Napoli (Italia) – fino a Camp Lemonnier, utile alla “guerra a distanza”. Continue sono le esercitazioni militari e l’addestramento di forze alleate e partner militari, tra il soft power della propaganda e la messa in mostra dei muscoli d’acciaio di navi e velivoli, come accaduto lo scorso novembre.

È innegabile la strategia economica aggressiva della Cina nel continente africano, tra investimenti infrastrutturali e finanziamenti a lungo termine in cambio dell’apertura di nuovi mercati e dell’estrazione di enormi quantità di risorse minerarie. Al momento però le forze militari sul continente africano sembrano essere alquanto impari con gli Stati Uniti che certamente hanno una presa maggiore, sia direttamente che indirettamente, su buona parte del continente.

Il piccolo Gibuti, paese ad alto valore geostrategico, commerciale e militare, appare l’emblema di un mondo multipolare dove le potenze si confrontano camminando spericolatamente sul filo sottile che separa pace e guerra.

[di Michele Manfrin]

Lamorgese a Foggia per allarme bombe contro imprenditori locali

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La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese si recherà oggi a Foggia per presiedere un Comitato Straordinario, in seguito ai nove attacchi dinamitardi e incendiari ai danni di imprenditori locali che hanno avuto luogo nelle scorse settimane. La zona dove si svolgerà l’incontro è pattugliata da 150 agenti, tra i quali anche artificieri e unità antisabotaggio e cinofile. In seguito agli attentati sono stati assegnati 50 agenti di polizia in più alla questura di Foggia, mentre sabato la sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina ha annunciato l’inizio dei lavori per spostare a Foggia il pool di magistrati in carico alla DDA di Bari che indagano sulla mafia foggiana.

Governo USA e Big Tech ridiscutono l’internet open source

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Giovedì 13 gennaio la Casa Bianca ha riunito in fretta e furia le voci più importanti del settore digitale per discutere una questione che ultimamente viene vista come problematica, quella della vulnerabilità di sistemi open source. Si tratta di codici e programmi che vengono messi a disposizione del mondo perché possano essere replicati, modificati e adattati da chiunque voglia metterci mano, entità che nell’ultimo periodo sono finiti al centro della cronaca a causa di un paio di incidenti eclatanti.

Il summit emergenziale ha coinvolto grandi nomi. Apple, Google, Amazon, Meta, IBM, Microsoft, Apache Software Foundation, Oracle, GitHub e la Linux Open Source Foundation hanno tutti preso parte al meeting con l’obiettivo di definire un piano d’azione per cui risolvere un dubbio che il MIT aveva già preso recentemente in considerazione: il come assicurarsi che progetti tenuti in piedi per spirito di volontariato, quando dannosi, non colpiscano l’intera galassia informatica.

Sebbene sia facile pensare che l’utilizzo dell’open source sia a uso esclusivo dei programmatori indipendenti, infatti, sono molte le grandi aziende che sono solite farvi affidamento per creare software che poi vengono diffusi su innumerevoli device. Attingere a soluzioni prefabbricate e gratuite è ovviamente più conveniente che produrre internamente un proprio codice, tuttavia il difetto dietro a questo modus operandi è evidente: se si usa un codice sorgente difettato, tutto ciò che ne deriva è altrettanto menomato.

Gli sviluppatori che regalano il proprio lavoro attraverso piattaforme quali GitHub lo fanno a titolo benefico e spesso non hanno le risorse o il tempo per testare, supervisionare ed aggiornare il proprio prodotto in maniera professionale. In molti casi i progetti sono creati da professionisti alle prime armi che cercano visibilità in attesa di un mestiere remunerato o da individui che vi dedicano solamente il loro tempo libero, contesti in cui è facile incappare in disillusione e vulnerabilità critiche.

Washington è in allarme proprio per una di queste falle. Una libreria Java distribuita gratuitamente, log4j, ha trasmesso un proprio difetto a una fetta gigantesca di strumenti derivati scatenando quella che è stata etichettata da alcuni come «la vulnerabilità più critica dell’ultimo decennio». I malesseri del settore sono tuttavia storici, che si tratti di bug o atti politici: recentemente il programmatore Marak Squires, stufo di vedere le Big Tech appoggiarsi a lui senza alcun riconoscimento economico, ha sabotato alcuni dei suoi codici per danneggiare chiunque ne faccia uso, manifestando un sentimento di frustrazione che ricorda quello del creatore del progetto ua-parser-js, il quale ha abbandonato nel 2018 la propria creatura proprio per la mancanza di un qualsiasi ritorno finanziario.

