mercoledì 5 Novembre 2025
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Pakistan-Russia, accordo bilaterale per gas e grano

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Dopo la firma del contratto per il progetto del gasdotto Soyuz Vostok con la Cina, arriva l’accordo tra Russia e Pakistan sull’importazione di gas naturale e grano. Secondo quanto riportato dai media locali, durante la visita a Mosca del primo ministro Imran Khan, i leader hanno firmato un accordo bilaterale. In un futuro prossimo, il Pakistan prevede di importare circa due milioni di tonnellate di grano dalla Russia. Inoltre, il Pakistan Stream, a lungo ritardato, verrà costruito in collaborazione con società russe. Il gasdotto di 1.100 km (683 miglia) che collega Russia e Pakistan, già concordato nel 2015, sarà quindi finanziato sia da Mosca che da Islamabad e sarà costruito da appaltatori russi. L’accordo arriva quando la maggior parte dei paesi occidentali si sta allontanando dalla Russia, imponendo pesanti sanzioni economiche al paese in risposta all’invasione dell’Ucraina.

Farina bianca: il grande inganno dell’industria alimentare

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L'elemento chiave dell’analisi è la perdita di nutrienti che avviene durante il passaggio da farina integrale (che significa integra, derivante dalla sola macinatura del chicco, senza alcuna raffinazione) a farina raffinata. Nell’opera The composition of foods gli autori McCance e Widdowson illustrano come la pasta raffinata abbia un basso contenuto di vitamine, sali minerali ed enzimi dal momento che queste sostanze diminuiscono enormemente durante il processo di raffinazione del chicco di frumento. Dopo la raffinazione infatti, rimane il 3% di tiamina (vitamina B1), il 12% di niacina (vitami...

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Visa e MasterCard sospendono le operazioni in Russia

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Visa e MasterCard sono le protagoniste dell’ultimo colpo sferrato al sistema finanziario russo dopo l’invasione dell’Ucraina. Le carte di credito dei loro circuiti non varranno più nel territorio russo e quelle emesse dalle banche russe saranno supportate solo all’interno del Paese. Continua ad aggravarsi, quindi, la situazione della popolazione russa sempre più colpita dalle sanzioni europee. Prima Visa ha annunciato lo stop con effetto immediato: collaborerà con i suoi clienti e partner in Russia per cessare tutte le operazioni Visa nei prossimi giorni; poco dopo è Mastercard ad annunciare la sospensione dei suoi servizi. Entrambe le società alcuni giorni fa avevano già bloccato diversi enti finanziari dalla propria rete, in ottemperanza alle sanzioni imposte alla Russia.

Ucraina, Putin: sanzioni imposte a Russia sono come dichiarazione guerra

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“Molto di ciò che sta accadendo ora, di quello che vediamo e di ciò che affrontiamo è senza dubbio un mezzo per combattere contro la Russia e, a proposito, queste sanzioni che ci vengono imposte sono come una dichiarazione di guerra”: è quanto, secondo l’agenzia di stampa russa Interfax, avrebbe affermato il presidente russo Vladimir Putin. “Grazie a Dio, le cose non sono ancora andate così lontano, ma penso che i nostri cosiddetti partner capiscano quali possano essere i risultati e che tipo di minacce rappresentino per tutti”, avrebbe inoltre aggiunto Putin.

Polli d’allevamento: geneticamente condannati a una breve vita di sofferenza

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La condizione biologica dei polli allevati per la carne non è compatibile con alcuna forma di benessere animale: è quanto si apprende da una recente inchiesta condotta da Animal Equality, dalla quale è emerso che i polli Broiler a rapido accrescimento – veri e propri ibridi commerciali che rappresentano la gran parte di quelli allevati nel mondo – sono geneticamente condannati ad una breve esistenza piena di sofferenza a prescindere dalle condizioni di vita a cui sono sottoposti. Per arrivare a tale conclusione gli investigatori di Animal Equality hanno effettuato il campionamento di sette polli Broiler deceduti in un allevamento intensivo del Nord Italia, comparando poi la loro condizione con quella di tre Broiler provenienti invece da un contesto ambientale protetto e salubre. Con l’aiuto di due cliniche veterinarie, dunque, sono state effettuati esami clinici e radiografie, da cui sono emerse tutte le sofferenze a cui questi animali sono destinati semplicemente per la loro genetica.

