martedì 16 Settembre 2025
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Bologna: 90 dipendenti licenziati con un messaggio su WhatsApp

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Il 31 dicembre oltre 90 dipendenti della XBT Logistica e Servizi hanno visto troncato il loro rapporto di lavoro con l’azienda tramite un messaggio Whatsapp. Si tratta di un’ennesimo caso di una pratica divenuta ormai scandalosamente comune tra le grandi aziende e che riporta l’attenzione sulla questione dei diritti e delle garanzie concessi ai lavoratori. Il messaggio, che peraltro comunicava l’interruzione di lavoro senza alcun tipo di preavviso e con effetto immediato, sembra anche voler insinuare che la situazione sia dovuta ad “errori” dei lavoratori, colpevoli di aver protestato per le condizioni lavorative cui erano sottoposti.

“Buongiorno a tutti vi comunico che con oggi 31 Dicembre 2021 termina la nostra collaborazione così come i vostri contratti”: così si è chiuso l’anno per oltre 90 operai impiegati presso l’Interporto di Bologna dalla XBT Logistica e Servizi, azienda di facciata della Zampieri Holding che aveva in appalto la lavorazione della merce per l’americana TNT/FedEX. Una situazione che ricorda tremendamente quanto già accaduto a 90 dipendenti del magazzino di Logista, sempre a Bologna. Come denuncia il sindacato SI Cobas Bologna, al danno recato agli operai si aggiunge la beffa della colpevolizzazione per quanto accaduto. “Il magazzino rimane chiuso questo a causa di tutte le vicende che conoscete bene e che hanno portato a questo risultato, errori fatti sicuramente da entrambe le parti“. Negli ultimi mesi del 2021 gli operai dell’Interporto avevano infatti protestato a più riprese per le indegne condizioni lavorative ai quali erano sottoposti dall’azienda. La colpa dei lavoratori sarebbe quindi, evidentemente, quella di aver protestate per chiedere migliori condizioni di lavoro. Come se non bastasse, a conclusione del messaggio vi è un pungente “Vi auguro buon anno”.

Il messaggio ricevuto dai lavoratori licenziati

Un’altra volta, i diritti dei lavoratori vengono calpestati e con essi anche le garanzie di tutela che dovrebbero loro essere assicurate. D’altronde, già con la decisione di bocciare l’emendamento alla Legge di Bilancio 2022 scritto dagli operai della GKN e dal senatore Mantero (Potere al Popolo), il Governo aveva mostrato scarsa volontà di impegno nel mettere in piedi iniziative che tutelassero concretamente i lavoratori da situazioni di questo tipo. E non si parla solo di “galateo del boia”, volendo usare la calzante espressione coniata dai lavoratori GKN per descrivere le modalità con le quali tali comunicazioni andrebbero fatte, ma di atti volti ad una tutela concreta che non si limitassero a misure assistenzialiste e insufficienti come l’integrazione salariale straordinaria.

“Una situazione che come Organizzazione Sindacale celermente abbiamo denunciato a tutti gli enti preposti” scrive SI Cobas. “Troppe deresponsabilizzazioni da chi deve supervisionare un settore come quello della Logistica che conta il 6% del Pil del Paese. Segnalazioni sono state fatte all’AUSL di Bologna, all’Ispettorato del Lavoro e alla Prefettura. Purtroppo totalmente assente è stato l’intervento da parte di chi, invece, dovrebe vigilare su illeciti e situazioni di irregolarità nella grande catena degli appalti e subappalti della logistica notturna all’Interporto di Bologna. Gli anni passano, cambiano apparentemente le Amministrazioni, cambiano le nomine, cambiano i toni e le promesse roboanti ma nulla cambia davvero“.

[di Valeria Casolaro]

Covid, la Campania chiude le scuole fino al 29 gennaio

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Braccio di ferro tra il Governo e il governatore della Campania De Luca, che ha firmato un’ordinanza che sancisce la chiusura di tutte le scuole dell’infanzia, elementari, medie e asili nido in tutta la regione fino al 29 gennaio. De Luca ha definito la decisione del Governo di riaprire le scuole il 10 gennaio “irresponsabile” e le misure adottate “demenziali e ingestibili”. In risposta, Palazzo Chigi ha comunicato che il Governo è pronto a impugnare l’ordinanza nel prossimo Consiglio dei Ministri del 13 gennaio. La deroga alle disposizioni dell’esecutivo è infatti possibile esclusivamente per le aree in zona rossa, mentre la Campania è al momento zona bianca.

