giovedì 18 Settembre 2025
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L’Unione europea ha approvato la nuova Politica Agricola Comune

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Con un’ampia maggioranza, la riforma della Politica Agricola Comune (PAC) è stata approvata ieri dal Parlamento europeo. Entrerà in vigore il primo gennaio 2023 e avrà validità fino al 2027. 387 i miliardi stanziati per finanziare le politiche agricole, di cui 50 andranno all’Italia. Investimenti importanti che, come dichiarato, avranno diversi obiettivi: dallo stimolare la competitività al rivitalizzare le zone rurali, fino al contrasto dei cambiamenti climatici e la conservazione della biodiversità. Centrali appaiono quindi i temi ambientale e sociale: un quarto dei fondi europei, infatti, sarà destinato a pratiche eco-sostenibili. Previsto, inoltre, un meccanismo di condizionalità che escluderà chi sfrutta i braccianti agricoli. Tuttavia, le criticità non mancano, tant’è che la PAC si è aggiudicata l’appellativo di “questione tra le più spinose degli ultimi anni”. Secondo Legambiente, nulla è cambiato: “ancora oggi, dell’80% degli aiuti beneficiano il 20% degli agricoltori”. Verdi e partiti ecologisti lamentano invece un approccio non in linea con il Green Deal e che a guadagnarci siano perlopiù le grandi aziende.

I tre regolamenti che compongono la PAC sono stati approvati tutti a larga maggioranza e la struttura di base è stata mantenuta. Tra le principali novità rispetto alla Politica agricola precedente vi è però l’introduzione degli ‘eco-schemi’: in pratica, il 25% dei finanziamenti diretti di ogni Stato membro deve essere stanziato a favore di agricoltori che adottino pratiche con standard ecologici elevati. Tra le nuove indicazioni figura anche l’obbligo di erogare almeno il 10% dei finanziamenti diretti a piccole e medie aziende agricole e non meno del 3% di ogni budget nazionale totale agli agricoltori più giovani con meno di 40 anni. Inoltre, verrà istituito un fondo di crisi da 450 milioni di euro all’anno per aiutare gli agricoltori in caso di instabilità dei prezzi e un limite massimo di risorse cumulabili per singolo beneficiario. Altro elemento distintivo, il più marcato trasferimento di responsabilità agli Stati membri, i quali dovranno impegnarsi nella definizione dei Piani Strategici Nazionali (PSN) allo scopo di gestire l’intero blocco finanziario della PAC e non più, come è stato finora, la sola gestione dei fondi dei Piani di Sviluppo Rurale. In ultimo, ma non meno importante in termini ambientali, la richiesta agli agricoltori di dedicare almeno il 4% dei loro seminativi a scopi non produttivi ma utili a livello ecologico, come a siepi, filari alberati e fasce erbacee tampone.

Raccontata così la nuova PAC potrebbe sembrare impeccabile, tuttavia, come anticipavamo, le criticità non mancano. Stiamo infatti parlando di una delle politiche comunitarie di maggiore importanza, dato che impegna circa il 39% dell’intero bilancio dell’Unione europea. Il suo peso, quindi, è tutt’altro che trascurabile. Tra le principali critiche, il non allineamento con gli obiettivi di riduzione delle emissioni previsti dal Green Deal. «Oggi a Strasburgo abbiamo celebrato il funerale dell’agricoltura sostenibile», ha denunciato senza mezzi termini l’europarlamentare di Europa Verde Eleonora Evi, la quale si è detta delusa «dalla riduzione dei target ambientali originari: una decisione pesante, dato che il settore agricolo è responsabile di quasi il 15% delle emissioni di gas a effetto serra nell’Ue». Non a caso, a differenza dei colleghi italiani afferenti ad altri partiti, solo gli eurodeputati appartenenti al gruppo dei Verdi/Alleanza libera per l’Europa si sono opposti in ognuna delle tre votazioni ed hanno perfino manifestato la loro contrarietà fuori dalla Camera. Dello stesso parere Greenpeace che ha voluto sottolineare un rapporto della Corte dei conti europea secondo cui il contributo alle emissioni di gas serra da parte dell’agricoltura non è affatto calato nell’ambito della PAC in vigore dal 2014 al 2020, poi prorogata per un altro anno. Inoltre il fatto che, come detto, l’80% degli aiuti finisca al 20% degli agricoltori fotografa un’altra realtà: la PAC è strutturata a tutto vantaggio delle grandi aziende, mentre per le piccole realtà agricole – spesso quelle che portano avanti tra l’altro pratiche produttive più sostenibili – ci saranno le briciole.

