martedì 11 Novembre 2025
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Milizie Houti rivendicano l’attacco ad Abu Dhabi

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Le milizie ribelli Houti avrebbero rivendicato l’attacco che ha avuto luogo ieri 17 gennaio ad Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi Uniti (EAU), causando 3 morti e 6 feriti. Il portavoce militare dei ribelli, Yahya Sarea, ha comunicato che l’operazione “Uragano dello Yemen” sarebbe stata condotta con “5 missili balistici e alati e un gran numero di droni” e che non si esiterà a ripetere attacchi simili contro obiettivi più importanti. Gli EAU sono infatti alleati dell’Arabia Saudita, che sostiene l’esercito dello Yemen nella repressione contro i ribelli Houti. Gli EAU hanno chiesto che il gruppo sia reinserito nell’elenco delle organizzazioni terroristiche, mentre le Nazioni Unite e numerosi altri Paesi hanno condannato l’attacco.

Scozia, dove le rinnovabili hanno già sconfitto il nucleare

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La Scozia non ha più bisogno del nucleare, grazie all’energia rinnovabile. Dopo la recente chiusura dello storico impianto nucleare di Hunterston B (nella contea dello Ayrshire), il Paese più settentrionale del Regno Unito sarà presto privo di impianti nucleari. Dal 7 gennaio 2022, giorno che ha segnato ufficialmente la fine di Hunterston B, in tutto il territorio scozzese è rimasto in funzione un solo impianto nucleare, Torness, il quale chiuderà nel 2028. C’è da ringraziare l’enorme aumento della capacità di generazione di energia rinnovabile nel Paese: basti pensare che nel 2020, ben il 98.6% dell’energia elettrica usata in Scozia è stato ottenuto dalle rinnovabili. Un risultato sorprendentemente vicino all’obiettivo ambientale prestabilito, quello del 100% di elettricità derivante da fonti rinnovabili entro il 2020.

Se il dibattito sul possibile utilizzo del nucleare abbinato alle energie rinnovabili (così da mettere fine ai combustibili fossili) è ora molto acceso, specialmente in Europa, la Scozia sembra “parlare” di meno e “agire” di più. Non attraverso stime e discorsi ma nella pratica, il Paese sta dimostrando quanto sia possibile fare quasi del tutto affidamento sulle energie rinnovabili. E, questo, nonostante l’apporto fondamentale di energia da parte di impianti quali Hunterston B, che dal 1976 ha prodotto ben 297,4 terrawattora di elettricità. Per 45 anni e 11 mesi, la centrale dello Ayrshire è rimasta in vita, quasi il doppio della durata inizialmente prevista, quella di 25 anni. Certo, non senza problemi. Per quanto la manutenzione continua abbia permesso un aumento della durata operativa della centrale, le crepe nei mattoni di grafite nei nuclei dei reattori hanno rappresentato un rischio da non correre. Vero è che Hunterston B è stata definita la risorsa energetica “pulita” più produttiva nella storia scozzese, con un risparmio di circa 103 milioni di tonnellate di emissioni di gas serra rispetto alle fonti di combustibili fossili, motivo per cui alcuni già piangono la chiusura dell’impianto.

Preoccupazioni per le future forniture di energia, nuovi disoccupati, costi alti per le rinnovabili…questi alcuni degli argomenti di chi non si trova d’accordo con la fine del nucleare. Ma vale la pena correre gli ormai risaputi rischi quando basterebbe porre reale attenzione e investire al meglio sul mondo delle energie rinnovabili, visti li studi volti a dimostrare la loro convenienza su più fronti? E per quanto anche in Scozia si siano generati pareri contrastanti, intanto una storica centrale nucleare è stata chiusa e ciò non sarebbe di certo mai accaduto, senza il successo di altre fonti di energia. E poi non solo in Scozia, ma anche nel resto del Regno Unito il nucleare ha sempre meno popolarità: entro il 2025, si prevede la fine delle centrali di Hinkley Point B, Hartlepool 1, e Heysham 1. L’esempio scozzese dovrebbe essere tenuto presente a livello europeo per un reale dibattito su quanto valga la pena investire nelle centrali nucleari cosiddette di quarta generazione o di terza generazione e terza generazione avanzata (III+), quando si hanno già esempi di Paesi che, attraverso pianificazione e investimenti, ottengono il proprio fabbisogno dalle rinnovabili.