I disordini in Kazakistan rivelano i retroscena sulle criptovalute

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Proteste e repressioni stanno mettendo a ferro e fuoco il Kazakistan: la Russia ha inviato il suo esercito per dare una mano a “ristabilire l’ordine” e i morti si contano a decine. I disordini sono nati in concomitanza con la rimozione definitiva dei limiti ai prezzi locali del GPL, cosa che ha portato immediatamente a un aumento dei costi del carburante e alla frustrazione frenetica del popolo, una frustrazione che, secondo il Cremlino, viene sovvenzionata da «forze esterne». Una possibilità non del tutto inverosimile, se si considera che il Paese è ricco di petrolio, terre rare, metalli e uranio. In tutto questo marasma, quasi risulta invisibile un elemento apparentemente secondario, a cui è facile non prestare attenzione, ma che da mesi si è insediato sul territorio, quello delle fabbriche di criptovalute.

Coloro interessati al Bitcoin lo avranno notato immediatamente, in questi giorni il valore della più nota moneta digitale ha subito una brutta fase di decrescita, un fenomeno che a ben vedere è anche legato all’infelice destino dei manifestanti kazaki. Con l’avvento delle sommosse, il Governo ha provveduto ad oscurare internet e, in un battibaleno, il 12-16% del potere computazionale del blockchain è scomparso dalla Rete, lasciando una voragine facilmente percepibile. Il Kazakistan è diventato una delle mete preferite dei “miner” da che la Cina ha bandito ogni attività legata alle criptovalute, i suoi numerosi giacimenti di carbone garantiscono costi energetici esigui, il che massimizza le opportunità di guadagno dei produttori di Bitcoin. La nazione si è guadagnato senza fatica il titolo di secondo produttore mondiale di valute digitali – a dominare sono attualmente gli USA -, con una produzione interna che ad agosto superava di poco il 18% dell’intera filiera.

Il black-out imposto dal Governo può aver forse danneggiato il Bitcoin, tuttavia è da evidenziare che il valore del conio virtuale fosse già autonomamente in discesa, una conseguenza al fatto che la Federal Reserve statunitense stia valutando se introdurre o meno nuovi regolamenti che limitino lo spazio di manovra del settore. In prospettiva, il crollo risulta tutto sommato contenuto e, anzi, dimostra più resilienza di quanto non evidenzi un’effettiva debolezza sistemica. Più che illuminare sul discorso finanziario, dunque, la questione kazaka offre uno spaccato sulla gestione delle miniere blockchain, una gestione la cui portata ci è solitamente nota solo tramite le stime degli osservatori esterni.

Le sanguinose repressioni ci rivelano empiricamente e per vie traverse che la nazione gestisca una fetta sostanziosa del settore e che lo faccia appoggiandosi su alcune delle centrali elettriche più inquinanti al mondo. Si parla di strutture che certamente hanno effetti deleteri sull’emissione di anidride carbonica, ma che hanno il vantaggio di garantire costi decisamente competitivi che, almeno momentaneamente, hanno attratto i minatori che hanno radicato le loro attività in Asia. Ancor prima dei disordini, Nur-Sultan era tuttavia una tappa temporanea per i miners: il Governo non era entusiasta delle loro operazioni non sempre legittime e già da tempo si discuteva di imporre divieti e normative, soprattutto visto che il consumo energetico della produzione di Bitcoin finiva con il privare di luce le città a causa di costanti sovraccarichi della rete elettrica.

Non è un caso dunque che 400 milioni di dollari di equipaggiamenti per il mining stiano già lasciando il Kazakistan per viaggiare verso gli Stati Uniti, nazione che sta progressivamente assumendo le sembianze di un giardino dell’Eden in formato blockchain. Allo stesso tempo, il costante nomadismo a cui è costretto forzatamente il settore sta delineando l’idea che la sopravvivenza e il benessere del Bitcoin non sia del tutto slegato dalla dimensione governativa. Anzi, il suo destino potrebbe sempre più legarsi ai poteri di stampo tradizionale, anche se non è ancora chiaro se saranno i Governi o i privati a vantare il ruolo dominante in questo genere di rapporto.