[di Simone Valeri]

 

Maxi truffa certificati energetici, 22 arresti

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22 persone sono state arrestate per aver prodotto progetti per l’efficienza energetica falsi finalizzati ad ottenere certificati bianchi, ovvero titoli per certificare il risparmio nell’uso finale dell’energia attraverso interventi di incremento dell’efficienza energetica. I fatti si sarebbero svolti tra il 2016 e il 2020 e riguarderebbero un’associazione diffusa tra Puglia, Valle d’Aosta, Piemonte e Germania. I certificati, erogati dal Gestore dei servizi energetici, sarebbero stati convertiti in denaro poi riciclato in paradisi fiscali, criptovalute o immobili. La cifra totale ammonterebbe a circa 14 milioni di euro. Le aziende che distribuiscono gas ed elettricità con più di 50 mila clienti sono tenute a conseguire obiettivi di risparmio, ma possono esimersi da tali obiettivi con l’ottenimento dei certificati bianchi.

Il governo ha approvato il “Super green pass” e nuovi obblighi vaccinali

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È arrivato pochi minuti fa il via libera da parte del Consiglio dei Ministri all’introduzione di nuove norme restrittive sulla certificazione verde. Le nuove regole devono essere ancora diffuse in tutti i dettagli, ma appare certa la presenza di: divieto di accesso a palestre, cinema e teatri per i non vaccinati; diminuzione della validità del green pass ottenuto previa vaccinazione da 12 a 9 mesi; obbligo vaccinale per tutto il comparto dell’istruzione, della difesa e della sicurezza. La misura è stata votata all’unanimità, voto favorevole anche da parte della Lega, rimasta critica fino alla fine ma come prevedibile rientrata nei ranghi al momento del voto. Il “super green pass” è stato approvato per una durata che andrà dal 6 dicembre al 15 gennaio (ma sarà prorogabile). In serata è attesa la conferenza stampa del premier Draghi per spiegare il provvedimento. Di seguito i dettagli contenuti nella bozza:

  • Il “super green pass” sarà attivo anche in zona bianca, ma solo da 6 dicembre al 15 gennaio (misura ribattezzata “salva Natale” e che sarà prorogabile). In zona arancione e rossa dovrebbe rimanere anche in seguito.
  • Il tampone negativo continuerà a consentire l’ingresso sul posto di lavoro, ma ai non vaccinati sarà negato l’accesso a molte luoghi pubblici come bar, stadi, ristoranti, alberghi e palestre (dove si potrà accedere solo con green pass valido ottenuto in qualità di vaccinati o guariti dal virus). Dovrebbero rimanere accessibili con tampone i trasporti a lunga percorrenza.
  • Non cambiano le restrizioni previste per zone arancioni e rosse: in zona rossa le limitazioni agli spostamenti e le chiusure scatteranno per tutti, vaccinati compresi. Dalla zona gialla rimarrà l’obbligo di indossare la mascherina anche all’aperto, sempre per tutti.
  • L’obbligo vaccinale sarà esteso anche ai lavoratori del comparto dell’istruzione, dell’interno e della sicurezza: quindi, verosimilmente, professori, militari, agenti di polizia, da chiarire se anche per il personale ausiliario dei comparti in questione. Rimane in vigore l’obbligo vaccinale per sanitari e operatori delle RSA, che sarà allargato anche alla terza dose.
  • Sarà messo in campo un sistema rafforzato di controlli. Entro cinque giorni dall’entrata in vigore i prefetti, previa consultazione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza, dovranno adottare il nuovo piano dei controlli coinvolgendo tutte le forze di polizia. Dovranno inoltre presentare periodiche relazioni sui controlli svolti.

Hyderabad, la città indiana dove si sperimenta il grande fratello digitale

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Amnesty International sta lanciando un allarme: la capitale dello Stato indiano della Telangana, Hyderabad, si sta trasformando in un Grande Fratello fatto di telecamere a circuito chiuso che si interconnettono a strumenti di riconoscimento facciale, qualcosa che ricorda molto da vicino l’esempio ormai consolidato da anni dalla confinante Cina. La cosa preoccupa, ma non sorprende: il Governo indiano e le sue amministrazioni locali stanno sempre più esplicitamente puntando sulle nuove tecnologie per preservare il loro controllo sulla nazione.