[di Francesca Naima]

Due casi di cronaca mostrano le assurde conseguenze del green pass sulla vita reale

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Mentre in Italia si discute della recente estensione del super green pass ai mezzi di trasporto, con il governo che si è al momento limitato a prevedere una deroga a tali regole solo per determinati spostamenti da e per le isole minori fino al 10 febbraio, la realtà che al momento si trovano ad affrontare i cittadini non in possesso del lasciapassare sanitario è tutt’altro che agevole. Come testimoniato da alcuni casi di cronaca ultimamente riportati dalla stampa nostrana, le conseguenze del super green pass sulla vita delle persone sono infatti alquanto spiacevoli, in maniera particolare per coloro che vivono sulle isole.

In tal senso non si può non ricordare il caso di un ragazzino di 12 anni che, in Sicilia, negli scorsi giorni è rimasto bloccato in aeroporto proprio a causa delle nuove regole sul super green pass. Egli, figlio di genitori divorziati, infatti non è stato fatto salire sull’aereo che gli avrebbe permesso di tornare a casa dalla madre a Milano avendo compiuto 12 anni e non essendo vaccinato. A denunciare l’accaduto è stato il padre – di Noto – che appunto condivide l’affido del ragazzino con la madre di quest’ultimo.

«Dal 3 al 9 gennaio mio figlio è stato in Sicilia con me», ha affermato l’uomo, precisando che il 12enne proprio il 9 avesse compiuto 12 anni, giorno precedente al previsto «volo di rientro a Milano». «Quando il 10 gennaio siamo arrivati in aeroporto ho mostrato i documenti ed il risultato negativo del tampone molecolare ma l’addetto della Sac – ossia la società di gestione dell’aeroporto – mi ha detto che non poteva imbarcarsi. Il Dpcm, che era entrato in vigore proprio quel giorno, autorizza l’imbarco solo a 12enni vaccinati». Queste le parole dell’uomo, il quale ha sottolineato che il figlio non è stato fatto partire nonostante egli avesse fatto presente non solo che il tampone fosse negativo, ma che il ragazzino dovesse rientrare a scuola e soprattutto che ci fosse una sentenza del giudice sui giorni in cui il figlio sarebbe potuto stare con lui, violando la quale egli sarebbe andato incontro a conseguenze penali. Niente da fare dunque per il ragazzino, il quale si è poi sottoposto al vaccino ma potrà avere la certificazione che gli permetterà di partire solo dopo 15 giorni.

Altro caso da citare è senza dubbio quello verificatosi in Sardegna, ad Olbia, dove a due coniugi cagliaritani, entrambi vaccinati con la prima dose e in attesa dell’emissione della certificazione verde, sono stati messi i bastoni tra le ruote. Volevano infatti raggiungere Roma, dove la donna di 48 anni avrebbe dovuto sottoporsi a un intervento urgente all’ospedale Gemelli: all’imbarco della nave Moby, con cui da Olbia i coniugi sarebbero arrivati a Civitavecchia, è stato però detto a questi ultimi che senza super green pass non fosse possibile imbarcarsi. «La legge è legge», sarebbe stato detto ai due secondo quanto affermato dal marito, il quale ha altresì ricordato che la sua presenza fosse necessaria essendo la moglie «invalida al 100%».