È stata infatti documentata innanzitutto una crescita innaturale dei polli, il cui peso corporeo si è raddoppiato già tra la prima e la seconda settimana di vita, e sono stati inoltre rilevati gravi danni alle ossa. Dalle radiografie infatti la calcificazione non è risultata essere totalmente avvenuta neppure in quella che generalmente è l’ultima settimana di vita dei Broiler di allevamento, ossia la settima: si sono dunque potuti osservare alcuni casi di deviazione delle ossa sia nei polli vissuti in allevamento intensivo sia in quelli vissuti in un luogo protetto, cosa che con ogni probabilità deriva dal sovraccarico del peso della massa muscolare su ossa non ancora attrezzate anatomicamente. Tra l’altro, poi, sono emerse anche patologie respiratorie causate, nei polli d’allevamento, dall’alto tasso di ammoniaca presente nella lettiera. Tuttavia, patologie delle vie respiratorie sono state individuate anche in un Broiler collocato in una struttura protetta e quindi non a contatto con gli alti tassi di ammoniaca: sono stati infatti rilevati chiari segni di polmonite e versamento di liquido in eccesso attorno al cuore, il che dà forza alla tesi secondo cui sarebbe appunto la linea genetica stessa a predisporre gli animali allo sviluppo di simili patologie con conseguente morte precoce.

Tali risultati rivelano, secondo Animal Equality, la contraddittorietà fra il Decreto Legislativo n.146 del 26 marzo 2001 – per la protezione degli animali negli allevamenti – e la reale condizione dei polli Broiler. All’articolo 2 del decreto, infatti, viene specificatamente richiesto agli allevatori di “adottare misure adeguate per garantire il benessere dei propri animali e affinché non vengano loro provocati dolore, sofferenze o lesioni inutili”: misure che, sostiene l’organizzazione, non possono essere applicate “in nessun contesto e in nessuna condizione ambientale, anche in quella più favorevole”. È proprio per questo quindi che Animal Equality ha lanciato una petizione, rivolta al Ministro per le Politiche Agricole e al Ministro per la Salute, per chiedere di supportare a livello europeo la messa la bando delle razze a rapido accrescimento nonché di disporre l’abbandono totale delle stesse in Italia. «I risultati dell’indagine rivelano che l’industria della carne di una delle razze più consumate al mondo si basa sulla sofferenza deliberatamente imposta dall’essere umano nei confronti di animali selezionati apposta per massimizzare i propri profitti a discapito della loro salute», ha sottolineato a tal proposito la direttrice esecutiva di Animal Equality Alice Trombetta, aggiungendo che «questo sistema nel 2022 è totalmente inaccettabile».

[di Raffaele De Luca]

L’Occidente ha un concetto del tutto strumentale dei crimini di guerra

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Il ministro degli esteri ucraino Dmytro Kuleba vorrebbe che fosse istituito un tribunale speciale per poter processare la Russia in seguito all’invasione dell’Ucraina. Kuleba avrebbe infatti affermato che la Russia si è macchiata di “crimini di aggressione” contro l’Ucraina, motivo per il quale andrebbe portata davanti ad un Tribunale internazionale. Un processo in stile Norimberga, come ha affermato l’ex premier inglese Gordon Brown, che ha appoggiato l’idea. Affermazioni del genere suscitano di certo una immediata eco politica e mediatica, ma la fattibilità è ancora tutta da verificare. Ciò che sta emergendo con maggiore forza in seguito allo scoppio del conflitto russo-ucraino è come le nozioni di “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità” siano usati in modo del tutto strumentale da parte degli Stati e delle istituzioni occidentali, andando a servire più gli interessi geopolitici che i criteri di giustizia.

Cerchiamo di essere chiari sin da subito: la guerra va ripudiata con ogni mezzo e in ogni caso, ed è giusto che qualcuno condanni Putin per le proprie azioni criminali. Tuttavia, il sentimento antirusso scaturito in seguito allo scoppio della guerra in Ucraina ha portato l’Occidente a calpestare alcuni dei propri principi fondamentali, quale per esempio la libertà di informazione (con la censura di diversi media russi). Nel contesto di caos e tripudio mediatico che ne è scaturito, inoltre, distinguere i fatti dalla propaganda diventa un’operazione ostica. Evocare il processo di Norimberga, in questo caso, ha sicuramente una eco mediatica e politica di rilievo. Riporta la mente all’atto conclusivo di un sanguinoso squarcio nella nostra storia contemporanea, una ferita che ha impiegato decenni a risanarsi e forse ancora non è guarita del tutto. La fattibilità di tale procedimento, tuttavia, è ancora tutta da verificare.