Project Panopticon, organizzazione indiana partorita da uno stuolo di giovani preoccupati per la situazione, stima che l’area della Telangana sia quella meglio mappata dal face recognition istituzionale: la polizia regionale e quella di Hyderabad stanno accumulando foto dei cittadini con lo scopo formale di garantirne la sicurezza, mentre almeno altre tre istituzioni pubbliche fanno riferimento a dati biometrici per autenticare l’identità dei visitatori.

Stando al Digital Verification Corps, costola di Amnesty International, e alla Internet Freedom Foundation, organizzazione indiana per le libertà digitali, la situazione nella capitale avrebbe assunto toni smaccatamente invasivi, nonché un po’ “artigianali”. Denunce affermano infatti che, nel pieno della pandemia, le Forze dell’Ordine andassero in giro a colmare i buchi dei loro registri scattando istantanee a passanti scelti casualmente, cosa che, se confermata, dimostrerebbe che il Governo Statale ha di fatto stracciato le leggi proposte nell’Identification of Prisoners Act indiano, leggi che altrimenti vanno a limitare il diritto della polizia a fotografare i civili non sotto arresto. Ovviamente gli agenti avevano chiesto ai soggetti immortalati di togliere la mascherina sanitaria, in barba alle norme sanitarie.

L’implementazione poliziesca del riconoscimento facciale – in Oriente come in Occidente – solleva sempre la massima allerta, sia perché gli algoritmi che li normano risultano spesso flagellati da deficienze di natura progettuale, sia perché non è raro che le aziende che li commercializzano non si fregino di policy sui diritti umani, le quali sono invece ampiamente caldeggiate dalle linee guida proposte al settore dalle Nazioni Unite. Le intelligenze artificiali che controllano i nostri volti risultano quindi adulterate dal Mercato ancor prima che dai Governi, quando poi finiscono a Governi la cui democrazia sta seguendo un «rapido declino», i risultati sono deleteri.

L’Amministrazione Modi si è garantito leggi cucite ad hoc che permettono all’establishment di controllare ciò che è visibile o pubblicabile sulla Rete, il tutto con la compiacenza di Big Tech che hanno deliberatamente ignorato o rivisto le proprie norme aziendali pur di garantirsi una fetta del ghiotto bacino di nuovi clienti digitali presenti nella popolosissima India. Tenendo conto che il Bharatiya Janata Party (BJP), il partito dominante, sia famoso per istigare la violenza sulle minoranze musulmane e, in particolar modo, sul gruppo etnico rohingya, la situazione non è certamente rosea, con il risultato che molti temono che le autorità andranno ad accanirsi ulteriormente su quei soggetti che sono già ora più vulnerabili o che sfrutti il riconoscimento facciale per identificare tutti coloro che osano contestare le politiche nazionali.

[di Walter Ferri]

 

Etiopia, i ribelli Tigrè alle porte della capitale: cosa c’è da sapere sul conflitto

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L’Etiopia, il secondo paese più popoloso dell’Africa, si trova ad affrontare una transizione politica sempre più complessa iniziata nel 2018, con l’ascesa del Primo Ministro Abiy Ahmed. Ad oggi appare improbabile che il conflitto, in corso dal novembre 2020 tra le forze governative leali ad Abiy e i ribelli del Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè (Tigray People’s Liberation Front – TPLF), si possa risolvere in maniera pacifica. A inizio settimana infatti le truppe del TPLF hanno dichiarato di avere conquistato la città di Shewa Robit, distante poco più di 200 km dalla capitale Addis Abeba. Nonostante il governo centrale non abbia confermato la notizia, il fatto che lunedì 22 novembre il Primo Ministro Abiy abbia dichiarato che avrebbe «raggiunto le sue troppe al fronte per guidarle alla vittoria», appare una conferma della situazione molto grave che stanno vivendo le forze governative. Anche il maratoneta etiope Haile Gebrsellasie (vincitore di 2 medaglie d’oro olimpiche e 8 titoli mondiali) avrebbe dichiarato, mercoledi 24 novembre, di essere pronto a scendere in guerra a fianco di Abiy contro i ribelli. Un’ulteriore indizio che gli scontri possano raggiungere la capitale Etiope arriva dagli inviti ai propri cittadini di lasciare il paese da parte di Francia, Germania, Stati Uniti e Regno Unito.