Poco sorprende dunque che, in occasione della discussione, il gruppo abbia a più riprese evidenziato la necessità di una partnership tra pubblico e privato che serva a identificare progetti open source di vitale importanza da sostenere con fondi e assistenza tecnica. Come si intenda classificare l’urgenza degli open source è ancora confuso, d’altro canto l’incontro è servito perlopiù a fare riconoscere al Governo USA che ormai non si possa fare a meno di questo genere di risorsa, che non esistano alternative valide e che sia necessario intervenire passando attraverso i piccoli sviluppatori. Una simile evoluzione non sarà comunque immediata, la Casa Bianca si prospetta già nuovi meeting da fissare nel prossimo futuro.

[di Walter Ferri]

USA a colloquio con compagnie energetiche per fornitura gas a Europa

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Funzionari americani avrebbero incontrato rappresentanti di diverse compagnie energetiche internazionali per discutere di un’eventuale fornitura di gas all’Europa nel caso di esplosione del conflitto tra Russia e Ucraina. Lo riporta Reuters. Mosca nega di avere intenzione di invadere l’Ucraina, ma gli USA continuano a esprimere preoccupazione. In caso di conflitto, le sanzioni americane alla Russia potrebbero portare all’interruzione delle forniture di gas, dalle quali l’Europa dipende per un terzo. Le aziende incontrate dai funzionari statunitensi avrebbero affermato che non esistano risorse di gas naturale grandi a sufficienza da sostituire i grandi volumi provenienti dalla Russia.

Ucraina, dietro attacco informatico intelligence bielorussa

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Dopo aver inizialmente rivolto i propri sospetti contro la Russia, l’Ucraina ha dichiarato di ritenere che dietro all’attacco ai siti governativi avvenuto venerdì 14 gennaio vi sia l’intelligence bielorussa. Il vice segretario del Consiglio Nazionale di Sicurezza e Difesa ucraino Sergey Demedyuk ha affermato che i responsabili del cyberattacco potrebbero afferire a un gruppo di spionaggio informatico “affiliato ai servizi speciali della Repubblica di Bielorussia” e sarebbe servito come diversivo per “azioni più distruttive” svoltesi “dietro le quinte”. A quest’ultimo riguardo, tuttavia, non sono stati forniti dettagli. Venerdì 14 gennaio i maggiori siti web ucraini, tra i quali il sito della Difesa, sono stati oscurati ed è apparso un messaggio che recitava “Abbiate paura e preparatevi al peggio”.

Nelle Filippine è in atto una carneficina nel nome della lotta alla droga

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Stando ai dati ufficiali del governo di Manila, la guerra alla droga nelle filippine avrebbe causato 6.200 morti, tra trafficanti e consumatori, dal giugno 2016 al novembre 2021. Mentre per il Tribunale Penale Internazionale (ICC), che ha aperto un procedimento su Duterte per crimini contro l’umanità nel settembre scorso, le morti causate dalla guerra alla droga ammonterebbero ad una cifra che va dalle 12.000 alle 30.000 persone. Secondo i giudici, infatti, la cosiddetta campagna di guerra alla droga non può essere vista come un’operazione legittima delle forze dell’ordine ma piuttosto come un attacco sistematico ai civili. Numerosi gruppi per i diritti umani accusano infatti Duterte di aver dato mano libera alla polizia, affermando che in numerose operazioni antidroga le forze dell’ordine avrebbero ucciso sospetti disarmati. Le autorità filippine hanno sempre sostenuto che la polizia avesse l’ordine di uccidere solo per legittima difesa.

Duterte, presidente delle Filippine dal 2016, è noto in patria con il soprannome di “The Punisher” (Il Castigatore) a causa della rigida politica di ordine pubblico e della cosiddetta tolleranza zero applicata nei confronti delle organizzazioni criminali quando era sindaco nella città di Davao. Le stesse politiche di tolleranza zero sono state poi attuate anche su tutto il territorio nazionale appena diventato Presidente. 