A tutto ciò si aggiunga anche il caso di Fabio Messina, una agente di commercio palermitano bloccato da lunedì 10 gennaio a Villa San Giovanni (Reggio Calabria) essendogli stato impedito di prendere il traghetto per la Sicilia non essendo vaccinato. Egli ha per questo motivo deciso di dormire in un sacco a pelo prima di essere ospitato, nelle ultime due notti, da una famiglia di Villa San Giovanni. La vicenda si è poi però conclusa il 14 gennaio, giorno in cui è stato accolto dal Tribunale civile di Reggio Calabria il ricorso presentato dai legali di Messina. Ad ogni modo tale vicenda, seppur sia terminata in maniera positiva per l’uomo a cui era stato impedito di viaggiare, rappresenta solo l’ennesimo caso che testimonia come le persone prive di super green pass debbano fare i conti con delle difficoltà burocratiche importanti ad esso legate. Come dimostrato anche dalle due vicende sopracitate, infatti, sono diversi i casi di cittadini che testimoniano le tragiche conseguenze del lasciapassare sanitario sulla vita delle persone.

[di Raffaele De Luca]

Pechino 2022: annullata vendita biglietti al grande pubblico

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I biglietti per le Olimpiadi e le Paralimpiadi invernali di Pechino 2022 non verranno venduti al grande pubblico. A comunicarlo è stato il comitato organizzatore, il quale ha riferito che la decisione è stata presa sulla base dell’attuale situazione pandemica al fine di garantire la sicurezza di tutti i partecipanti e degli spettatori: le gare, infatti, potranno essere seguite solo dagli invitati. Quelli di Pechino 2022 saranno così i secondi Giochi Olimpici e Paralimpici che si svolgeranno senza la presenza di spettatori: la prima volta era successo nell’estate 2021, per le olimpiadi estive di Tokyo 2020.

Basilicata: studio autonomo rivela il disastro ecologico vicino ai giacimenti ENI

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LAGO DEL PERTUSILLO

Per la Basilicata è giunto il momento di rivendicare i propri diritti ambientali. Grazie alle indagini commissionate dalla rivista scientifica internazionale MDPI, è arrivata la conferma che le alghe che hanno colonizzato a lungo il Lago di Pietra del Pertusillo sono dovute alla presenza di idrocarburi nelle acque. E da dove arrivano?

Quello del Pertusillo è un bacino artificiale situato nella Basilicata sud-occidentale, nei pressi di alcuni stabilimenti petroliferi di ENI. Lo studio ha avuto lo scopo di dimostrare che la fioritura algale dell’inverno del 2017 non era casuale, ma strettamente collegata alla predominanza di idrocarburi del petrolio.

L’episodio di quell’anno aveva già insospettito associazioni ambientaliste locali, come “Cova Contro” e “Liberiamo la Basilicata”. I due enti avevano denunciato l’eccessiva presenza di sostanze estranee nelle acque, confermata dai 4 campionamenti effettuati sul campo in maniera autonoma. I risultati erano già preoccupanti, e le quantità di particelle presenti ben oltre il limite consentito, come si può intuire da questo video: 286 mcg/l di idrocarburi totali disciolti (il limite è 200), 6,65 mg/l di azoto (il limite è 2 mg/l). Per ottenere queste informazioni, è bastato incrociare i dati ottenuti dai satelliti, immagini da droni, prelievi a terra e studi di genomica sui batteri: tecnologie cioè disponibili a basso prezzo e ormai conosciute da tempo, di cui anche la regione avrebbe potuto usufruire (se solo avesse voluto).

INDAGINE AUTONOMA

Come aveva reagito la politica? L’allora governatore della Basilicata Marcello Pittella, così come Achille Palma, presidente dell’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente della Basilicata, avevano liquidato la faccenda definendo naturale la proliferazione di alghe, e per questo scollegata assolutamente alla vicinanza con i giacimenti petroliferi.

La vicenda non è finita nel dimenticatoio solo grazie alla costanza e alla lotta delle associazioni, tenacia che ha permesso alla regione di denunciare l’ennesimo caso di soprusi ambientali. Infatti non è la prima volta che si parla del Lago del Pertusillo in questi termini. Tra il 2002 e il 2010 alcune analisi sul terreno avevano fatto emergere la presenza di diversi inquinanti sia nelle falde della zona che negli alimenti e alcuni studi più approfonditi avevano trovato tracce di trielina (tricloroetilene cancerogeno) e idrocarburi pesanti anche nei punti di confluenza dei torrenti Alli e Casale, affluenti del fiume Agri.