La fine del sistema etnofederalista

In gioco c’è la stabilità dello Stato e del sistema di federazione tra le maggiori etnie creato nel 1991, l’Etiopia infatti è composta da oltre 80 gruppi etnici e storicamente i vari governi si sono sempre trovati ad affrontare il difficile compito di rafforzare la stabilità del governo centrale cercando al contempo di garantire le autonomie locali. Inizialmente il governo di coalizione di Abiy sembrava potesse portare stabilità al paese, il Primo Ministro è stato addirittura insignito nel 2019 del Premio Nobel per la Pace per avere siglato un accordo con la vicina Eritrea inerente al conflitto occorso tra il 1998-2000 che aveva causato 100.000 morti, e che sino ad allora era ancora causa di tensioni e di frequenti schermaglie nelle zone di confine tra i due paesi. Un premio per la pace la cui assegnazione, dopo le dure repressioni messe in atto contro i ribelli del Tigrè, appare oggi decisamente fuori luogo.

Abiy, primo presidente della storia di etnia Oromo, era salito al potere nel 2018 con Il Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope (EPRDF) una coalizione politica etnopluralista formata da quattro partiti: Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè (TPLF), Partito Democratico Amara (ADP), Partito Democratico Oromo (ODP) e Movimento Popolare Democratico dell’Etiopia del Sud (SEPDM). I quattro partiti rappresentavano infatti i maggiori gruppi etnici presenti nel paese: gli Oromos (34,6 % della popolazione) gli Amharas (27,1%) i Somalis (6,2%) presenti principalmente nel sud del paese e i Tigrayans (6,1%). Il Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope, grazie anche alle capacità militari del TPLF, era stato in grado di rovesciare la giunta militare che del 1974 governava l’Etiopia. L’ EPRDF ha poi dominato la politica etiope dal 1991 sino al suo scioglimento nel 2019. E proprio dallo scioglimento di questa coalizione e dalla creazione del Partito della Prosperità da parte di Abiy, nel dicembre 2019, che le tensioni hanno cominciato a riemergere.

La rottura tra governo centrale e ribelli

Nel nuovo partito infatti sono confluiti solamente tre dei quattro partiti che facevano parte dell’EPRDF, Il Fronte di Liberazione Popolare del Tigrè (TPLF), partito che aveva assunto un ruolo dominante nell’ex EPRDF per 27 anni, è stato l’unico a non aderire. L’animosità tra TPLF e il nuovo Partito della Prosperità sono andate via via crescendo anche a seguito della decisione di Abiy di posticipare, a causa del Covid, le elezioni generali inizialmente previste per l’Agosto 2020. Elezioni che poi si sono tenute tra giugno e settembre del 2021 e che hanno visto una vittoria schiacciante da parte del Partito della Prosperità che si è aggiudicato 410 seggi su 436. Ma il boicottaggio da parte delle opposizioni, la guerra nella regione settentrionale del Tigrè (che ad oggi ha causato oltre due milioni di sfollati) e l’aumento delle tensioni etniche hanno minato la legittimità delle elezioni.

Il governo Abiy, che all’inizio del mandato aveva dato segni positivi, revocando il divieto di partecipare alle elezioni ai partiti di opposizione e rilasciando migliaia di prigionieri politici, potrebbe ora evolversi verso un regime autoritario. Ma anche la schiacciante maggioranza parlamentare poco può di fronte all’avanzata armata dei ribelli. Al momento non sembrano neppure bastare gli uomini e gli armamenti sui quali il governo di Addis Abeba può contare, recentemente rinforzati dall’acquisto di droni armati dalla Turchia. Poche le informazioni che filtrano sulla realtà sul territorio, sia per quanto concerne l’aspetto militare sia su quello dei crimini di guerra e delle vittime civili. Tuttavia la situazione è in costante evoluzione e per il governo pare volgere al peggio.