Sebbene le violenze riconducibili alla guerra alla droga siano diminuite negli anni rispetto ai picchi del 2016, va notato come ci siano stati importanti cambiamenti nella geografia delle violenze e nel ruolo crescente dello stato. Nei primi anni della “guerra”, infatti, quasi la metà delle operazioni antidroga e delle relative uccisioni extragiudiziali erano state portate a termine da “vigilantes”. Dal 2020, tuttavia, si è notato un aumento del coinvolgimento dello stato che ha assunto un ruolo sempre più significativo nel prendere di mira i civili stessi, non cercando più di creare distanza “esternalizzando” la maggior parte della violenza ai vigilantes. Finora nel 2021, le forze statali hanno portato a termine circa l’80% delle operazioni antidroga. Anche la geografia della violenza si è spostata, dalla capitale Manila a Luzon, in concomitanza con il trasferimento di alti funzionari di polizia. 

La guerra alla droga nelle Filippine in realtà ha assunto i connotati di una guerra contro i poveri come denunciato da Amnesty International: “Questa non è una guerra alla droga, ma una guerra ai poveri. Spesso sulla base delle prove più inconsistenti, le persone accusate di usare o vendere droga vengono uccise per denaro in un’economia di omicidi”. Con la scusa di combattere il crimine e riportare l’ordine, “The Punisher” ha di fatto dato vita a quella che può essere definita come un’operazione criminale di Stato. Le esecuzioni extragiudiziali sono di fatto omicidi illegali compiuti da vigilantes o funzionari di polizia su ordine o grazie alla complicità’ del governo. Gli omicidi venivano “decisi” dall’alto in base a quote e incentivati grazie a ricompense in denaro che hanno creato un’economia della morte. Importante inoltre sottolineare come queste operazioni, basate su liste non verificate dei consumatori o trafficanti di droga, venissero nella quasi totalità dei casi sempre effettuate nelle aree più povere delle città. Un ufficiale di polizia avrebbe infatti dichiarato ad Amnesty International: “Veniamo sempre pagati, l’importo varia da 8.000 pesos (USD 161) a 15.000 pesos (USD 302) per ogni persona. Quindi, se l’operazione è contro quattro persone, sono 32.000 pesos (USD 644). Siamo pagati dal quartier generale in contanti e di nascosto mentre non c’è alcun incentivo per l’arresto, per il quale non riceviamo alcun compenso”.

Duterte non ha mai nascosto le sue responsabilità per le morti causate dalla guerra alla droga, nel 2016 non ebbe problemi nel definirsi l’Hitler delle Filippine dicendo che sarebbe stato felice di sterminare i 3 milioni di tossicodipendenti presenti nel paese. Inoltre, da leader autoritario e con evidente tendenze populiste, non ha mai avuto remore nel prendere decisioni “singolari”, basti pensare che pochi giorni fa, per combattere l’aumento dei casi di Covid, ha emanato l’ordine di arrestare le persone non vaccinate che escono dalle proprie abitazioni.

Duterte, il cui mandato scadrà nel 2022, è costituzionalmente escluso dal cercare la rielezione e potrebbe quindi trovarsi in una posizione scomoda visto il procedimento in corso contro di lui da parte del Tribunale Penale Internazionale. Nonostante le Filippine abbiano annullato unilateralmente l’appartenenza alla ICC nel marzo 2018, la possibilità che Duterte venga comunque processato rimane alta, per questo non è da escludere che possa cercare alleati politici durante le prossime elezioni presidenziali in grado di garantirgli protezione da qualsiasi azione legale da parte di organismi internazionali. Così come è possibile che possa tentare modifiche costituzionali tali da garantirgli la ricandidatura. Insomma, il rischio di ritrovarsi ancora “l’Hitler delle Filippine” non è affatto da escludere.

[Enrico Phelipon]

 

USA, prende ostaggi in una sinagoga: ucciso sequestratore

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Un uomo armato, la cui identità non è ancora stata resa pubblica, ha preso in ostaggio un gruppo di persone all’interno di una sinagoga a Colleyville, in Texas, nella notte tra il 15 e il 16 gennaio. L’uomo chiedeva la liberazione della scienziata pachistana Aaifa Siddiqui, che sta scontando una condanna a 86 anni per terrorismo in una prigione texana che si trova nelle vicinanze della sinagoga. Secondo quanto riferito dal capo della polizia locale, tutti gli ostaggi sono stati liberati in seguito all’intervento delle squadre di soccorso dell’FBI, mentre l’uomo è stato ucciso nel corso del salvataggio.