Ma anche su questo fronte non c’è mai stato un vero e proprio intervento. Anzi, fu ENI a portare avanti il “Progetto di monitoraggio dello stato degli ecosistemi e del biomonitoraggio nell’area della Val D’Agri”, dichiarando (ovviamente) di non aver mai trovato sostanze pericolose o inquinanti.

Una situazione davvero preoccupante, se si pensa che il lago di Pietra del Pertusillo ha una capienza di 155 milioni di metri cubi d’acqua ed è spesso utilizzato per la pesca sportiva e per gare di canottaggio nazionale.

[di Gloria Ferrari]

Ecuador: al via una nuova riserva marina per salvare le specie in estinzione

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Il presidente dell’Ecuador Guillermo Lasso ha annunciato la creazione di una nuova riserva marina al largo delle Isole Galapagos. L’area protetta andrà ad espandere la già esistente Riserva Marina della Galapagos, creata nel 1998 e che ricopre all’incirca 138 mila chilometri quadrati. Si creerà così un nuovo corridoio sicuro per alcune specie marine in via d’estinzione e per la biodiversità ittica, fondamentale anche per il sostentamento delle popolazioni locali.

«Riconoscendo che il successo futuro sia dell’umanità che della natura richiede un equilibrio sostenibile tra le due, l’Ecuador è orgoglioso di annunciare la creazione della Riserva Marina Hermandad nei prossimi giorni» annuncia il presidente dell’Ecuador Guillermo Lasso. L’intenzione di costituire una nuova area protetta era stata preannunciata da Lasso già durante la Cop26 tenutasi a Glasgow lo scorso novembre, quando anche i presidenti di Panama, Colombia e Costa Rica si erano detti intenzionati a collaborare al progetto.

È stata così creata la Reserva Marina Hermandad, di 60 mila chilometri quadrati, la quale permette il costituirsi di un corridoio sottomarino tra l’isola Cocos, appartenente alla Costa Rica, e le isole Galapagos, che permetterà il transito sicuro di numerose specie. Solamente in metà di quest’area sarà concessa la “pesca responsabile”, mentre l’altra metà sarà destinata a tutelare le rotte migratorie e le zone di alimentazione delle specie marine minacciate e sarà preclusa a qualsiasi tipo di attività estrattiva. In quest’area si realizzeranno anche indagini scientifiche, volte a migliorare le conoscenze riguardo la biosfera.

La Riserva, spiega il presidente Lasso, tutela l’area di transito e riproduzione di una incredibile varietà di specie marine, molte delle quali endemiche ed esistenti solo in questa parte del mondo. A minacciare la biodiversità oceanica vi sono tuttavia fattori quali l’inquinamento delle acque, i cambiamenti climatici e la pesca indiscriminata e illegale, che ha portato al rischio di estinzione specie come lo squalo balena. Il monitoraggio di alcuni di questi esemplari, spiega Lasso, ha portato ad osservare come questi sparissero improvvisamente quando venivano a trovarsi nelle vicinanze di navi da pesca straniere in transito all’esterno del perimetro dell’area protetta.

Lo squalo balena

La salvaguardia della fauna permette inoltre di garantire il benessere delle popolazioni locali, che vivono soprattutto di pesca e turismo. La tutela di queste aree marine ha infatti permesso una crescita esponenziale della popolazione ittica e, di conseguenza, lo sviluppo del settore commerciale, del turismo, della pesca e della ricerca.

«Attraverso la creazione di questa riserva marina, invito le altre nazioni ad unirsi a questo sforzo collettivo e preservare con successo gli insostituibili tesori biologici dell’oceano» conclude Lasso.