[di Enrico Phelipon]

Il Portogallo dice addio al carbone con 9 anni di anticipo

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Il Portogallo ha detto addio al carbone con ben nove anni di anticipo. Lo Stato si era impegnato a farlo entro il 2030, ma la società di energia elettrica Endesa ha già spento la centrale di Pego – la seconda fonte di emissioni di gas serra a livello nazionale, situata a circa 150 chilometri a nord-est di Lisbona – la quale, pur avendo una licenza di funzionamento fino al 30 novembre, aveva esaurito le scorte di carbone. Con la sua chiusura, il Portogallo è il quarto paese dell’Unione europea a dire ufficialmente addio alla fonte energetica più inquinante nella produzione di elettricità, dopo che Belgio, Austria e Svezia, lo fecero nel 2016. Ma che fine farà la centrale di carbone di Pego? C’è la possibilità che questa venga trasformata in una centrale a biomasse per la combustione di pellet. L’Unione europea, infatti, considera ancora l’energia ricavata dalla combustione del legno, ecologica e benefica per il clima, nonostante gli esperti rivelino il contrario. Tuttavia – ha fatto sapere il governo – c’è anche la probabilità che Pego lasci il posto a un sito produttivo di pannelli solari o di veicoli elettrici. Le proposte verranno presentate entro il 17 gennaio.

L’esorcizzazione del carbone ha preso inizio a Bonn (Germania), nel 2017, durante la COP23 (La Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici). In quel frangente, Lisbona si era impegnata ad abbandonare il combustibile fossile entro il 2030, un obiettivo molto importante che non ha mai smesso di perseguire, cercando di accelerare sempre di più i tempi. Nel gennaio del 2021, infatti, con ben due anni di anticipo, era stato messo fuori uso l’impianto termoelettrico di Sines. Il Portogallo è diventato un esempio da seguire, tanto che anche Gran Bretagna, Grecia, Ungheria e Danimarca, hanno ottimizzato i tempi. Al momento sono 21 i paesi europei che hanno annunciato la data del loro addio al carbone, ma non tutti prevedono la svolta prossimamente: la Polonia nel 2049 e la Bulgaria tra il 2038 e il 2040.

La chiusura della centrale di Pego è sicuramente un passo importante a livello ambientale, ma questo ha anche significato lasciare a casa ben 150 lavoratori. Ciononostante, il ministro dell’Ambiente João Pedro Matos Fernandes, ha garantito che gli ex-dipendenti della centrale sono la priorità: questi continueranno a percepire il loro stipendio se aderiranno al processo di riqualificazione professionale che avrà inizio il 15 dicembre. Si tratta di corsi di formazione al fine di insegnare loro nuove modalità di produzione di energia, in vista della riconversione della centrale.

[di Eugenia Greco]

Sciopero taxi: auto ferme in tutta Italia e corteo di protesta a Roma

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Il servizio taxi, come riferito dai sindacati delle auto bianche, oggi non sarà disponibile in tutta Italia in virtù dello sciopero indetto dalle 8:00 alle 22:00. Quest’ultimo è stato fatto per opporsi al Ddl concorrenza, che secondo i tassisti andrà a deregolamentare ulteriormente il settore a favore delle multinazionali. A tal proposito, a Roma attualmente si sta anche tenendo un corteo di protesta dei tassisti non privo di momenti di tensione. Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa LaPresse, infatti, i manifestanti hanno lanciato fumogeni e petardi, mentre Piazza della Repubblica (a pochi passi dalla stazione Termini) è stata chiusa al traffico.

Il caso dell’Olanda: 85% di vaccinati, ma terapie intensive di nuovo piene

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In Olanda nell’ultimo periodo il numero di pazienti Covid ricoverati negli ospedali sta crescendo vertiginosamente, così come quello dei posti letto in terapia intensiva occupati da questi ultimi. Tutto ciò nonostante l’84,7% della popolazione over 18 sia interamente vaccinata ed una percentuale ancora maggiore riguardi proprio le fasce a rischio: in media, infatti, il 90% delle persone di età superiore ai 61 anni ha completato il ciclo di vaccinazione. Come riportato all’interno del sito ufficiale del governo olandese, però, ogni giorno vengono appunto ricoverate mediamente in ospedale 247 persone a causa del coronavirus, ed i posti letto occupati nella giornata di ieri da tali pazienti sono stati 2052: un numero del genere non si registrava dallo scorso mese di gennaio. Per quanto riguarda le terapie intensive, invece, si viaggia ad una media di 38 ricoveri al giorno ed ieri 488 posti letto sono stati occupati dalle persone malate di Covid: si tratta del 51,8% del totale dei posti occupati in terapia intensiva.