I crimini di guerra, contro l’umanità e il genocidio sono infatti di competenza della Corte Penale Internazionale (CPI), la quale ha potere complementare a quello degli Stati membri e ha sede a L’Aia. Nel giudicare tali crimini, la CPI ha giurisdizione limitatamente al territorio dei propri Stati membri anche nel caso in cui il crimine sia commesso da uno Stato non membro. Nè la Russia né l’Ucraina hanno mai ratificato lo Statuto su cui si basa la CPI e non ne sono quindi parte, tuttavia nel 2014 l’Ucraina è riuscita ad aggirare l’ostacolo attivando una procedura speciale prevista dallo stesso Statuto. Il problema della giurisdizione, in tal caso, potrebbe così essere aggirato, ma rimane il fatto che i processi presso la CPI non possano essere svolti in contumacia.

Nel 2018 a questi tre crimini è stato aggiunto quello di aggressione, ovvero “la pianificazione, la preparazione, l’inizio o l’esecuzione, da parte di una persona in grado di esercitare effettivamente il controllo o di dirigere l’azione politica o militare di uno Stato, di un atto di aggressione che per carattere, gravità e portata costituisce una manifesta violazione della Carta delle Nazioni Unite del 26 giugno 1945”. Per quanto riguarda questo tipo di reato, la CPI può intervenire solamente se a commettere l’aggressione è uno degli Stati membri. Per tale motivo, secondo l’analisi di ISPI, intervenire per i crimini di aggressione nel caso della Russia rimane di fatto impossibile anche tramite la riforma dell’impianto normativo, in ragione del principio della irretroattività. Il fatto che la CPI abbia deciso di istituire un’indagine è ad ogni modo un forte segno della volontà di far rispettare il diritto internazionale.

A questo punto, tuttavia, pare naturale porsi il quesito: in quante altre occasioni i crimini di guerra sono stati invece ignorati, proprio in virtù di giochi di forza geopolitici? Secondo alcune stime, le “vittime collaterali” dei raid americani nei principali teatri di guerra in Medio Oriente e Africa si avvicinerebbero a un minimo di 23 mila, numero che potenzialmente potrebbe anche raddoppiare. Tuttavia, a seguito delle pressioni da parte degli Stati Uniti, nel dicembre del 2021 la CPI ha annunciato di aver sospeso le indagini a carico dei soldati statunitensi per i crimini di guerra avvenuti nel contesto del conflitto in Afghanistan.

Lo ribadiamo: quanto sta accadendo in Ucraina è disumano e va condannato con forza. Ma proprio lo scoppio di questa guerra ha mostrato come la coscienza occidentale disponga di due pesi e due misure nel valutare l’impatto e la reazione a disgrazie di questo tipo. Pesi e misure che dipendono per lo più da criteri geopolitici di convenienza. Un’ipocrisia suggellata dalla decisione dell’Unione europea di qualche giorno fa di concedere due tipi di protezioni differenti ai profughi della guerra in Ucraina in base al tipo di passaporto del quale dispongono. Come a dire, per l’ennesima volta, che uguaglianza e diritti hanno validità solo sulla carta.

[di Valeria Casolaro]

Ucraina, media locali: 007 di Kiev uccidono un loro negoziatore accusato di tradimento

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Uno dei rappresentanti di Kiev al primo round di negoziati con Mosca sarebbe stato ucciso dai servizi segreti ucraini (Sbu): a riferirlo sono stati alcuni media locali tra cui il giornale Ukrainska Pravda, secondo cui l’uomo sarebbe stato ucciso durante un tentativo di arresto. Si tratterebbe, nello specifico, del banchiere Denis Kireev, sospettato di aver tradito l’Ucraina: la fonte citata dalla testata di Kiev, infatti, avrebbe riferito dell’esistenza di «forti prove» a sostegno di un tradimento da parte sua.