[di Valeria Casolaro]

Corea del Nord: lanciati 2 missili balistici a corto raggio

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Due sospetti missili balistici a corto raggio sono stati lanciati oggi dalla Corea del Nord da un aeroporto della capitale Pyongyang, nel quarto test dall’inizio del 2022 atto a dimostrare la sua potenza militare. A riportarlo è l’agenzia di stampa Reuters, la quale comunica che a riferire ciò è stato l’esercito sudcoreano. Anche il Giappone però ha riferito del lancio, con il segretario capo di gabinetto Hirokazu Matsuno che lo ha condannato come una minaccia alla pace e alla sicurezza, mentre la Cina ha esortato tutte le parti a preservare la stabilità.

 

L’Italia regala 4 miliardi l’anno alle multinazionali dell’acqua

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Con un fatturato di quasi 4 miliardi di euro annuo, il business dell’acqua minerale in Italia si rivela estremamente redditizio. Il nostro mercato si colloca al nono posto su scala mondiale, al terzo se si conta solamente il settore delle esportazioni, che si aggira intorno a 1,3 miliardi di euro. Si tratta di ricavi da capogiro se si pensa che scaturiscono da fonti pregiate naturalmente presenti nel nostro territorio: peccato che quello che le multinazionali lasciano alla collettività, tramite il pagamento dei canoni sulle concessioni statali, sia molto meno delle briciole. Molto poco è stato fatto, inoltre, in termini di contenimento dell’impatto ambientale della commercializzazione dell’acqua in bottiglia, considerato che ad oggi ancora l’82% del mercato è costituito da contenitori in PET.

Quattro miliardi di fatturato annuo: tanto vale il mercato dell’acqua minerale in Italia. Le fonti presenti sul nostro territorio, beni naturali e di pregio, fruttano alle multinazionali un giro d’affari da capogiro. Tuttavia, secondo le ultime rilevazioni fatte dal Ministero dell’Economia e delle Finanze sono nemmeno 20 milioni di euro ad entrare nelle tasche dello Stato tramite i canoni di concessione. Rispetto al valore totale del mercato, si tratta di un misero 0,5%. Questo perché le aziende che hanno concessioni per imbottigliare l’acqua possono contare su costi irrisori da corrispondere alle Regioni. Nel migliore dei casi si parla di 2 millesimi di euro al litro, una cifra a dir poco esigua considerato che il prezzo di una bottiglia d’acqua acquistata al supermercato si aggira tra i 20 e i 30 centesimi al litro. I guadagni salgono ulteriormente se si considera che nei bar e negli esercizi commerciali il costo di una bottiglietta d’acqua da mezzo litro è mediamente di un euro.

Buona parte del prezzo finale è certamente da imputare al costo delle bottiglie in PET, che in Italia costituiscono ancora l’82% del mercato. Le aziende stanno cercando di ridurre il peso delle bottigliette per abbattere costi e impatto ambientale, anche se la soluzione migliore sarebbe certamente un abbandono definitivo della plastica, una delle primarie cause di inquinamento degli ecosistemi. L’Italia si colloca infatti ancora a parecchia distanza da Paesi come la Germania, dove il tasso di bottiglie avviate a riciclo è del 95% (contro il nostro 46%) ed esiste un sistema di vuoto a rendere da noi ancora assente. In altri Paesi europei, come la Danimarca, è inoltre obbligatorio l’uso delle bottiglie in vetro il quale, se combinato con il metodo del vuoto a rendere, può comportare importanti risparmi in termini di dispendio energetico e impatto ambientale.

Stando agli ultimi dati disponibili, in Italia sono 307 le concessioni per fonti di acqua minerale, distribuite variamente su tutto il territorio. Di queste, se ne contano 113 solo tra Piemonte, Lazio e Lombardia. Il maggior numero di imprese è distribuito tra Centro, Meridione e Isole, ma sono le aziende del Nord a fatturare maggiormente, con incassi intorno ai due miliardi di euro. La quota di esportazione complessiva costituisce quasi il 33% del fatturato (1,3 miliardi, contro i 2,5 miliardi del mercato domestico). Con numeri di questo genere, l’Italia costituisce il nono mercato al mondo e il terzo per l’esportazione, contando su prezzi dell’acqua al litro tra i più bassi che esistano. Sono i numeri che emergono da un rapporto stilato da Mediobanca, che aggrega i dati economici e finanziari del triennio 2017-2019 delle aziende nazionali che nel 2019 superavano il milione di euro di fatturato, 82 in tutto. Le cinque aziende in cima alla lista costituiscono da sole il 66% del fatturato totale, mentre le sei imprese a controllo straniero valgono un fatturato di 1,5 miliardi di euro.

