mercoledì 5 Novembre 2025
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Non c’è nessuna trasparenza sui dati dei vaccini: ora lo scrive anche il New York Times

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Il CDC (Centers for Disease Control and Prevention), ovvero l’organismo di controllo sulla sanità pubblica degli Stati Uniti, non sta pubblicando molti dei dati relativi al Covid in suo possesso: a sostenerlo è il quotidiano statunitense New York Times, secondo cui a mancare sarebbero in maniera particolare quelli sull’efficacia della dose booster dei vaccini. “Per più di un anno, il CDC ha raccolto dati sui ricoveri per Covid-19 negli Stati Uniti suddividendoli per età, razza e stato di vaccinazione, ma non ha reso pubbliche la maggior parte delle informazioni”, si legge all’interno dell’articolo del quotidiano, il quale ritiene che “quando il CDC ha pubblicato i primi dati significativi sull’efficacia dei booster negli adulti di età inferiore ai 65 anni due settimane fa, ha omesso quelli relativi ai soggetti dai 18 ai 49 anni”. Dunque, a non essere stati diffusi sarebbero i dati di una “enorme fetta” della popolazione in questione, che tra l’altro avrebbe “meno probabilità di beneficiare di dosi extra”.

Mancando i dati relativi al richiamo vaccinale negli individui sopracitati, quindi, gli “esperti esterni a cui le agenzie sanitarie federali si rivolgono per ottenere un parere hanno dovuto fare affidamento sui dati di Israele per formulare le loro raccomandazioni sulle iniezioni”. Di conseguenza, ci si chiede per quale motivo sarebbero stati omessi dati che avrebbero permesso di comprendere in maniera migliore se soggetti sani avessero effettivamente bisogno di sottoporsi al booster, e la risposta a tale domanda sarebbe arrivata direttamente da Kristen Nordlund, portavoce del CDC, la quale avrebbe spiegato al New York Times che il motivo risiederebbe, tra l’altro, nel fatto che le informazioni potrebbero essere interpretate erroneamente. In tal modo, Nordlund avrebbe così confermato quanto comunicato al quotidiano da un non meglio specificato “funzionario federale”, secondo cui l’agenzia sarebbe stata appunto riluttante a rendere pubblici i dati proprio perché sarebbero potuti essere interpretati erroneamente come dati a favore dell’inefficacia dei vaccini. Oltre a ciò, Nordlund avrebbe altresì dichiarato che i dati rappresenterebbero solo il 10% della popolazione degli Stati Uniti: eppure il CDC – ricorda il New York Times – “ha fatto affidamento per anni sullo stesso livello di campionamento per monitorare l’influenza”.

A tutto ciò si aggiunga il fatto che l’anno scorso l’agenzia è stata “ripetutamente criticata” poiché non avrebbe tracciato le “cosiddette infezioni rivoluzionarie negli americani vaccinati” (ossia i casi di individui contagiatisi nonostante fossero vaccinati) e si sarebbe invece concentrata solo sui soggetti ammalatisi gravemente e dunque ricoverati in ospedale o morti. Il problema, fondamentalmente, è che l’agenzia avrebbe infatti “presentato queste informazioni per effettuare un confronto del rischio con gli adulti non vaccinati, piuttosto che fornire istantanee tempestive di pazienti ospedalizzati stratificati per età, sesso, razza e stato vaccinale”. Eppure il CDC, secondo il funzionario federale sopracitato, avrebbe raccolto regolarmente informazioni a riguardo da quando i vaccini Covid sono stati lanciati.

Un’altra questione sollevata dal New York Times, poi, è quella relativa all’analisi delle acque reflue, con cui è possibile capire se sia imminente una nuova ondata di casi Covid. Il CDC, infatti, ha recentemente lanciato sul suo sito Web una dashboard sui dati delle acque reflue da aggiornare quotidianamente, tuttavia ciò sarebbe stato fatto con ritardo dato che alcuni Stati “avevano condiviso le informazioni sulle acque reflue dall’inizio della pandemia”. Va detto però che la lentezza del CDC nel rendere pubblici i dati sembrerebbe essere comprensibile in quanto, come affermato dalla Nordlund, il CDC avrebbe dato la possibilità di “presentare i dati negli ultimi mesi”. Tuttavia, secondo il New York Times il CDC avrebbe comunque rilasciato i dati una settimana dopo il previsto, mentre il tracciatore dei livelli di Covid nelle acque reflue statunitensi verrebbe “aggiornato solo il giovedì e il giorno prima della data di rilascio originale”.