Ucraina: Paypal sospende i suoi servizi in Russia

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Paypal, la società statunitense che offre servizi di pagamento digitale e di trasferimento di denaro tramite Internet, ha deciso di sospendere tutti i suoi servizi in Russia a causa della situazione in Ucraina: a renderlo noto è stato il ministro della trasformazione digitale ucraino, Mykhailo Fedorov, che sul proprio profilo Twitter ha pubblicato una lettera inviatagli dal Ceo di Paypal Dan Schulman. Tramite la stessa, infatti, quest’ultimo ha informato Fedorov che, in virtù delle «circostanze attuali», Paypal «sta sospendendo i servizi in Russia». «Paypal sostiene il popolo ucraino e si schiera con la comunità internazionale nel condannare la violenta aggressione militare russa in Ucraina», si legge inoltre nella lettera.

Enrico Mattei, l’uomo che osò sfidare le multinazionali del petrolio

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Una delle migliori occasioni per far decollare l’Italia, dopo le macerie belliche, è andata letteralmente in fumo nel cielo basso e autunnale della provincia lombarda, all’alba degli anni ’60. Anno 1962, per la precisione, la sera del 27 ottobre. Sopra Bascapè, 1755 anime da ultimo censimento, campagne e fienili a oriente di Pavia, qualcuno vede un piccolo aereo precipitare ed esplodere, avvolto da fiamme e fuoco. Una picchiata, un gran botto e poi rottami dappertutto, tra i campi coltivati. Il bireattore che si è schiantato al suolo era una Morane-Saulnier 760, un velivolo francese, alla cloche un pilota d’eccezione, Irnerio Bertuzzi, ex ufficiale dell’Aeronautica pluridecorato. L’aereo era diretto a Linate, proveniente da Catania, a bordo c’era un giornalista americano, William McHale, e un altro passeggero, decisamente d’eccezione: Enrico Mattei

Talmente importante, che la versione dei fatti cambia dopo che si viene a sapere della sua presenza a bordo. Spariscono le testimonianze di chi ha visto l’aereo esplodere in volo, cominciano i non so e i non ricordo, l’aereo è arrivato a terra intero e si è disintegrato al suolo: c’è una bella differenza. La morte violenta di Enrico Mattei viene archiviata come un incidente aereo anche per l’Eni, che era nata una decina di anni prima proprio grazie a lui. 

Mattei è l’uomo dell’energia e delle risorse, l’uomo che aveva letteralmente fatto il pieno all’Italia, con estrazioni di metano e petrolio, e che la stava spingendo a correre come e meglio delle altre e a guardarsi nell’ombelico, nel cuore del Mediterraneo, per costruirsi un ruolo da protagonista nelle dinamiche antiche e sempre cruciali del Mare Nostrum. Uno che si era fatto da solo, quando i tamburi della Seconda Guerra mondiale erano ancora lontani, con poca voglia di studiare ma un talento innato per trattare, per fare accordi, per guardare lontano e vedere le strade giuste per arrivarci. Uno partito da fattorino e arrivato a sfidare le famose e famigerate Sette Sorelle, le grandi compagnie petrolifere americane che si spartivano l’oro nero e i suoi enormi profitti, le multinazionali in fondo sono sempre esistite anche se con declinazioni diverse, e non gradivano affatto di fare patti con uno come Mattei. O, peggio, di essere messe in un angolo dalla sua carismatica capacità di tenere il pallino e tirare dritto per la sua strada.

Enrico Mattei sull’aereo aziendale [fonte: archivio storico Eni]

Voleva rendere l’Italia energeticamente indipendente

Una grande, enorme occasione appunto per l’Italia che oltre al boom economico, avrebbe avuto con lui un capitano di impresa e un politico lungimirante ed ecumenico. Con la rapida apertura e conclusione dell’inchiesta sull’incidente di Bascapè, inizia infatti quello che viene tuttora definito il Caso Mattei. Uno dei segreti più grandi e cruciali che restano sepolti, in questo Paese, sotto una cortina di silenzi e ipotesi.