Secondo gli ultimi dati a disposizione, sono il gruppo Nestlè (proprietario di Sanpellegrino) e il gruppo San Benedetto (cui fanno capo Nepi, San Benedetto, Guizza e diversi altri marchi) a dominare il mercato dei produttori, costituendo da soli ben un terzo della produzione italiana. Seguono Fonti di Vinadio, Lete, Ferrarelle, Gruppo Norda, Gruppo Co.Ge.Di. (Uliveto e Rocchetta), Spumador, Società Italiana Acque Minerali e Fonti del Vulture (di proprietà del Gruppo Coca Cola) a completare la lista delle “big 10”.

Un business da capogiro maturato sulla commercializzazione di un bene fondamentale e naturalmente presente sul territorio, quindi di teorica proprietà della comunità. A ricavarne beneficio, tuttavia, sono ancora una volta solamente le multinazionali.

[di Valeria Casolaro]

Monthly Report: un mondo di proteste, il cambiamento cova sotto la cenere

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Informandosi sulle tv e sui giornali si ha l’impressione che il mondo non sia mai stato così in pace e coeso dietro i propri leader democratici. Ma è vero il contrario. Un corposo studio intitolato “World Protests”, condotto da ricercatori di tre continenti, ha mappato i conflitti sociali che attraversano il pianeta, concludendo che la situazione odierna è simile ad altri tre periodi storici contemporanei: quello che va dal 1830 e il 1848, il 1917-1924 e gli anni ’60 del secolo scorso. Tre periodi culminati in moti rivoluzionari generalizzati. “Decadi di politiche neoliberali hanno generato grandi disuguaglianze ed eroso i redditi e il benessere delle classi medie e basse, alimentando sentimenti di ingiustizia, delusione per il cattivo funzionamento delle democrazie e frustrazione per i fallimenti dello sviluppo economico e sociale. E dal 2020, la pandemia di coronavirus ha accentuato i disordini sociali”, scrivono gli autori, dimostrando la tesi con i dati che certificano le esplosioni delle proteste a partire dai paesi Occidentali.

Se questa è la realtà delle cose perché la percezione che ne abbiamo è tanto diversa? “I mass media prima ci hanno convinto che l’immaginario fosse reale, e ora ci stanno convincendo che il reale sia immaginario” ebbe a dire Umberto Eco. La realtà delle proteste, delle rivendicazioni e delle lotte è tenuta sapientemente ai margini della narrazione pubblica al punto di renderla, appunto, immaginaria – quindi irreale – nella coscienza degli spettatori. Si parla delle mobilitazioni solo quando queste diventano troppo grandi per poter essere ignorate. In Italia è successo prima al movimento contro la globalizzazione, poi a quello contro il Tav in Val di Susa, in ultimo a quello contro il green pass. In tutte e tre le occasione la strategia è stata la medesima, in un copione perfettamente oliato: passare dalla marginalizzazione alla criminalizzazione. Un processo che passa per evidenti strategie mediatiche, come il porre l’accento su eventuali infiltrazioni violente nei movimenti in questione al fine di parlare delle proteste solo come problema di ordine pubblico senza discuterne le ragioni. Un processo che, sempre di più, si nutre anche degli apparati repressivi e giudiziari dello stato: multe ai danni dei partecipanti, fogli di via, arresti arbitrari, condanne a pene esemplari tramite la riesumazione, sempre più frequente, del reato “devastazione e saccheggio”. Un orpello della legislazione d’epoca fascista grazie al quale chi ha preso parte a un blocco stradale rischia sovente pene più severe di un rapinatore.