Detto questo, bisogna infine ricordare che la preoccupazione per l’interpretazione errata dei dati non riguarda solo le agenzie statunitensi ma anche quelle scozzesi. Public Health Scotland, l’ente nazionale che si occupa della sanità pubblica in Scozia, ha infatti scritto all’interno del suo recente rapporto statistico sul Covid che “a causa del crescente rischio di interpretazioni errate, non segnalerà più i casi di Covid-19, ricoveri e decessi per stato vaccinale su base settimanale”.

[di Raffaele De Luca]

Trento, vietata la plastica negli eventi pubblici

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La Provincia Autonoma di Trento ha disposto il divieto, a partire da luglio 2022, di utilizzare la plastica monouso in tutti gli eventi pubblici che siano patrocinati, organizzati o finanziati dalla Provincia o dagli Enti ad essa collegati. Da gennaio 2023 il divieto sarà esteso a tutti i servizi di somministrazione e vendita di cibo all’interno degli enti pubblici. La decisione, innovativa e coraggiosa, ha subito scatenato le proteste delle principali aziende e associazioni del settore, tra le quali Unionfood, Mineracqua e Sanpellegrino, le quali hanno immediatamente fatto ricorso al Tar.

La Russia riconosce l’indipendenza del Donbass ed entra con le truppe sul territorio

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Quando il fuso orario di Roma batteva le 19:04 di ieri, 21 febbraio 2022, il presidente della Russia Vladimir Putin ha deciso di rompere gli indugi. In diretta televisiva ha comunicato ai cittadini la decisione di riconoscere l’indipendenza delle autoproclamate repubbliche popolari di Donestsk e Luhansk, le provincie ribelli filo-russe all’interno del territorio dell’Ucraina, ed ha firmato un trattato di mutua assistenza con i presidenti delle due entità. Nel discorso il presidente russo si è spinto sostanzialmente a negare per tutta l’Ucraina lo status di nazione: «L’Ucraina non è un Paese confinante, è parte integrante della nostra storia, cultura, spazio spirituale. È stata creata da Lenin, che è stato il suo creatore e il suo architetto. […] L’Ucraina non ha mai avuto una tradizione coerente dell’essere una vera nazione». Poche ore dopo l’ulteriore mossa: Putin, nel decreto con il quale ha riconosciuto le repubbliche separatiste, ha ordinato al ministero della Difesa russo di dispiegare forze armate «per assicurare la pace» nel Donbass, in seguito alla richiesta dei leader delle due entità filo-russe.

La conseguenza di tali atti è militarmente e geopoliticamente chiara e immediata: la Russia ha in buona sostanza annesso unilateralmente oltre 50.000 km2 di territorio ucraino ai propri confini e, solo facendolo, ha mandato un ultimatum a Kiev: il prossimo colpo sparato nella regione sarà vissuto come un attacco diretto da parte di Mosca e scatenerà una risposta militare per “mantenere la pace” in quello che da oggi è suo territorio.

In verde l’Ucraina, in rosso la Russia, tratteggiate le regioni del Donbass (da ieri riconosciute da Mosca) e della Crimea (già annessa con un referendum nel 2014)