Ci sono state per la verità altre due indagini su quello strano incidente: la prima dal 1962 al 1966, affiancata dal lavoro di una commissione ministeriale che in Italia non manca mai e che ha concluso, indecisa, tra un guasto e un errore del pilota, nonostante fosse una specie di Barone Rosso. Il pm Santachiara arrivò a dare la colpa alla stanchezza di Bertuzzi, una leggenda dell’aria che si sarebbe affaticato nel breve tragitto dalla Sicilia alla Lombardia. La seconda inchiesta viene aperta nel 1994, dopo la stagione delle bombe mafiose a Firenze e Roma, dopo che pentiti da novanta come Buscetta ne parlano. Il sospetto che sulla morte di Mattei ci fosse la lunga mano della mafia, magari per conto terzi, c’era già da tempo. Forse da sempre. Il pm Vincenzo Calia mise insieme una colossale mole di documenti e carte, con 12 perizie e 614 testimoni sfilati in aula a deporre, 13 faldoni e 5000 pagine, fu anche riesumata la salma di Mattei per altri accertamenti, arrivando alla conclusione e all’ipotesi di un ordigno esploso a bordo dell’aereo. L’inchiesta fu comunque archiviata. Intervistato tre anni fa, il magistrato che da solo scavò quella voragine sotto ai piedi dei potenti dettò un epitaffio molto illuminante, sulla vita e sulla morte del padre dell’Eni: «Mattei si poneva come obiettivo l’autonomia energetica dell’Italia, la sua scomparsa azzerò quel progetto industriale e il nostro Paese tornò a dipendere dai grandi produttori internazionali». 

Enrico Mattei a colloquio con esponenti della Repubblica Popolare Cinese [fonte: archivio storico Eni]

Enormi intrecci politici ed economici

È stata però accertato e svelato l’intreccio che lega la fine di Mattei con la scomparsa di Mauro De Mauro, giornalista de “L’Ora” di Palermo che il 16 settembre 1970 su sequestrato da Cosa Nostra senza mai essere più ritrovato. Secondo i giudici della prima sezione della Corte di Assise di Palermo, la Cupola mafiosa tolse di mezzo il cronista perché si era avvicinato troppo al mistero dell’incidente aereo di otto anni prima. De Mauro stava infatti raccogliendo notizie sul fatto per conto del regista Francesco Rosi, alle prese con la realizzazione di un film sulla vita e la figura di Mattei che poi è uscito (nel 1972) con Gian Maria Volontè nei panni del protagonista. “La causa scatenante della decisione di procedere senza indugio al sequestro e all’uccisione di Mauro De Mauro fu costituita dal pericolo incombente che egli stesse per divulgare quanto aveva scoperto sulla natura dolosa delle cause dell’incidente aereo di Bascapè, violando un segreto fino ad allora rimasto impenetrabile e così mettendo a repentaglio l’impunità degli influenti personaggi che avevano ordito il complotto ai danni di Enrico Mattei, oltre a innescare una serie di effetti a catena di devastante impatto sugli equilibri politici e sull’immagine stessa delle istituzioni” scrivono i giudici siciliani nelle loro 2.199 pagine che ricostruiscono, insieme alla lupara bianca che ha fatto sparire De Mauro e con Totò Riina unico imputato (assolto), gli intrecci politici ed economici, con profili internazionali, e le oscure trame che si sono mosse dietro alla fine, o per meglio dire all’eliminazione, di Enrico Mattei.

Enrico Mattei in compagnia del presidente egiziano Nasser

Uno dei più grandi capitani d’industria di questo paese, ricordato prima di tutto per il suo celebre motto “non voglio essere ricco in un paese povero”. Primo di cinque figli, nato nel 1906 ad Acqualagna, provincia di Macerata, un padre brigadiere dei carabinieri e la mamma casalinga. Con le qualità ma con poca applicazione, tra i banchi di scuola, come si direbbe ora. Un bambino molto interessato al mondo dei grandi, una gavetta precoce tra la manifattura e l’ingresso in una conceria a Matelica: a 20 anni era già il responsabile. Poi il trasferimento a Milano dove mette in piedi una ditta di vernici con una ventina di operai, e la chiamata nel 1944, durante la Repubblica di Salò, nelle file della Resistenza. Il CLN gli affida un ruolo militare e col nome di battaglia di Marconi, prima nelle Marche e poi in Lombardia, si mette in luce. Proprio nell’Oltrepò pavese, non lontano da dove poi ha trovato la morte, ha creato un piccolo esercito di 65mila uomini, ne aveva ereditati 2000, portando nella Resistenza la sua anima democristiana: aveva prima militato nei partigiani Guelfi delle Marche. Il suo contributo alla causa finisce con l’onore di marciare in prima fila nel giorno della Liberazione di Milano, dopo aver conosciuto personaggi del calibro di Longo e Parri. Arriva una medaglia al valore e anche il tributo degli americani, che poi diventeranno suoi inesorabili avversari nella battaglia per il petrolio e per la sua gestione. 