Nonostante queste strategie di marginalizzazione e criminalizzazione i movimenti di protesta sono sempre più diffusi, in Italia e nel mondo intero. Ogni giorno migliaia di persone scendono in piazza per i motivi più disparati: domandare diritti sociali o civili, reclamare migliori condizioni di lavoro, opporsi a opere pubbliche giudicate contro l’interesse dei territori, chiedere rispetto dell’ambiente e dalla salute. Se queste mobilitazioni porteranno a un cambiamento dipenderà da molti fattori, innanzitutto dalla capacità di organizzarsi e di legarsi tra loro. Intanto noi abbiamo deciso di parlarne e di cercare di farlo nel modo giusto, per evitare che – come affermava con acume Malcom X ormai sessantanni fa – i media riescano a farci odiare le persone oppresse e amare quelle che opprimono.

Il sesto numero del nostro Monthly Report, il mensile di approfondimento e inchiesta riservato agli abbonati de L’Indipendente, è dedicato a questo tema. Al suo interno 45 pagine di contenuti esclusivi per scoprire le lotte che agitano l’Italia e il mondo intero, muovendosi su più direttrici e con tattiche differenti, incluso il “disaccoppiamento sociale” messo in pratica dai movimenti contro il passaporto sanitario.

Indice:

  • Nuove forme di resistenza: il “disaccoppiamento sociale” al tempo del green pass
  • Quando l’inconscio collettivo scende in piazza
  • A sarà düra! Storie di ostinata resistenza tra le valli di Susa
  • Essere movimento al tempo dalla società post-moderna
  • La Rete: croce e delizia delle voci dissonanti
  • Sorveglianza e carcere per chi lotta: quando la magistratura si fa apparato repressivo
  • Le occupazioni studentesche non si fermano
  • Cosa chiedono gli studenti che stanno occupando le scuole superiori
  • In tutto il mondo crescono le proteste: la storia insegna che qualcosa succederà
  • Quello che abbiamo lo dobbiamo alle proteste di chi ci ha preceduto
  • India, vincono i contadini: la riforma agraria sarà abrogata
  • La lotta eco-sociale degli indigeni non si ferma in tutto il Nord America
  • Come i media mainstream occultano la pubblicità facendola passare per informazione

Il mensile, in formato PDF, può essere scaricato dagli abbonati a questo link: lindipendente.online/monthly-report/

Gibuti, il piccolo stato africano dove si confrontano le potenze mondiali

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Sale sempre di più l’attenzione verso il piccolo Stato di Gibuti, affacciato sulle coste dell’Africa Orientale nella parte meridionale del Mar Rosso, sul Golfo di Aden. In posizione strategica rispetto al passaggio dall’Asia all’Europa via Suez, l’ex colonia francese è diventata terreno di scontro nella sfida globale tra la superpotenza statunitense e quella cinese. La presenza militare straniera a Gibuti risulta essere elevata, vista anche l’estensione territoriale del piccolo Stato africano; oltre a Stati Uniti e Cina sono presenti: Francia, Giappone, Arabia Saudita e Italia – presente dal 2013 con una base anti-pirateria – mentre Germania, Regno Unito e Spagna sono presenti appoggiandosi alle basi militari degli alleati. Russia e India hanno invece avanzato proposte di installazione. L’affitto delle aree ad uso militare straniero sono la principale fonte economica di Gibuti, uno tra gli stati più poveri al mondo: gli Stati Uniti pagano 63 milioni ogni 10 anni mentre la Cina paga 20 milioni di dollari all’anno, tra soldi liquidi e investimenti commerciali.

Gli Stati Uniti sono insediati dal 2002 nell’ex base francese Camp Lemmonier, sede della Combined Joint Task Force – Horn of Africa (CJTF-HOA) del Comando Africa degli Stati Uniti (USAFRICOM o AFRICOM). Questa base ospita 4.000 unità tra personale militare e civile e appaltatori del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti e risulta essere la più grande base permanente USA su suolo africano.