Si ha dunque a che fare con un numero molto elevato che – insieme a quello degli ospedalizzati – ha determinato l’assegnazione al Paese del cosiddetto livello di rischio «grave»: le unità di terapia intensiva nei Paesi Bassi possono infatti «arrivare ad avere una capacità massima di circa 1.350 posti letto per un breve periodo di tempo, ma quelli previsti per i pazienti Covid sono circa 200 mentre i letti rimanenti sono necessari per altri tipi di pazienti la cui cura potrebbe essere stata ritardata a causa della pandemia» Non è un caso, quindi, che in Olanda siano state ultimamente imposte una serie di restrizioni (che interessano in particolare il settore della ristorazione, obbligato a chiudere alle ore 20:00) e che i media mainstream parlino di una situazione fuori controllo. Il problema è appunto quello di non poter curare adeguatamente tutti i pazienti, motivo per cui il governo ha iniziato a trasferire alcuni malati Covid in Germania.

Detto ciò, si prevede che i numeri sopracitati si ingrandiranno ulteriormente con la crescita dei contagi, che a loro volta sono in costante aumento nell’ultimo periodo. Attualmente infatti si viaggia ad una media settimanale di quasi 22mila casi al giorno, numero più elevato registrato in Olanda da quando è iniziata la pandemia. A tal proposito, bisogna però altresì precisare che se da un lato l’aumento delle persone attualmente presenti nelle terapie intensive e degli ospedalizzati è superiore rispetto a quello registratosi alla medesima data dello scorso anno – quando il vaccino ancora non era stato somministrato alla popolazione – dall’altro anche i contagi attuali sono maggiori di quelli segnalati il 23 novembre 2020. Allora infatti erano 1432 i letti ospedalieri occupati dai pazienti covid e 536 quelli in terapia intensiva, ma la media settimanale dei casi era di circa 5000 al giorno: un numero di gran lunga inferiore rispetto a quella attuale.

[di Raffaele De Luca]

Svezia: Magdalena Andersson nominata primo ministro

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In Svezia, la leader del partito socialdemocratico Magdalena Andersson è stata nominata primo ministro da parte del Parlamento: si tratta della prima donna premier nella storia del Paese. Andersson, che ha ricoperto il ruolo di ministro delle Finanze nel governo di Stefan Lofven, succede proprio a quest’ultimo, dimessosi all’inizio di quest’anno sia dal ruolo di premier che da quello di leader dei socialdemocratici.

L’Italia ha un problema con l’educazione sessuale

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Nei giorni scorsi, al liceo artistico Marco Polo di Venezia, alcune studentesse si sono ribellate, dopo essere state redarguite a causa del loro abbigliamento dall’insegnante di educazione fisica. Alcune di loro si erano presentate in palestra indossando un top sportivo e per questo riprese dall’insegnante che lo aveva ritenuto indumento poco consono a un contesto scolastico, perché “distrae i compagni maschi”. La professoressa aveva chiesto alle alunne di coprirsi con una maglia, le studentesse non solo hanno rifiutato ma hanno inscenato una protesta, reclamando un cambio di mentalità all’interno del mondo scolastico. Le studentesse, riunite nel collettivo Polo-Las, chiedono innanzitutto una cosa: l’introduzione dell’educazione sessuale tra le materie di studio. Una richiesta paradigmatica, come vedremo, di come in Italia siano ancora (non) affrontate le questioni relative alla sessualità e al genere. Il nostro Paese è infatti fanalino di coda a livello europeo, vittima dell’inazione legislativa e di un certo conservatorismo di matrice cattolica non ancora superato.

L’Italia è infatti uno degli ultimi Stati membri dell’Unione Europea in cui l’educazione sessuale non è obbligatoria, accanto a Bulgaria, Cipro, Lituania, Polonia e Romania. Il tema è percepito nel nostro paese ancora come un tabù, visto e considerato il disinteresse del ministero dell’Istruzione che continua a non introdurlo nei programmi scolastici. L’opposizione alla introduzione dell’educazione sessuale nelle scuole verte su due ragioni principali: 1. Parlarne determinerebbe un inizio più precoce delle relazioni sessuali dei ragazzi; 2. Si tratta di un argomento legato alla sfera intima, del quale devono farsi carico i genitori.