L’Ucraina quindi può scegliere tra due sole opzioni, una umiliante e l’altra suicida: accettare la sottrazione di una porzione del proprio territorio senza colpo ferire oppure entrare in guerra contro il gigante russo. Per la verità il presidente ucraino Zelens’kyj sta cercando di percorrere una improbabile terza via: nel discorso alla nazione inziato alle 01:00 ha affermato che non intende rinunciare a nessun territorio ma ha ribadito che «l’Ucraina vuole la pace» e che «intende risolvere tutto con la diplomazia». Le due cose non stanno insieme ma, data la situazione, difficilmente avrebbe potuto permettersi di dire qualcosa di diverso. Le orecchie delle cancellerie, ad ogni modo, sono certamente più attente a quanto viene detto da Washington, protettore dell’esistenza dell’Ucraina stessa. Ancor prima che Zelens’kyj parlasse il presidente americano Joe Biden aveva emesso il primo ordine, vietando ogni attività commerciale, ogni importazione ed ogni esportazione da parte di tutti i cittadini e società statunitensi con i territori di Donestsk e Luhansk. Nel documento trasmesso al Congresso il presidente Usa ha definito la situazione «una minaccia insolita e straordinaria per la sicurezza nazionale e la politica estera degli Stati Uniti». Altre azioni seguiranno: a questo punto ovvie ulteriori sanzioni economiche verso Mosca da parte di Washington e molto probabilmente anche da parte dell’Unione Europea. Ovvio anche che da Mosca queste risposte siano state ampiamente messe in conto e le contromosse attentamente studiate nelle ultime settimane. Le conseguenze economiche per la Russia saranno salate, come testimoniato dal pronto crollo, tra il -15 e il -30%, di tutti i titoli quotati alla borsa di Mosca. Ma saranno tutt’altro che trascurabili anche per l’Europa, che in questi mesi ha assaggiato cosa significa non poter contare appieno sul gas russo.

Nel frattempo dal Donbass arrivano scene di giubilo popolare. La popolazione è scesa in strada con le bandiere russe e per una notte i botti dei fuochi d’artificio si sono sostituiti a quelli dei fucili. Nel 2014 in Ucraina si verificò la cosiddetta “rivoluzione arancione” che sottrasse il potere ai filo-russi, da allora il Donbass è entrato in guerra per l’indipendenza e la riannessione a Mosca: in otto anni la guerra ha provocato oltre 13.000 vittime e 1,5 milioni di sfollati. Paradossalmente quella che nel resto del mondo viene letta come la notizia che segna il possibile scoppio di una guerra pericolosissima, nel Donbass stesso viene vista come la cosa più vicina alla pace conosciuta negli ultimi anni. Chi avrà ragione lo scriverà la storia nelle prossime settimane.

[di Andrea Legni]

Cosa sta succedendo realmente in Donbass?

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Negli ultimi giorni sono state diverse le notizie provenienti dalla regione Donbass che lasciano presagire che una guerra in Ucraina sia ormai imminente. Di certo c’è che da una parte e dall’altra si spara, facendo vaccillare l’esile tregua; di certo c’è inoltre lo stato di massima allerta diffuso dalle autorità russe e ucraine nonché gli ordini di evacuazione dei connazionali disposti dalle cancellerie internazionali. Le parti coinvolte nel conflitto, esercito ufficiale ucraino da una parte e milizie popolari fedeli a Mosca dall’altra, si incolpano a vicenda di violare la tregua e volere una escalation milatare, spesso facendo uso di fake news come armi per orientare l’opinione pubblica mondiale.

Per capire meglio il conflitto in corso, è utile capire prima di tutto a cosa ci si riferisce quando si parla di Donbass. Stando ad una nota enciclopedia, per Donbass si intende quella “vasta regione dell’Europa orientale, appartenente quasi per intero all’Ucraina e per un piccolo tratto alla Russia; comprendente parte del bacino del Donez e dello Dnepr. Sono presenti vasti giacimenti di carbone. La vicinanza dei giacimenti ha favorito il sorgere dell’industria siderurgica, cui si sono poi affiancati complessi meccanici, chimici e metallurgici”. È proprio nelle zone della regione appartenenti all’Ucraina che nel 2014, all’indomani della cosidetta “rivoluzione arancione” che in Ucraina fece cadere il governo filo-russo di Victor Janukovyč, la popolazione locale dichiarò la propria indipendenza da Kiev (tramite un referendum non riconosciuto dalla comunità internazionale) e la fondazione delle repubbliche popolari di Doneck e Lugansk. Dalla dichiarazione di indipendenza iniziarono i primi scontri armati che, fino ad oggi, in queste due provincie, non si sono mai fermati. In questi 8 anni infatti sono state oltre 13.000 le vittime stimate e 1,5 milioni gli sfollati. I tentavi per trovare una soluzione diplomatica alla crisi in Ucraina non sono mancati: nel 2014 erano stati siglati i Protocolli di Minsk tra Russia e Ucraina con la mediazione di Francia e Germania, implementati poi nel 2015 con una serie di nuove misure note come Minsk II. Tentativi che però non hanno mai portato ad un cessate il fuoco duraturo, dato che le violazioni nel corso degli anni sarebbero state oltre 2.000.

