In Florida diverse centinaia di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie abitazioni a causa di un’ondata di incendi alimentata dalla presenza di vegetazione morta nell’area. Lunedì 7 marzo sono andati distrutti circa 4.800 ettari di territorio, interessando principalmente la comunità di Panama City, nel nord della Florida. «La crescita della copertura nuvolosa, unita all’aumento dell’umidità, dovrebbero aiutare a far rientrare l’allarme» ha detto Joe Zwierzchowski, portavoce del Florida Forest Service. Attualmente non sono stati segnalati decessi.
Ucraina, prove di trattativa: Putin ufficializza le richieste per la pace
Ieri, 7 marzo, la Bielorussia ha ospitato il terzo round di colloqui Russia-Ucraina, ottenendo risultati scadenti. Le parti, molto lontane dal trovare un punto d’incontro, si sono dovute accontentare dello stabilire una quadra sull’istituzione di corridoi umanitari che consentiranno ai civili di abbandonare il Paese, un risultato che è messo a dura prova da un panorama bellico confuso, fatto di schermaglie che violano gli accordi e di mine antiuomo che nessuno degli eserciti osa rivendicare come proprie.
D’altronde risulta difficile per Kiev accettare le richieste del Cremlino, richieste che sono state pubblicamente formalizzate prima del confronto diplomatico. La Russia pretende che l’Ucraina si impegni a modificare la propria costituzione così da garantirsi neutrale – ovvero che si impegni formalmente a non avvicinarsi ad alcun blocco -, che riconosca la Crimea come russa e che conceda l’indipendenza alle aree separatiste del Donetsk e del Lugansk. Mosca disconosce o rinuncia quindi all’obiettivo che gli è stato attribuito sin dall’inizio dell’invasione: quello di voler sostituire l’Amministrazione ucraina con un’istituzione palesemente filo-russa.
Che il Presidente Vladimir Putin avesse in mente questi traguardi sin da subito o che li abbia ridimensionati a causa delle complicazioni belliche incontrate sul campo, poco importa, quel che importa è piuttosto che Mosca si stia mostrando maggiormente aperta all’idea di uscire dalla sua “operazione speciale” seguendo la via del dialogo. Nonostante la diplomazia stia assumendo forme locali, è impossibile non sottolineare che la possibilità di contrattazione di Kiev sia condizionata duramente dalle reazioni manifestate dall’Occidente intero. Ecco dunque che il Presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, si lancia ripetutamente in appelli provocatori diretti ai Paesi alleati, i quali vengono accusati di ignavia nel tentativo di promuovere una narrazione per cui l’eventuale caduta dell’Ucraina sarebbe da intendersi necessariamente come un segno di fatale debolezza da parte della NATO.
Non che sia difficile intessere una tale lettura dei fatti: non solo le ripercussioni minacciate da alcuni Governi occidentali sono ben più fiacche di quanto questi avevano inizialmente dato a intendere, ma anche sul frangente degli interventi commerciali si registrano opinioni estremamente divergenti, con la Germania che esorcizza l’idea che si possano recidere i rapporti energetici con Mosca. Da notare che Berlino è la più grande importatrice europea di gas russo, seguita dall’Italia. Allo stesso tempo, anche Putin si trova a dover gestire delle complicazioni parallele a quelle direttamente connesse al conflitto ucraino.
Seppure venga citata poco dalle notizie di massa, di vitale importanza è per esempio la situazione dell’Iran, Paese coinvolto nei tentativi di resurrezione dei patti per il nucleare. Proprio questo già traballante sforzo diplomatico potrebbe complicarsi ulteriormente, qualora gli Stati Uniti dovessero porre a Teheran un veto sulla vendita di uranio arricchito alla Russia, cosa che svilupperebbe conseguenze strategiche e politiche la cui portata è difficile da prevedere. Da osservare con attenzione sono anche le mosse della Cina, la quale, pur essendo pubblicamente vicina a Mosca, si trova nella difficile situazione di dover prendere una posizione su un’invasione che, nell’interpretazione russa, ha preso il via per garantire la sopravvivenza dei separatisti del Donbass. Beijing si è sempre fatta promotrice del mantenimento dell’integrità territoriale, della non interferenza negli affari interni delle nazioni estere, supportare con troppa enfasi le mosse del Cremlino andrebbe quindi a minare la credibilità delle sue posizioni.