Nel 1948 viene eletto deputato con la Democrazia Cristiana, Amintore Fanfani è uno dei suoi punti di riferimento insieme al sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, con cui condivide la visione “mediterranea” di un paese non subalterno nel clima da Guerra Fredda, ma appunto centrale nel teatro geopolitico ed economico del Mare Nostrum. A guerra finita viene incaricato di liquidare l’Agip, che era stata creata per la ricerca e l’estrazione del petrolio e aveva per questo strutture, uomini, mezzi e competenze. Nella sua lungimirante visione del futuro per l’Italia, Mattei aveva ben chiaro l’importanza dell’approvvigionamento di fonti di energia, un lasciapassare per un’economia forte, autosufficiente e libera da influenze e dipendenze altrui. Invece di liquidarla, infatti, il partigiano Mattei rilancia Agip e rispolvera la sua capacità estrattiva. Alla guida del “Cane a sei zampe” vengono scoperti diversi giacimenti di metano nella pianura padana, il progetto di Mattei era quello di creare con Agip e Snam il deposito italiano di petrolio e gas, carburante necessario per macinare chilometri nel futuro e mettere il paese nelle condizioni di sfruttare le proprie risorse, senza comprare quelle altrui (a prezzi esorbitanti, spesso).

Un distributore Agip in Sudan [fonte: archivio storico Eni]

La nascita dell’energia italiana negli anni del boom

Per costruire la rete di metanodotti necessari a portare nelle case degli italiani il gas che serviva per accendere il futuro del paese, l’animo di Mattei che in una persona sola è un imprenditore, un politico, un partigiano e un uomo molto pragmatico, inventa uno stratagemma degno di Richelieu. Fa scavare agli uomini Agip di notte, per posare i tubi delle condotte metanifere, e di giorno quando nei paesi e nelle località scoprono i buchi, si scusa con la cittadinanza da cui ottiene di poter ricoprire tutto, una volta finito i lavori, pur di ripristinare l’integrità delle strade. La rete del metano italiano è nata così, aggirando costi e tempi elefantiaci della burocrazia per ottenere le autorizzazioni. Dopo il metano è il turno del petrolio. Nel 1949, a Cortemaggiore, nella pancia dell’Emilia Romagna, viene scoperto un giacimento che non può certo bastare al bisogno italiano di greggio, ma che grazie a Mattei – che ha anche creato un quotidiano come il Giorno per avviare una narrazione del paese e dell’economia secondo i suoi obiettivi – diventa una specie di Dubai italiana, per l’epoca. Nasce il celeberrimo slogan “Supercortemaggiore, la potente benzina italiana”, Valletta inventa e costruisce con la Fiat la 500 per la quale ci vogliono 13 stipendi da operaio. L’Italia si avvia a iniziare il boom economico che deflagra un decennio dopo, ma ha bisogno appunto di tanta benzina.

Nel 1953 Mattei crea ENI – Ente Nazionale Idrocarburi – e ne diviene presidente. Sotto alla sua ala, una specie di cabina di regia per il settore energetico del paese, vengono raccolte Agip (petrolio), Snam (gas metano), Anic (chimica per l’agricoltura), Liquigas (gas liquefatto in bombole), Nuovo Pignone (attrezzature meccaniche per l’industria) e Romsa (raffineria di oli minerali). Soprattutto, per garantire all’Italia il fabbisogno di petrolio necessario ad alimentare il boom economico e consolidare la ricostruzione post bellica, Mattei va a cercare il petrolio dove ci sono i più grandi giacimenti del mondo, Nord Africa e Golfo Persico, stringendo accordi con i paesi in via di sviluppo ma anche con lo Scià di Persia. La sua formazione di politico democristiano, la sua abilità nelle trattative e il suo animo da visionario, lo porta a stringere accordi nuovi e molto promettenti: capisce che bisogna incentivare i produttori e gli lascia il 75% delle royalties, che con altri erano al 5%. 