La crisi nel Donbass non è però esclusivamente collegata a questioni locali, ossia la volontà delle repubbliche popolari di autodeterminare il proprio destino e quella di Kiev di non perdere parti del suo territorio. Sull’Ucraina sono in gioco anche gli interessi geopolitici di Europa e Stati Uniti. E proprio questo rende difficile l’interpretazione degli avvenimenti, dato che ogni lettura può essere interpretabile in base agli interessi delle parti coinvolte.

Quello che appare evidente è che, da quando si è iniziato a parlare di una guerra imminente nell’ottobre del 2021, a seguito dell’ammassamento di truppe russe presso il confine con l’Ucraina, le tensioni preesistenti sono state di fatto esacerbate dalla strumentalizzazione che ne hanno fatto i media. E probabilmente lo stesso è avvenuto anche per gli avvenimenti degli scorsi tre giorni. Testate locali e media internazionali non hanno esitato a gettare benzina sul fuoco riportando spesso informazioni di dubbia autenticità oppure utilizzando titoli quasi apocalittici. Alcuni dati posso aiutare a comprendere meglio il conflitto, per capire se questa crisi recente sia di fatto collegabile ad effettivi scontri armati oppure no. Da un report dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani si evince che negli anni i morti tra la popolazione civile causati dal conflitto in Donbass sono andati sensibilmente calando. Nel 2014 i morti erano stati 2084, 954 nel 2015 fino ad arrivare ai 26 del 2020. Numeri che evidenziano come le fasi più intense dei combattimenti risalissero ai primi due anni del conflitto e che gli scontri più recenti siano il probabile risultato delle schermaglie tra due eserciti assestati sulle loro posizioni. La volontà di una delle parti di conquistare l’altra, come è stata raccontata in questi ultimi mesi, da questi numeri non risulta. Chiaramente non si può escludere l’eventualità che la situazione possa degenerare da un momento all’altro. Di certo l’escalation continua a registrarsi nelle parole degli attori in campo. La Russia ha descritto i recenti bombardamenti da parte dell’esercito ucraino come un tentativo di genocidio ai danni delle repubbliche popolari. Mentre i leader delle due Repubbliche Popolari hanno dato il via all’evacuazione di tutta la popolazione civile verso la Russia e annunciato una piena mobilitazione militare degli uomini. Come da copione il governo di Kiev riporta invece una versione esattamente opposta: per il governo Zelens’kyj sono i russi ad aver cominciato bombardando le posizioni ucraine e causando anche diversi morti, tra cui due militari. Vista da Kiev l’escalation di questi ultimi tre giorni è un pretesto creato ad arte dal Cremlino per dare il via all’invasione. Un giornale della capitale ha addirittura pubblicato un articolo secondo cui gli Stati Uniti avrebbero informazioni credibili a sostegno del fatto che Mosca stia preparando una lista di personaggi di spicco ucraini da uccidere o mandare nei campi di concentramento.

Che gli avvenimenti nel Donbass vengano strumentalizzati non sorprende, bisogna però riconoscere che, alla luce delle recenti tensioni, anche avvenimenti che pochi mesi prima sarebbero passati in secondo piano possano ora essere causa di forte preoccupazione. In un articolo precedente avevamo sottolineato come, in relazione alla questione ucraina, il vero pericolo potesse arrivare proprio dalle azioni sconsiderate da parte dei gruppi paramilitari presenti sia tra le file dell’esercito ucraino che tra quelle filo-russe. E che tali azioni, per anni considerate schermaglie, ad oggi potessero costituire un vero e proprio “casus belli”. Né Kiev, né Mosca, né Washington né tantomeno l’Unione Europea hanno come principale obiettivo quello di entrare in una guerra aperta, e infatti anche in questi giorni di forte tensione si continua a lavorare ad una soluzione diplomatica. Resta però il rischio che questi attori ci vengano trascinati dentro ad una. Una guerra avrebbe costi altissimi a livello umano ed economico, per tutte le parti coinvolte, che spingerebbe qualunque persona razionale al non volerla. Purtroppo sappiamo bene che spesso le scelte della politica hanno poco a che vedere con il buon senso, ma piuttosto con i vantaggi-svantaggi in termini di costi politici.