Zelensky, dal canto suo, cerca di spingere per trovare un compromesso che non abbia il sapore della capitolazione, ben consapevole che le pressioni finanziarie esercitate dall’Occidente sulla Russia mostreranno la loro efficacia solamente nel tempo. I prossimi colloqui sono quindi previsti per il 10 marzo ad Antalya, Turchia, Paese che nonostante sia all’interno della NATO è noto per i suoi forti legami con la Russia. «Ankara non abbandonerà né Mosca né Kiev», aveva infatti annunciato a inizio mese il Presidente turco Recep Erdoğan.
[di Walter Ferri]
Il Governo italiano non trova un accordo sulla rimozione del Green Pass
Il Governo italiano non riesce ancora ad accordarsi su modalità e tempistiche di rimozione della certificazione sanitaria. Se infatti la Lega chiede la totale rimozione allo scadere dello stato di emergenza (il 31 marzo) e il Movimento 5 Stelle insiste per avere almeno un alleggerimento, queste posizioni incontrano il parere contrario del resto dei partiti di maggioranza. Intervistato dalla testata Il Tempo, il sottosegretario alla salute Silleri ha affermato di voler procedere in maniera graduale «ascoltando la scienza, valutando i dati epidemiologici e i suggerimenti del Cts».
La protesta di Ghedi: il paesino lombardo pieno di bombe nucleari americane
A una manciata di chilometri da Brescia si trova un comune di poche migliaia di anime, dove i venti di guerra tra Russia e Ucraina mettono la popolazione in allerta più che in ogni altro luogo d’Italia. Si tratta della cittadina di Ghedi, la cui base militare conserva circa una ventina di testate nucleari di proprietà statunitense. Per tale motivo la base (e l’intera cittadina) si trova in stato di preallarme dal giorno dell’esplosione del conflitto. Domenica 6 marzo qualche centinaio di persone si sono ritrovate al suo esterno, per chiedere la fine del conflitto la cui rapida escalation ha reso improvvisamente questo piccolo paese un obiettivo sensibile.
Sono appena 18 mila gli abitanti di Ghedi, una piccola cittadina a una ventina di chilometri da Brescia. Un minuscolo centro abitato, diventato improvvisamente obiettivo sensibile nel contesto della guerra tra Ucraina e Russia: si stima infatti che siano almeno una ventina le testate nucleari ospitate dalla base militare locale, che si vanno a sommare alle altre (una trentina) di Aviano, in provincia di Pordenone. Per questo motivo, domenica pomeriggio è stato organizzato un sit-in, durante il quale si è protestato contro una guerra di interessi economici, contro la censura mediatica e culturale, contro le ipocrite e discriminatorie politiche di accoglienza dei profughi e contro l’invio di armi in Ucraina.
Dalla base di Ghedi partirà infatti una parte delle armi che il Governo italiano, evitando abilmente il confronto con il Parlamento e con l’opinione pubblica, ha deciso di inviare in Ucraina. Lista peraltro secretata, della quale non è possibile conoscere con certezza il contenuto, anche se è certo che si tratti di armi pesanti e strumenti di guerra. Un modo di certo curioso di esportare la pace.
Secondo un report di Greenpeace, pubblicato nel dicembre 2020, nelle basi di Aviano e Ghedi sono custodite in tutto una quarantina di bombe. Nel caso di un eventuale attacco a queste basi, il fungo atomico generato potrebbe coinvolgere dalle 2 alle 10 milioni di persone, a seconda dell’intensità dei venti e dei tempi di intervento. L’Italia si configura (secondo le stime, poiché non esistono dati ufficiali al riguardo) il Paese che ha in custodia il maggior numero di testate nucleari di proprietà statunitense. In base agli accordi bilaterali stretti con gli Stati Uniti per la cosiddetta “condivisione nucleare”, i Paesi NATO sono tenuti a ospitare alcune delle testate nucleari e, in caso di esplosione di un conflitto, i cacciabombardieri sono tenuti a sganciare le bombe in caso di necessità. Per questo motivo si tengono esercitazioni anche in tempo di pace, come quella che si è svolta a Ghedi nell’ottobre del 2021. Tuttavia, questo in Italia avviene nonostante il nostro Paese abbia firmato e ratificato il Trattato di non proliferazione nucleare, con il quale si è impegnato per il disarmo e la non proliferazione nucleare.