Un uomo solo contro le multinazionali del petrolio

Gli altri, nemmeno a dirlo, sono i cartelli internazionali del settore, nel quale Mattei entra con l’impatto di un meteorite. Quelle che lui definisce argutamente le Sette sorelle, e che avevano fino ad allora il monopolio di produzione e distribuzione del carburante, la prendono molto male. Si tratta di Exxon, Shell, British Petroleum, Mobil, Chevron, Gulf e Texaco. A parte la Shell, olandese, e la British, britannica, le altre cinque erano tutte società statunitensi. Nel 1957, Mattei fu definito dagli americani qualcosa di molto simile ad un “pericoloso comunista”, visto che tra l’altro nel frattempo aveva preso le parti della resistenza algerina contro il colonialismo francese. Il padre dell’Eni mette in discussione il monopolio delle multinazionali del petrolio, butta all’aria gli equilibri politici creati dagli americani in Italia nel dopoguerra e tutto questo, secondo tutti, non poteva restare senza conseguenze. Un uomo solo contro alcune tra le più potenti lobby del mondo di allora e di oggi. Anche e soprattutto per questo, non sono ancora svanite le ombre dietro all’incidente di Bascapè: soprattutto, l’ombra dei 100 grammi di Compound B, l’esplosivo che secondo la perizia postuma era stato collocato nel cruscotto del bireattore per spezzare il volo di Enrico Mattei.

I resti del veivolo sul quale si trovava Enrico Mattei la sera del 27 ottobre 1962

[di Salvatore Maria Righi]

I miei 40 anni di insegnamento universitario, cercando di leggere i segni

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L’Università è il luogo dove si insegna a muoverci in un labirinto di segni. Ma come unire le curiosità intellettuali con i bisogni della vita? Il problema se lo era posto in questi termini Friedrich Nietzsche nel 1871 in una conferenza sull’avvenire delle scuole, cogliendo la contraddizione moderna tra idealismo e positivismo, tra una cultura “viziata, eterea”, lontana da una precisa finalità pratica e una cultura “servitrice del bisogno, del guadagno, della necessità”.

Non penso al Sessantotto, all’idea che l’Università dovesse essere soltanto statale, gratuita e per tutti, con voto positivo agli esami generalmente assicurato, e quindi col risultato inevitabile di un suo impoverimento, data l’incapacità di pensare, e realizzare, qualcosa di generale, equo e condiviso, di alto valore; penso all’Università degli ultimi decenni – alle facoltà umanistiche, quelle che conosco – appiattita su adempimenti burocratici di controllo e adeguamento quasi totalmente passivo alle esigenze del mercato e della produzione di beni e servizi. Una svolta che mi ha spinto a chiudere il mio rapporto di lavoro con cinque anni di anticipo.

L’Università dovrebbe invece intercettare i cambiamenti, ma anticipare i trend, fornire un’immagine insieme di avanguardia e di tradizione, di ottimizzazione dell’esistente e di tensione costante verso i processi di cambiamento, la fornitura di concetti e strumenti di base ravvivati da un sano confronto di idee, parametri e visioni. Ma adesso non aspettatevi nessuna analisi dei cosiddetti mali dell’Università, meno che mai del necessario equilibrio tra Università pubblica e privata, in discussione in Italia dalla legge Casati del 1859, né dell’autonomia degli atenei, delle carriere del personale docente, del numero chiuso per certe Facoltà con test di ingresso, né dei meccanismi di finanziamento o di reclutamento del personale.

In quarant’anni di insegnamento nell’Università, dal 1973 al 2013, ho capito che esiste un tabù nel territorio accademico, un tabù difficile da affrontare: nel mondo universitario è difficile, quasi impossibile, perfino proibito, parlare di contenuti (meno che mai, metterli in discussione). E poi vi sono altri due temi cruciali che io allora avvertivo, e che ora magari si presentano in modo differente: primo, la difficile conciliabilità tra esigenze della didattica ed esigenze della ricerca; secondo, la mancata regolare comunicazione tra mondo della docenza e mondo amministrativo degli atenei. Quindi mi prendo la libertà di parlare di contenuti, avendo avuto la fortuna di insegnare Semiologia generale (col nome poi di Semiotica), applicandola all’universo dei linguaggi e dei racconti, dei miti e delle fiabe, e infine della comunicazione, dei media, della televisione e anche del cinema, concludendo con la fondazione di una televisione universitaria, tra le prime in Europa, nel 2003, e con la direzione di un master di giornalismo, dove il mio personale undicesimo comandamento consisteva nella risposta a questa domanda dai pesanti risvolti etici: “Come affrontare, che cosa farsene del pensiero degli altri?