[di Enrico Phelipon]

Migranti, Unhcr: allarme su violazione diritti umani alle frontiere europee

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“L’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite specializzata nella gestione dei rifugiati, è profondamente allarmata per il crescente numero di incidenti violenti e di gravi violazioni dei diritti umani contro i rifugiati e richiedenti asilo alle varie frontiere dell’Europa, molti dei quali hanno provocato tragiche perdite di vite umane”: a dichiararlo è stato l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi. Quest’ultimo, ha aggiunto infatti che “violenza, maltrattamenti e respingimenti continuano a essere regolarmente segnalati in diversi punti di ingresso alle frontiere terrestri e marittime, sia all’interno che all’esterno dell’Unione Europea, nonostante i ripetuti appelli a porre fine a tali pratiche da parte delle agenzie Onu, tra cui l’Unhcr, delle organizzazioni intergovernative e delle Ong”.

Svelati i conti segreti di Credit Suisse: tremano criminali ma non solo

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Giornate imbarazzanti per il Credit Suisse. Suddeutsche Zeitung e la Organized Crime and Corruption Reporting Project (Occrp) si sono messe a capo di un’investigazione che ha coinvolto 160 giornalisti provenienti da tutto il mondo per fare le pulci a dei documenti che sono stati fatti filtrare da un ex-dipendente. Il “whistleblower”, mosso da scrupoli morali, ha gettato luce su una lista di clienti «speciali» fatta di evasori milionari, lista tra cui figurano trafficanti di uomini e boss malavitosi.

Una reporter dell’Occrp ha voluto verificare l’affidabilità dell’informatore e, fingendosi potenziale cliente, si è presentata all’istituto finanziario per aprire un conto altamente riservato. Le è stato spiegato che le nuove leggi e i nuovi accordi antiriciclaggio – nati proprio in risposta ai continui scandali di evasione fiscale – hanno fiaccato non poco la «protezione» offerta dai conti cifrati, tuttavia le è stata offerta un’alternativa: affidarsi a dei trust con dipendenti dell’istituto come fiduciari e direttori.

Facendo riferimento alle carte, la banca svizzera avrebbe prestato i suoi servizi speciali allo svedese Bo Stefen Sederholm, il quale ingannava giovani donne filippine per indurle alla prostituzione, all’ex capo dei servizi segreti egiziano Omar Suleyman, all’ex premier ucraino Pavlo Lazarenko, al figlio del dittatore egiziano Hosni Mubarak, Alaa Mubarak, e molti altri soggetti che sono stati condannati con vari capi d’accusa. In totale figurano più di 30.000 nomi e società, le quali si ricollegano complessivamente a fondi che superano i 100 miliardi di euro. 

La Stampa, testata italiana che ha partecipato attivamente all’inchiesta, non manca di far notare che almeno 700 dei soggetti coinvolti sono italiani. Si tratta perlopiù di individui poco noti alle cronache e quasi tutti residenti o domiciliati all’estero, tuttavia è facile sospettare che almeno parte di queste residenze siano truffaldine, pensate ad arte per approfittare di regimi fiscali particolarmente convenienti. A figurare tra i clienti speciali è anche il Vaticano, con l’agenzia finanziaria che non si è fatta problemi ad accogliere nel fondo Athena le firme di persone che potrebbero considerarsi politicamente esposte quali Angelo Maria Becciu, Alberto Perlasca o Fabrizio Tirabassi.

Credit Suisse si difende facendo notare che i clienti che usufruiscono di questi servizi particolari sia esigua, solamente il 0,003%, tuttavia si guarda bene dall’esplicitare quale sia la mole di finanze che questa minoranza è in grado di mobilitare. Nel rispondere allo scandalo, la banca ha anche accusato i giornalisti di star portando avanti «uno sforzo concertato per screditare il mercato finanziario svizzero», nonché ha fatto notare che gran parte dei dati presi in analisi siano obsoleti.