Educazione sessuale: una definizione

Ma cosa si intende per educazione sessuale e perché sarebbe così importante insegnarla nelle scuole? Nella International Technical Guidance on Sexuality Education realizzata dall’UNESCO nel 2009, l’educazione sessuale è stata descritta come “un approccio, adeguato all’età e alla cultura, nell’insegnamento riguardante il sesso e le relazioni attraverso la trasmissione di informazioni scientificamente corrette, realistiche e non giudicanti. L’educazione Sessuale offre, per molti aspetti della sessualità, l’opportunità sia di esplorare i propri valori e atteggiamenti, sia di sviluppare le competenze decisionali, le competenze comunicative e le competenze necessarie per la riduzione dei rischi”. Si tratta dunque di un intervento che deve adottare un approccio multidimensionale, intenzionale, consapevole, mirato al target dei destinatari, volto a tutelare, informare, autorizzare la soggettiva ricerca del benessere sessuale.

Perché serve una legge nazionale

Nonostante più di 40 anni di tentativi, in Italia non vi ancora è una legge che sancisca l’obbligo di inserire l’educazione sessuale nel novero delle materie scolastiche e gli istituti italiani scelgono autonomamente come agire a livello territoriale. L’assenza di un quadro normativo nazionale che individui cosa si intenda per educazione sessuale fissandone gli obiettivi e le linee guida per la sua realizzazione lascia anzitutto spazio all’affiorare di pregiudizi e tabù che alimentano dibattiti di tipo ideologico e porta ad avere disuguaglianze e disparità tra ragazzi di regioni diverse. In Italia l’insegnamento dell’educazione sessuale viene fatto in qualche modo, ma in modo frammentario. Le Regioni, in piena autonomia e spesso a seconda del colore politico dell’amministrazione, decidono se destinare risorse per percorsi di educazione sessuale nelle scuole. A quel punto vi è il filtro composto dai dirigenti scolastici che, spesso anche loro in base ad opinioni politiche e ideologiche, decidono se attivarsi per effettuare i suddetti corsi nei loro istituti. Ovvio ne consegua una realtà a macchia di leopardo, con alcune regioni (innanzitutto quelle del centro Italia, storicamente a maggioranza di sinistra) dove l’educazione sessuale è spesso presente nelle scuole, ed altre dove è quasi o anche del tutto assente.

Nel nostro paese il primo disegno di legge fu presentato da Giorgio Bini, Partito Comunista, il 13 marzo 1975 e, senza andare troppo indietro negli anni, dal 1995 diverse proposte di legge si sono succedute per introdurre l’educazione sessuale come materia curriculare. Osservando la tabella riportata al termine del paragrafo balza subito all’occhio l’imbarazzo con cui i diversi partiti dal 1995 non siano stati in grado di chiamare le cose col proprio nome: un susseguirsi di proposte di legge in cui la materia “educazione sessuale” viene talvolta definitiva “educazione socio- affettiva”, o “sentimentale” o “educazione alla parità di genere”.

Fonte: Istituto Internazionale di Sessuologia Firenze (IRF)

Tra disegni di legge mai attuati e organizzazioni della società civile – spesso vicine al mondo cattolico ma non solo – che ostacolano il dibattito pubblico, chi ovviamente patisce di questa disinformazione e di mancanza di linee guida nazionali sono bambini, pre- adolescenti e adolescenti che si affacciano alla conoscenza della propria sessualità in solitudine o attraverso l’uso di canali informali: in primis i genitori – che ricoprono un ruolo fondamentale, ma che non possono certo sostituirsi totalmente a professionisti del settore – e la pornografia, oggi accessibile a chiunque attraverso il web, i cui prodotti sono pensati per intrattenere e non di certo per educare.