[di Walter Ferri]

Mali, truppe russe prendono il posto dei francesi

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Truppe di soldati russi si troverebbero a Timbuktu dal 6 gennaio per addestrare l’esercito maliano, dopo che la Francia aveva ritirato il proprio contingente dalla città poche settimane fa (pur mantenendo la propria presenza a Gao). Il dispiegamento di truppe russe in Mali segue quello in altre zone africane, in un tentativo di Mosca di recuperare influenza nel continente. Il 23 dicembre scorso numerose nazioni europee avevano criticato il dispiegamento di mercenari del gruppo Wagner sul territorio, ma il Mali aveva risposto che la presenza russa era frutto di accordi bilaterali tra i due Paesi. La situazione ha peggiorato le tensioni tra Francia e Mali, che accusa Parigi di non riuscire a controllare l’alto livello di violenza e di avere obiettivi nascosti dietro la propria presenza.

Il Messico conferma l’intenzione di offrire asilo politico a Julian Assange

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Lunedì scorso il Presidente messicano Andrés Manuel López Obrador ha ribadito di essere pronto ad offrire asilo nel proprio paese a Julian Assange, per il quale ha detto di aver chiesto la grazia all’ex presidente Donald Trump con una lettera- prima che il suo incarico finisse -. A suo dire, parole a cui il Messico non avrebbe mai ricevuto risposta.

«Sarebbe un segno di solidarietà, di fratellanza concedergli asilo nel Paese in cui Assange decide di vivere, compreso il Messico». Secondo Obrador se gli fosse concesso asilo in Messico, Assange non sarebbe in grado di interferire negli affari di altri paesi e non rappresenterebbe alcun tipo di minaccia. Ma al momento il segretario alle relazioni estere, Marcelo Ebrard, ha detto che potrebbe non essere possibile che questo accada per via di alcune procedure ancora irrisolte.

Obbligarlo a tornare in America significherebbe vederlo processato per un totale di 18 capi di imputazione, quelli che il Paese gli attribuisce per il rilascio da parte di WikiLeaks di documenti militari riservati. Significherebbe per lui rischiare una condanna fino a 157 anni, presumibilmente da scontare in prigioni di massima sicurezza. Una visione delle cose diversa da quella di molti sostenitori Assange, per i quali l’uomo è da considerare un eroe perseguitato dagli Stati Uniti per aver esposto le azioni illecite del Paese.

Il rischio che Assange debba affrontare tutto questo c’è. Proprio a dicembre l’Alta Corte di Londra ha ribaltato la sentenza che in primo grado aveva negato l’estradizione di Assange negli Stati Uniti. I giudici hanno infatti accolto il ricorso statunitense, “rassicurati” dalla promessa degli Usa di trattare i detenuti in egual modo nel rispetto dei diritti umani. Al momento si attende il probabile ricorso e il riesame della vicenda, ma la strada verso la libertà per il fondatore di Wikileaks appare del tutto in salita.

Juliane Assange si trova da oltre due anni e mezzo nella prigione di massima sicurezza HM Prison di Belmarsh, Londra. Nel 2006 aveva fondato la piattaforma WikiLeaks, che ha diffuso documenti coperti da segreto di Stato per denunciare comportamenti poco etici di governi e aziende. Nel 2010 la piattaforma ha diffuso un video, denominato Collateral Murder, che mostrava un attacco statunitense risalente al 2007 contro un gruppo di sospetti terroristi, rivelatisi poi essere civili e giornalisti dell’agenzia Reuters. Washington ha reagito alla diffusione di questo e altro materiale sostenendo che avrebbe messo in pericolo la vita di diverse persone, tra le quali informatori e personale delle zone di guerra. Assange è stato così accusato dal tribunale americano di cospirazione e spionaggio. Di recente è stato rivelato che la CIA (i servizi segreti statunitensi) nel 2017 elaborò dei piani per rapire o addirittura uccidere Assange.

Assange è stato trasferito in prigione quando l’Ecuador, dopo sette anni, gli ha revocato lo status di rifugiato politico. Stella Morris, compagna e legale di Assange, ha definito le sentenze degli ultimi mesi un «grave errore giudiziario» e ha dichiarato di voler far ricorso appena possibile.

Anche in Italia il Parlamento aveva votato una mozione per concedere ad Assange lo stato di rifugiato politico. Il risultato, però, parla da sé: 225 no, 137 astenuti e appena 22 voti favorevoli.