In effetti, almeno un terzo dei conti esposti sono stati aperti prima degli anni Duemila e molti altri sono già stati chiusi – spesso tardivamente – grazie alle fughe di dati in stile Panama Papers, inoltre un numero significativo di questi è stato normalizzato grazie ai vari scudi fiscali, tuttavia diversi profili compromettenti risulterebbero ancora attivi. L’agenzia, in nome della riservatezza, si è limitata a fornire dichiarazioni generiche e non ha alcuna intenzione di confermare o smentire l’effettiva esistenza di questi abusi.

[di Walter Ferri]

Ucraina: ambasciata italiana rinnova invito a lasciare Paese

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L’ambasciata italiana a Kiev nella giornata di oggi ha invitato nuovamente gli italiani a lasciare l’Ucraina. “A causa di eventuali rapidi sviluppi della situazione  – si legge nel messaggio dell’ambasciata indirizzato ai connazionali – a quanti fossero tuttora presenti è ribadito l’invito a lasciare il Paese con i mezzi commerciali al momento disponibili e a seguire tutte le indicazioni delle Autorità locali”. L’invito fa infatti seguito a quello dello scorso 12 febbraio, quando è stato deciso, a scopo precauzionale, di consigliare alla comunità italiana in Ucraina di lasciare temporaneamente il Paese.

Roberto Speranza, unico in Europa, vuole continuare con il green pass a oltranza

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Dal Regno Unito alla Svizzera, passando per Austria, Irlanda e Danimarca, praticamente tutti i ministri della Salute dell’Unione hanno già eliminato il grosso delle restizioni nonché l’uso del green pass e degli obblighi vaccinali, oppure – quelli più prudenti – hanno stilato calendari precisi di fuoriuscita dall’emergenza sanitaria, come nel caso della Finlandia. Ad oggi si registra in Europa un solo ministro della Salute che pare intenzionato a continuare sulla strada delle restrizioni, degli obblighi e della certificazione verde senza nemmeno immaginare una fine dell’emergenza, quello italiano. Roberto Speranza è tornato a farsi vivo sul tema annunciando: «Il Green pass è stato ed è un pezzo fondamentale della nostra strategia. Le mascherine al chiuso sono ancora importanti: non riesco a vedere un momento X in cui il virus non esiste più e cancelliamo insieme tutti gli strumenti. È ovvio che misure del genere devono avere una temporaneità, ma dire ora – con sessantamila casi al giorno – che l’impalcatura va smantellata, beh, penso sia un errore». In buona sostanza, mentre in tutta Europa si dice «Il virus non scomparirà, quindi dobbiamo accettare di conviverci e tornare alla normalità», Speranza partendo dalle stesse considerazioni arriva, unico, alla conclusione opposta: Il virus non scomparirà, quindi dobbiamo mantenere le restrizioni alla libertà a oltranza.

«Con un Green Pass solido abbiamo piegato l’ondata senza chiusure generalizzate», ha affermato nella stessa intervista, rilasciata a La Repubblica, il ministro della Salute, dimostrando ancora una volta di non considerare i dati provenienti da altri Paesi che il green pass hanno scelto di non adottarlo neppure e ciononostante hanno registrato curve di contagio, ricoveri e decessi non solo analoghi, ma addirittura migliori rispetto all’Italia, come nel caso della Spagna. Nessuna valutazione nemmeno sui dati provenienti dal Regno Unito: per mesi la narrazione governativa italiana ha dipinto come “irresponsabile” la linea tenuta dal premier Boris Johnson, giudicando affrettate le riaperture inglesi e l’abbandono della certificazione sanitaria. Invece oltre Manica sta succedendo l’esatto opposto, e pochi giorni fa l’Office for National Statistics ha reso noto che la mortalità generale è addirittura scesa a livelli più bassi rispetto all’epoca pre-pandemica. Solo tre giorni fa, il 18 febbraio, Israele – paese che per primo al mondo introdusse le restrizioni – ha annunciato l’abolizione immediata del green pass. Il governo, dopo mesi di utilizzo, lo ha bocciato giudicandolo, senza mezzi termini, misura «priva di logica medica ed epidemiologica».