Ho vissuto una piccola rivoluzione, a partire dal 1986, all’Università di Torino dove un coraggioso e lungimirante professore di retorica classica, Adriano Pennacini, preside della Facoltà di Lettere e Filosofia, lanciò un nuovo indirizzo di studi che nel 1992 sarebbe approdato al corso di laurea in Scienze della Comunicazione, negli anni successivi la famigerata fabbrica di disoccupati, oggetto di svariate ironie anche nella cinematografia italiana. Un corso innovativo in cui le materie linguistiche affiancavano quelle sociologiche, quelle economiche le storiche, e anche l’informatica, un corso prima attivato a Torino, Siena, Salerno, e poi a Bologna e a Roma con il coinvolgimento decisivo di Umberto Eco e di Tullio De Mauro. Allora noi pochi docenti eravamo giustamente trascinati dall’entusiasmo, circondati dalla diffidenza dei colleghi ma con un seguito enorme di iscrizioni che ci avevano portato a dover tenere le lezioni nei grandi cinema della città davanti a un pubblico di centinaia di studenti.

La semiologia si godeva la sua aura provocatrice: anche con i miei corsi su Sherlock Holmes, sul simbolo della porta, sul doppio e il personaggio diviso, sulle strutture narrative nella fiaba e nella letteratura, sui fondamenti teorici apportati tra secondo Ottocento e primo Novecento dal filosofo pragmatista statunitense Charles S. Peirce e dal linguista ginevrino Ferdinand de Saussure, ma soprattutto con l’enorme influsso che aveva allora la Morfologia della fiaba del russo Vladimir Propp: testo scritto nel 1928, poi in quegli anni lanciato dall’antropologo francese Claude Lévi-Strauss, era sicuramente il saggio più venduto dall’editore Einaudi. Intanto Umberto Eco continuava a stupirci e incantarci con i suoi modi caleidoscopici, con i suoi ragionamenti incandescenti.

Molti di noi avevano vissuto un Sessantotto non soltanto di cortei, seminari autogestiti, scontri più o meno diplomatici, in un difficile periodo, gravato da forti conflitti sociali e anche dal terrorismo. C’erano, tra i nostri docenti, importanti linguisti e filologi italiani, come Gian Luigi Beccaria e D’Arco S. Avalle, Cesare Segre, Maria Corti, avevamo potuto incontrare e dialogare con i linguisti più importanti dell’epoca, primo fra tutti il grande Roman Jakobson che aveva introdotto negli studi il famoso modello delle funzioni linguistiche, mostrando i ruoli di mittente, destinatario, codice, canale, messaggio, contesto.

Dagli studi di Charles Peirce avevamo acquisito uno speciale modo di pensare ai processi di significazione e comunicazione scanditi in primità, secondità e terzità: e cioè l’impatto con i dati della esperienza, poi il confronto tra di loro e infine il necessario passaggio nella dimensione dell’interpretante, il livello più complesso in cui la comunicazione veniva trasformata in qualcos’altro, vale a dire nei segni più complessi atti alla comprensione e alla traduzione tra tutti gli attori che intervengono nello scambio comunicativo. Molte volte in questi giorni ho pensato che i processi di pace che si volessero avviare e gestire con negoziati dovrebbero avvalersi delle modalità pragmatiche di Peirce, integrandole se è il caso con la concezione dell’esperienza di cui ha parlato di John Dewey, dove si cerca di porre in equilibrio una certa visione generale delle cose con una congruente abilità organizzata di azione.

Sarebbero poi arrivati gli apporti scientifici al mondo semiotico da parte di Algirdas Greimas e Jurij M. Lotman, la significazione avrebbe investito l’intero orizzonte della produzione e gestione del senso, in tutte le più svariate attività, mostrando il legame tra orizzonte cognitivo, simbolico e discorsivo. Sino alla concezione di Lotman della semiosfera, dove la cultura non è più acquisizione di conoscenze ma consapevolezza e padronanza di valori, tradizioni, capacità di traduzione e adattamento, generazione di interdipendenze, superamento continuo di dati acquisiti.

Inevitabilmente ritengo la scuola e l’università i luoghi in cui si producono dialoghi, si moltiplicano le frontiere e si riducono i confini, in cui l’orizzonte formativo che si sta affrontando verrà inevitabilmente superato, e molto di quello che si sta imparando e vivendo diventerà insieme anacronistico e fondamentale. Come qualsiasi esperienza della vita che abbia senso, o che semplicemente lo cerchi.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]