[di Gloria Ferrari]

NO

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‘No’ è il contrario di ‘Sì’ soltanto se ti fanno una domanda. Ma se non ti chiedono qualcosa, se non ricevi richieste, il NO è semplicemente non accettare, non approvare, il NO è non dire sì. Per il sì invece basta non far niente, basta accettare il naturale seguito degli eventi.

NO è non mangiare davanti alla tavola apparecchiata se non ti senti desiderato, NO è continuare a fare quello che hai sempre fatto, se sai che non hai danneggiato nessuno, NO è non cercare premi se hai compiuto il tuo dovere, NO è rifiutare medaglie se hai capito che vogliono annoverarti da qualche parte, NO è persistere nel non replicare, no comment, NO è rispondere a chi ti ordina anche se tu non hai una divisa, NO è decidere tu quando devi scegliere, non sentirti costretto a farlo. Non puoi dire di no al tempo che passa ma puoi dire di no a qualsiasi altra cosa, per rispettare te stesso, il tuo sesto senso, per non farti del male se non l’hai deciso tu.

Ma NO è soprattutto non danneggiare i deboli, NO è non sfruttare l’ignoranza, NO è non prevaricare, non volerti imporre soltanto perché puoi farlo. NO è dare aiuto a chi è in difficoltà anche se non te lo chiede. NO è la preghiera che rivolgiamo al Cielo perché non permetta certe cose. NO è l’ultima frontiera per credere nella libertà, per ammettere che essa sia ancora possibile, se non per noi almeno per altri.

Anche oggi è il tempo del NO. Ma decidi tu a che cosa.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

Cile, politica chiede stop a nuovi contratti minerari per estrazione litio

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In Cile i politici hanno chiesto di fermare i nuovi contratti per l’estrazione mineraria del litio, del quale il Paese è il secondo produttore al mondo. Si tratta di un minerale fondamentale per la produzione delle batterie delle auto elettriche, in forte incremento sui mercati globali, ma la cui estrazione costituisce un rischio ambientale e sociale. La gestione del litio sarà una delle questioni più spinose da affrontare per il governo del neoeletto Boric, in carica da metà marzo: l’impennata dei prezzi sui mercati globali potrebbe costituire fonte di importanti introiti per il Paese, ma l’estrazione comporta notevoli rischi per l’ecologia della zona e per le comunità indigene.

L’FDA dovrà rendere noti in fretta i dati sul vaccino Pfizer

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Un giudice federale ha respinto un’importante richiesta che la FDA aveva avanzato qualche mese fa riguardo ai vaccini. La Food And Drug Administration, infatti, aveva chiesto alla Corte di poter rendere noti i dati presentati da Pfizer per autorizzare il suo vaccino contro il Coronavirus con un ritmo di 500 pagine al mese. Il giudice ha invece ordinato loro di rendere pubbliche 55.000 pagine al mese. Ipotizzando che ci siano più di 300.000 pagine, significa che in circa otto mesi (o poco meno) il mondo avrà a disposizione i veri dati legati al vaccino.

Per la sentenza questa dovrebbe essere una delle massime priorità della FDA affinché tutto si svolga nella massima trasparenza e nel rispetto dell’interesse pubblico.

Per spiegare meglio la vicenda, facciamo un piccolo passo indietro. Come si legge nel documento ufficiale della corte del Distretto Settentrionale del Texas, infatti, la richiesta della FDA era quella di fornire le 329.000 pagine di documenti che Pfizer ha messo a disposizione di quest’ultima con un ritmo di 500 pagine al mese. Avrebbe significato vederne il rilascio intorno al 2076. Gli avvocati del Dipartimento di Giustizia (DOJ) – che rappresentano l’FDA–  avevano giustificato la richiesta sostenendo che fornire 500 pagine al mese sarebbe «coerente con i programmi di elaborazione inseriti dai tribunali di tutto il paese nei casi riguardanti il FOIA (Freedom of Information Act)».

Come avevamo già scritto, la richiesta della FDA ha fatto seguito ad una causa basata sul (FOIA)- la normativa che garantisce a chiunque il diritto di accesso alle informazioni detenute dalle pubbliche amministrazioni – ed intentata a settembre proprio con il fine di far rilasciare all’organo statunitense queste informazioni. A citare in giudizio la FDA è stata Public Health and Medical Professionals for Transparency, un’associazione composta da oltre 30 scienziati e professori di università, i quali ritengono che rilasciare tali dati aiuterebbe a rassicurare le persone che nutrono dubbi sui vaccini dimostrando che essi sono davvero sicuri ed efficaci.