Sfugge quindi quali siano le evidenze sanitarie e statistiche attraverso le quali il ministro della Salute italiano voglia giustificare il mantenimento della certificazione verde ad oltranza, anche oltre la fine dell’emergenza. Anzi, ogni scarna giustificazione addotta nelle interviste a mezzi di stampa al solito compiacenti e non inclini a porre vere domande, è in verità smentita dai fatti e dalla semplice comparazione con quanto avviene negli altri Paesi europei. Ma a Roberto Speranza questo non sembra interessare.

La crisi energetica si sta dimostrando un grande affare per Eni

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Il repentino aumento del costo dell’energia preoccupa milioni di famiglie e imprese. Per cercare di arginare l’emergenza rincari il Governo ha di recente stanziato nuovi fondi (6 miliardi), in linea con il provvedimento precedente (5,5 miliardi), ritenuto insufficiente da diverse realtà coinvolte nella crisi, tra cui l’Associazione artigiani e piccole imprese (CGIA) di Mestre. Chi invece non risente dell’emergenza energetica, e anzi sembrerebbe beneficiarne, è l’Eni, il cui Consiglio di amministrazione ha approvato il 17 febbraio scorso i risultati consolidati dell’esercizio e del quarto trimestre 2021, periodo in cui la multinazionale degli idrocarburi ha visto moltiplicare i propri profitti, segnando in bilancio un utile operativo adjusted di 3,8 miliardi di euro (+53% rispetto ai tre mesi precedenti).

In generale il 2021 ha rappresentato per Eni un anno di grandi affari, così come dimostrano i 9,7 miliardi complessivi di utile operativo adjusted, ritornato ai livelli pre-pandemia anche grazie al rincaro dell’energia. I prezzi di realizzo delle produzioni Eni sono infatti aumentati dell’11% per i liquidi e del 43% per il gas rispetto al terzo trimestre 2021. Prendendo invece in considerazione la differenza fra i due anni, si nota un aumento dell’82% e del 154% rispetto al trimestre 2020. Dei quasi 10 miliardi di euro di profitti, ben 9,3 provengono dal settore “Exploration and Production“, confermando la natura essenzialmente fossile della compagnia, nonostante l’emergenza climatica e gli impegni per la decarbonizzazione. A confermare i dati sono altri dati: nel quarto trimestre del 2021 la produzione di idrocarburi è infatti salita a 1,74 milioni di barili di petrolio equivalente al giorno, segnando un +2,7% rispetto al 2020. Questa tendenza non dovrebbe arrestarsi nel 2022, nonostante l’Agenzia internazionale dell’energia ricordi che per raggiungere gli obiettivi di zero emissioni nette di CO2 entro il 2050 sia necessario bloccare sin da subito l’esplorazione e lo sviluppo di nuovi giacimenti. Eni, invece, sembrerebbe aver individuato “oltre 700 milioni di barili di petrolio equivalente di nuove risorse”. Tra queste, va segnalata “l’importante scoperta ad olio nel blocco CI-101 nell’offshore della Costa d’Avorio”, annunciata lo scorso settembre dalla multinazionale stessa: si tratta di Baleine, il primo pozzo esplorativo perforato da Eni nello Stato africano.

Anche la direttrice degli investimenti tecnici sembrerebbe confermare l’interesse della compagnia a restare un caposaldo del settore petrolifero: dei 5,3 miliardi di euro investiti nel 2021, 3,4 sono indirizzati allo sviluppo di giacimenti di idrocarburi. Le fonti rinnovabili sono invece comprese nella categoria della “commercializzazione del gas ed energia elettrica nel business retail”, e i loro investimenti fermi a 366 milioni di euro.

[Di Salvatore Toscano]

Nepal: manifestanti in strada contro gli aiuti USA

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Domenica 20 febbraio centinaia di manifestanti sono scesi in piazza per protestare nei confronti del disegno di legge presentato in Parlamento che autorizzerebbe l’arrivo di 500 milioni di dollari statunitensi nelle casse del Nepal. La polizia ha sparato proiettili di gomma e gas lacrimogeni sui manifestanti, preoccupati per la sovranità del Paese e per l’intromissione degli Stati Uniti nella sua gestione. La sovvenzione, secondo la parte di governo favorevole, rientrerebbe nei parametri del Millennium Challenge Corporation (MCC), un accordo firmato dai due Paesi nel 2017.