L’educazione sessuale in Europa

In Europa, la storia dell’ insegnamento dell’educazione sessuale ha oltre mezzo secolo, la più antica nel mondo. Nella progressista Svezia, seppur con qualche iniziale difficoltà di integrazione nelle materie curricolari, l’educazione sessuale diventa materia obbligatoria già nel 1955. A seguire la Germania nel 1968; Danimarca, Finlandia e Austria 1970; la Francia nel 1998. Oggi, la maggior parte degli Stati membri dell’Unione Europea ha adottato una normativa nazionale che disciplina la sua obbligatorietà nelle scuole, ad eccezione – come dicevamo sopra – di Bulgaria, Cipro, Lituania, Polonia, Romania e Italia.

Tuttavia, nonostante esista un documento quadro di riferimento a livello Europeo, rivolto a governi, autorità scolastiche e sanitarie, per definire gli Standard dell’Educazione Sessuale in Europa, l’integrazione dei programmi curriculari è ancora scarsa. Ad esempio, l’età di riferimento per l’insegnamento della materia varia da paese a paese: i portoghesi iniziano già a 5 anni mentre i loro cugini spagnoli aspettano i 14. Anche gli approcci e le modalità di intervento si diversificano a seconda del paese: in Olanda si lavora su un’ampia gamma di temi, dalla conoscenza del corpo umano per i più piccoli, alla percezione di sé e dell’altro, al significato di amore, di sesso e di abuso sessuale; in Francia i programmi si attengono alla prevenzione della salute sessuale, in Danimarca sono previste anche lezioni tenute direttamente da sex worker.

Ma in definitiva, a cosa servirebbe?

L’educazione alla sessualità come suggerito dagli Standard per l’Educazione Sessuale in Europa deve adottare un orientamento olistico che non includa esclusivamente programmi di prevenzione alla salute sessuale ma che integri percorsi di apprendimento per l’autodeterminazione, la realizzazione di sé e della propria sessualità, per fare scelte consapevoli, salutari e rispettose su relazioni, sesso e riproduzione.

Attraverso adeguati programmi, nei paesi europei dove sono stati attivati percorsi di educazione alla sessualità, è stato possibile raggiungere obiettivi chiari e misurabili: ridurre la frequenza di comportamenti sessuali non protetti, incrementare la prevenzione per evitare gravidanze non desiderate e malattie sessualmente trasmissibili, ritardare (e non anticipare come sospettano i contrari) l’età del primo rapporto.

L’Unesco, nella sua guida, ha fatto una valutazione dell’impatto di questi programmi in vari paesi del mondo. I risultati sono tangibili: più di un terzo dei programmi riesce a ritardare l’età del primo rapporto sessuale, a far diminuire la frequenza e il numero di rapporti con partner diversi. In 4 casi su 10, inoltre, è stato incentivato l’uso di anti-concezionali. Infine, più della metà dei 30 programmi dedicati alla prevenzione è riuscita a raggiungere l’obiettivo prefissato.

Costruire relazioni paritarie, superare gli stereotipi

Ma l’insegnamento della materia diventa un presupposto imprescindibile anche per costruire relazioni basate sul rispetto reciproco e maturare un pensiero critico, riconoscere e smontare gli stereotipi alla base delle discriminazioni di genere e dell’orientamento sessuale, per un cambio di mentalità e un pieno rispetto dei diritti umani. Il nostro paese vive un momento storico particolare, nel quale si parla tanto di sessualità ed allo stesso tempo sembrano esserci molti passi indietro su importanti diritti ottenuti negli anni e dove la discriminazione è sempre più tangibile, come rilevato da una ricerca dell’Istat sugli stereotipi di genere.

Educare i ragazzi – oltre che per garantire un loro diritto – diventa imprescindibile per non lasciarli soli in una delle fasi più delicate della vita e per aiutarli a sostenere qualsiasi discorso sulla sessualità che sia libero da tabù.

Tornando alla vicenda di apertura, che cosa stanno reclamando in fondo le liceali di Venezia? Che venga affrontato, nella sede dove è giusto che ciò avvenga, ovvero tra i banchi, un ragionamento sensato sulla questione di genere che inneschi per davvero un processo di cambiamento nella percezione e costruzione dei ruoli sociali, un cambio di paradigma nell’approccio alla sessualità, attraverso la trasmissione di informazioni scientificamente corrette. L’educazione sessuale è uno strumento essenziale per costruire una sessualità egualitaria e libera di esprimersi, esente da condizioni di oppressione e non legata alla divisione tra i sessi e alle relazioni di potere.

[di Elisa Arianna Passatore]