[di Gloria Ferrari]

L’India si ribella ai colossi della moda usa e getta

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I fornitori di grandi case di moda non pagano il salario minimo ai propri lavoratori. Nello specifico, ciò che emerge dalla nuova indagine dell’organizzazione internazionale per i diritti dei lavorati WRC (Workers Rights Consortium), è la grave situazione dei dipendenti delle maison nello stato indiano del Karnataka. Sono più di 400.000 i lavoratori tessili in Karnataka che non ricevono il salario minimo legale dello stato dall’aprile 2020 e, per questo motivo, stanno letteralmente soffrendo la fame. Il Karnataka è una delle zone più importanti per l’industria dell’abbigliamento dell’India e ci sono migliaia di fabbriche con centinaia di migliaia di lavoratori. Ecco perché si parla del più grande furto salariale dell’industria della moda e fautori di questa insolenza sono i fornitori di enormi marchi padri della cosiddetta fast fashion come Zara, Nike, Puma, H&M, C&A, Tesco, Gap, Marks & Spencer. Come riporta The Guardian, secondo la stima del WRC l’importo totale dei salari non pagati finora supererebbe i 41 milioni di sterline (quasi 50 milioni di euro).

I moti del WRC hanno avuto inizio due anni fa, quando l’aumento annuo del costo della vita fino al salario minimo – VDA (indennità a carico variabile) – è arrivato a 417 rupie indiane (circa 5 euro). Era aprile del 2020. Tale supplemento non è mai stato riconosciuto ai dipendenti indiani, per un totale di 8.351 rupie (99,24 euro) previsti a dipendente, mai pagati. Eppure i marchi sono consapevoli del loro ruolo fondamentale per fermare un furto salariale tanto grave che poi è sinonimo di menefreghismo e di violazione dei diritti di un enorme numero di persone. Tuttora, i lavoratori si trovano in una situazione ingiusta e disumana e, a soffrirne di più (come si apprende secondo i dati e le testimonianze raccolte dal WRC) è la forza lavoro femminile. Quando si parla con i fornitori, questi si difendono dietro un decreto che sarebbe stato emesso poco dopo aprile 2020 dal Ministero del lavoro e dell’occupazione. Tale decreto sospenderebbe l’aumento del salario minimo proprio poco dopo la sua attuazione. Ci sarebbe ancora un reclamo presso i tribunali del Karnataka, a loro dire…ma in realtà, a settembre 2021, l’Alta Corte del Karnataka ha definito come illegale il decreto a cui si appigliano i fornitori, imponendo l’obbligo di dare ai lavoratori il salario minimo con tutti gli arretrati compresi, a prescindere da qualsiasi procedimento giudiziario.

Sempre secondo il WRC, l’unico settore industriale a non conformarsi all’ordine dell’Alta Corte sarebbe proprio quello dei fornitori di abbigliamento. Ma gli svariati marchi che acquistano capi dal Karnataka hanno dichiarato di avere avuto ragioni per credere che i loro fornitori rispettassero l’ordine dell’Alta Corte. Nonostante un attento e acceso lavoro di protesta da parte del WRC, ciò che poi appare nei fatti è che i marchi occidentali sembrano non intervenire, tantomeno adottare misure efficaci per dare inizio a un cambiamento. Oltre a dichiarazioni piene di speranza belle parole riportate dal The Guardian, le grandi aziende di moda non fanno abbastanza o, apparentemente, proprio “non fanno” per riconoscere un problema strutturale che non riguarda solo i salari “non pagati per intero” ma una filosofia di sfruttamento che dovrebbe risultare abolita da tempo.

[di Francesca Naima]

India, arrestato presunto creatore app per “vendere” donne musulmane

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In India è stato arrestato un uomo di 20 anni sospettato di aver creato un’app che simulava la vendita all’asta delle donne musulmane. Sull’applicazione, chiamata Bulla Bai (termine dispregiativo per indicare le donne musulmane), venivano pubblicate foto scattate senza consenso di donne che venivano poi messe virtualmente all’asta. Venivano prese di mira in particolare le giornaliste. In India si sta assistendo a un aumento dell’odio religioso e della violenza contro i musulmani da quando il primo ministro Modi è salito al potere. “È la terza volta che una cosa del genere succede nell’ultimo anno e mezzo” afferma una delle vittime, “Stanno lanciando un messaggio alla comunità musulmana e specialmente alle donne: state al vostro posto”.