Cosa dicono realmente gli studi sull’efficacia dei vaccini contro la variante Omicron

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L'efficacia dei vaccini anti Covid a mRNA contro la variante Omicron, per ciò che concerne la trasmissione del virus, potrebbe essere notevolmente minore rispetto a quella contro la Delta: è quanto si apprende da due ricerche in fase di preprint - ovvero non sottoposte a revisione paritaria ed i cui risultati debbono essere considerati ancora provvisori - che sottolineano come la protezione offerta da tali vaccini contro l'infezione sia inferiore con la nuova mutazione del virus. Allo stesso tempo, però, da altri 2 studi - questa volta revisionati - emergono dati a favore del vaccino, dato che...

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Djokovic, sentenza definitiva: sarà espulso dall’Australia

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La Corte australiana ha deliberato con sentenza unanime respingendo il ricorso dei legali di Novak Djokovic contro la cancellazione del visto. Il tennista rimarrà ora in stato di fermo a Melbourne fino al momento della sua espulsione e non potrà partecipare al torneo Australian Open, che inizierà domani. Le misure di espulsione prevedono in genere anche il divieto di rientro nel Paese per tre anni, con alcune eccezioni. Djokovic si è detto “deluso” dalla decisione dei giudici, ma ha affermato di rispettare la sentenza e di voler collaborare con le autorità per quanto riguarda la sua partenza.

Covid: annullata dal Tar la circolare del Ministero sulla vigile attesa

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Il Tar del Lazio ha accolto il ricorso del Comitato cura domiciliare Covid-19 ed ha annullato la circolare del Ministero della Salute aggiornata al 26 aprile 2021 nella parte in cui, riguardo al trattamento domiciliare dei pazienti Covid, prevedeva la cosiddetta «vigilante attesa» e la somministrazione di fans e paracetamolo durante i primi giorni di malattia, indicando di non utilizzare determinati medicinali. Come riportato dall’agenzia di stampa Ansa, infatti, il Tar ha stabilito tramite apposita sentenza che tali parti della circolare si pongano «in contrasto con l’attività professionale così come demandata al medico nei termini indicati dalla scienza e dalla deontologia professionale», imponendo ai medici «puntuali e vincolanti scelte terapeutiche». In tal senso, i farmaci che nello specifico la circolare indicava di non utilizzare per le persone ammalatesi di Covid erano quelli generalmente utilizzati dai medici di medicina generale.

Il Tar ha stabilito che sia «onere imprescindibile di ogni sanitario quello di agire secondo scienza e coscienza, assumendosi la responsabilità circa l’esito della terapia prescritta quale conseguenza della professionalità e del titolo specialistico acquisito». Alla luce di ciò la circolare in questione, con cui il Ministero della Salute aveva fatto proprie le linee guida dell’Aifa (Agenzia italiana del farmaco), contrasta come detto con «la richiesta professionalità del medico e con la sua deontologia professionale, imponendo, anzi impedendo l’utilizzo di terapie da questi ultimi eventualmente ritenute idonee ed efficaci al contrasto della malattia Covid-19 come avviene per ogni attività terapeutica».

Esultano dunque il presidente ed avvocato Erich Grimaldi e l’avvocato Valentina Piraino, ovverosia coloro che hanno sottoscritto il ricorso. Secondo quest’ultima si tratta di una decisione che «cristallizza una volta per tutte quale sia il ruolo del medico di medicina generale, ovvero agire e non lasciare i malati Covid ad attendere l’evolversi della malattia». Grimaldi, invece, ricorda che quanto stabilito dal Tar mette «finalmente un punto fermo a una battaglia che portiamo avanti da due anni per dimostrare che le linee guida ministeriali fossero di fatto uno strumento per vincolare i medici di medicina generale alle eventuali responsabilità che derivano dalla scelta terapeutica». Facendo ciò, ha aggiunto l’avvocato, il governo «ha di fatto privato i cittadini delle cure domiciliari precoci, paralizzando la sanità territoriale e portando al collasso il sistema ospedaliero, con le drammatiche conseguenze che migliaia di famiglie conoscono purtroppo molto bene».

[di Raffaele De Luca]