sabato 20 Aprile 2024

Nelle Filippine è in atto una carneficina nel nome della lotta alla droga

Stando ai dati ufficiali del governo di Manila, la guerra alla droga nelle filippine avrebbe causato 6.200 morti, tra trafficanti e consumatori, dal giugno 2016 al novembre 2021. Mentre per il Tribunale Penale Internazionale (ICC), che ha aperto un procedimento su Duterte per crimini contro l’umanità nel settembre scorso, le morti causate dalla guerra alla droga ammonterebbero ad una cifra che va dalle 12.000 alle 30.000 persone. Secondo i giudici, infatti, la cosiddetta campagna di guerra alla droga non può essere vista come un’operazione legittima delle forze dell’ordine ma piuttosto come un attacco sistematico ai civili. Numerosi gruppi per i diritti umani accusano infatti Duterte di aver dato mano libera alla polizia, affermando che in numerose operazioni antidroga le forze dell’ordine avrebbero ucciso sospetti disarmati. Le autorità filippine hanno sempre sostenuto che la polizia avesse l’ordine di uccidere solo per legittima difesa.

Duterte, presidente delle Filippine dal 2016, è noto in patria con il soprannome di “The Punisher” (Il Castigatore) a causa della rigida politica di ordine pubblico e della cosiddetta tolleranza zero applicata nei confronti delle organizzazioni criminali quando era sindaco nella città di Davao. Le stesse politiche di tolleranza zero sono state poi attuate anche su tutto il territorio nazionale appena diventato Presidente. 

Sebbene le violenze riconducibili alla guerra alla droga siano diminuite negli anni rispetto ai picchi del 2016, va notato come ci siano stati importanti cambiamenti nella geografia delle violenze e nel ruolo crescente dello stato. Nei primi anni della “guerra”, infatti, quasi la metà delle operazioni antidroga e delle relative uccisioni extragiudiziali erano state portate a termine da “vigilantes”. Dal 2020, tuttavia, si è notato un aumento del coinvolgimento dello stato che ha assunto un ruolo sempre più significativo nel prendere di mira i civili stessi, non cercando più di creare distanza “esternalizzando” la maggior parte della violenza ai vigilantes. Finora nel 2021, le forze statali hanno portato a termine circa l’80% delle operazioni antidroga. Anche la geografia della violenza si è spostata, dalla capitale Manila a Luzon, in concomitanza con il trasferimento di alti funzionari di polizia. 

La guerra alla droga nelle Filippine in realtà ha assunto i connotati di una guerra contro i poveri come denunciato da Amnesty International: “Questa non è una guerra alla droga, ma una guerra ai poveri. Spesso sulla base delle prove più inconsistenti, le persone accusate di usare o vendere droga vengono uccise per denaro in un’economia di omicidi”. Con la scusa di combattere il crimine e riportare l’ordine, “The Punisher” ha di fatto dato vita a quella che può essere definita come un’operazione criminale di Stato. Le esecuzioni extragiudiziali sono di fatto omicidi illegali compiuti da vigilantes o funzionari di polizia su ordine o grazie alla complicità’ del governo. Gli omicidi venivano “decisi” dall’alto in base a quote e incentivati grazie a ricompense in denaro che hanno creato un’economia della morte. Importante inoltre sottolineare come queste operazioni, basate su liste non verificate dei consumatori o trafficanti di droga, venissero nella quasi totalità dei casi sempre effettuate nelle aree più povere delle città. Un ufficiale di polizia avrebbe infatti dichiarato ad Amnesty International: “Veniamo sempre pagati, l’importo varia da 8.000 pesos (USD 161) a 15.000 pesos (USD 302) per ogni persona. Quindi, se l’operazione è contro quattro persone, sono 32.000 pesos (USD 644). Siamo pagati dal quartier generale in contanti e di nascosto mentre non c’è alcun incentivo per l’arresto, per il quale non riceviamo alcun compenso”.

Duterte non ha mai nascosto le sue responsabilità per le morti causate dalla guerra alla droga, nel 2016 non ebbe problemi nel definirsi l’Hitler delle Filippine dicendo che sarebbe stato felice di sterminare i 3 milioni di tossicodipendenti presenti nel paese. Inoltre, da leader autoritario e con evidente tendenze populiste, non ha mai avuto remore nel prendere decisioni “singolari”, basti pensare che pochi giorni fa, per combattere l’aumento dei casi di Covid, ha emanato l’ordine di arrestare le persone non vaccinate che escono dalle proprie abitazioni.

Duterte, il cui mandato scadrà nel 2022, è costituzionalmente escluso dal cercare la rielezione e potrebbe quindi trovarsi in una posizione scomoda visto il procedimento in corso contro di lui da parte del Tribunale Penale Internazionale. Nonostante le Filippine abbiano annullato unilateralmente l’appartenenza alla ICC nel marzo 2018, la possibilità che Duterte venga comunque processato rimane alta, per questo non è da escludere che possa cercare alleati politici durante le prossime elezioni presidenziali in grado di garantirgli protezione da qualsiasi azione legale da parte di organismi internazionali. Così come è possibile che possa tentare modifiche costituzionali tali da garantirgli la ricandidatura. Insomma, il rischio di ritrovarsi ancora “l’Hitler delle Filippine” non è affatto da escludere.

[Enrico Phelipon]

 

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