Nel 2017, a poche decine di chilometri a nord di Camp Lemmonier, la Cina ha costruito la sua prima base militare all’estero, destando non poche preoccupazioni per la strategia globale statunitense. Sebbene due anni prima i cinesi si fossero già insediati nell’area, le motivazioni apparivano di carattere commerciale, ovvero creare una struttura logistica di interscambio funzionale all’espansione economica cinese nel continente africano. La struttura cinese, oltre a comprendere diversi tipi di forze, è dotata anche di eliporto per droni e, dall’aprile dello scorso anno, anche di un molo lungo 660 metri per l’attracco di portaerei.

Il generale Stephen Townsend di AFRICOM, sempre lo scorso aprile, proprio in merito agli sviluppi della base cinese nel Paese, ha lanciato moniti parlando al Comitato dei servizi armati della Camera, definendola una «piattaforma per proiettare il potere in tutto il continente e le sue acque». Il generale ha anche aggiunto che i cinesi «cercano risorse e mercati per alimentare la crescita economica in Cina e sfruttare gli strumenti economici per aumentare la loro portata e influenza globale». Ciò risulta essere una spina nel fianco per gli Stati Uniti e per lo Strategic Competition Act, di cui vi abbiamo parlato lo scorso anno, ovvero la strategia globale di contenimento e offensiva nei confronti dell’ascesa cinese.

Secondo il generale, senza fornire alcuna reale prova, Pechino vorrebbe costruire anche ulteriori basi per legare «i loro investimenti nei porti marittimi commerciali in Africa orientale, occidentale e meridionale strettamente con il coinvolgimento delle forze militari cinesi al fine di promuovere i loro interessi geo-strategici». Nel dicembre passato, prima il Wall Street Journal e poi il New York Post, hanno riferito di funzionari governativi che hanno espresso preoccupazione per la possibilità che la Cina si installi con una base anche sulla sponda atlantica dell’Africa e, più precisamente, in Guinea Equatoriale.

Ciò che invece risulta certo è che la base statunitense di Gibuti è un hub per l’addestramento di forze etiopi, somale, ugandesi e di altri paesi africani. Inoltre, il Paese ospita emittenti di propaganda regionali e gruppi privati che operano come agenzie umanitarie. Un cablogramma pubblicato da Wikileaks, risalente al 2010, inviato dall’ambasciata degli Stati Uniti a Gibuti alla CIA, riporta che Gibuti è sede di «strutture di trasmissione [del governo degli Stati Uniti] utilizzate da Radio Sawa in lingua araba e dal Servizio somalo Voice of America, l’unico magazzino USAID Food for Peace per aiuti alimentari di emergenza pre-posizionati al di fuori [degli Stati Uniti continentali] e strutture di rifornimento navale per le navi statunitensi e della coalizione».

Nello stesso anno, Camp Lemonnier ha ospitato la prima conferenza al vertice di comando, controllo, comunicazioni, computer, intelligence, sorveglianza e ricognizione dell’Africa, per la guerra a distanza con i droni. Due anni più tardi, BT (ex British Telecom) ha costruito un cavo in fibra ottica da 23 milioni di dollari per la US Defense Information Systems Network e la National Security Agency. Il cavo andava dalla Royal Air Force Croughton (a nord di Londra) – gestita dalla US Air Force a Napoli (Italia) – fino a Camp Lemonnier, utile alla “guerra a distanza”. Continue sono le esercitazioni militari e l’addestramento di forze alleate e partner militari, tra il soft power della propaganda e la messa in mostra dei muscoli d’acciaio di navi e velivoli, come accaduto lo scorso novembre.

È innegabile la strategia economica aggressiva della Cina nel continente africano, tra investimenti infrastrutturali e finanziamenti a lungo termine in cambio dell’apertura di nuovi mercati e dell’estrazione di enormi quantità di risorse minerarie. Al momento però le forze militari sul continente africano sembrano essere alquanto impari con gli Stati Uniti che certamente hanno una presa maggiore, sia direttamente che indirettamente, su buona parte del continente.

Il piccolo Gibuti, paese ad alto valore geostrategico, commerciale e militare, appare l’emblema di un mondo multipolare dove le potenze si confrontano camminando spericolatamente sul filo sottile che separa pace e guerra.

[di Michele Manfrin]