L’esercitazione, dal nome Steadfast noon, è avvenuta contestualmente all’ammodernamento e all’ampliamento della base di Ghedi, dove sono ora custodite le bombe B61-12 di ultima generazione e dove verranno ospitati i nuovissimi cacciabombardieri F-35A adibiti al loro trasporto. L’operazione era stata definita dalla NATO volta a “garantire che il deterrente nucleare della NATO rimanga sicuro, protetto ed efficace”.
Come ricorda Angelo Mastandrea su L’Essenziale del 5 marzo, a Ghedi ha anche sede la fabbrica di bombe Rwm, che il governo Renzi nel 2016 aveva venduto nella quantità di 20 mila ordigni all’Arabia Saudita. L’esportazione è stata sospesa nel 2019 dal Governo Conte e definitivamente interrotta nel 2021 dopo che frammenti di quelle bombe sono stati ritrovati tra le macerie di un’abitazione in Yemen, dove una famiglia di sei persone è stata sterminata.
Dall’esplosione del conflitto in Ucraina, la base di Ghedi si trova in stato di preallarme. E, per il momento, il procedere del conflitto ed i suoi esiti rimangono ancora incerti.
[di Valeria Casolaro]
Sidney, 60 mila residenti evacuati per inondazioni
In Australia le gravi alluvioni delle ultime settimane non accennano a rallentare: circa 60 mila persone hanno ricevuto l’ordine di evacuazione a Sidney, mentre l’agenzia meteorologica ha preannunciato 48 ore difficili e diffuso l’allerta per la popolazione. Il totale delle vittime dall’inizio delle alluvioni è di 21 persone. Il portavoce dei servizi di emergenza ha definito il fenomeno “l’equivalente degli incendi dell’estate nera” del 2019-2020, uno dei peggiori disastri ambientali degli ultimi anni.
Russia, Cremlino: fine operazioni militari se Kiev accetta richieste
La Russia ha comunicato all’Ucraina che sarebbe pronta a fermare subito le operazioni militari nel caso in cui Kiev accettasse le richieste provenienti da Mosca: è ciò che avrebbe affermato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Reuters. In tal senso, avrebbe aggiunto Peskov, la Russia vorrebbe che l’Ucraina fermasse la sua attività militare, sancisse la neutralità all’interno della sua Costituzione e riconoscesse la Crimea come territorio russo nonché l’indipendenza delle Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk.
Vietato fare ragionamenti sull’Ucraina in Tv: il prof. Orsini finisce alla gogna
Durante un dibattito a La7, il professore Alessandro Orsini ha fornito un’analisi sulle tensioni attualmente in atto fra Russia e Ucraina. «Possiamo uscire da questo inferno soltanto se riconosciamo i nostri errori» ha affermato il docente, riferendosi all’Unione europea. Dopo aver condannato l’invasione voluta da Putin e attribuitogli la paternità della responsabilità militare, Alessandro Orsini ha fatto poi un’affermazione che, in un contesto di informazione che tende al senso unico, ha fatto scalpore: «La responsabilità politica di questa tragedia è principalmente dell’Unione europea. In primo luogo, perché questa era la guerra più prevedibile del mondo».
L’analisi continua poi su un parallelismo con la crisi missilistica di Cuba, fino a delineare uno schema di comportamenti che «va avanti da centinaia di anni e che accomuna tutte le grandi potenze», quello delle cosiddette “linee rosse” da non valicare. Ed è qui che Orsini pone l’accento per una seconda critica all’Unione europea, colpevole di non aver saputo o potuto imporre alcuna linea rossa all’interno del sistema internazionale. L’ideale, secondo il professore della Luiss, sarebbe stato «rifiutare drasticamente qualunque politica capace di mettere in pericolo la vita degli europei», riferendosi dunque alla possibilità di un’apertura della NATO a est. La reazione in studio è immediata: Federico Fubini (vicedirettore del Corriere della Sera) accusa Orsini di aver detto cose non vere, consigliandogli di «studiare meglio la storia». Il problema è che è Fubini a dire cose che non sono veritiere, come il fatto che gli Usa non abbiano mai attaccato Cuba, dimenticando la baia dei Porci e i numerosi tentati colpi di stato.
Lo scalpore non si ferma lì e la stessa Luiss decide di prendere posizione contro il suo professore attraverso un comunicato, dove si legge che l’istituto “reputa fondamentale che, soprattutto chi ha responsabilità di centri di eccellenza come l’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale, debba attenersi scrupolosamente al rigore scientifico dei fatti e dell’evidenza storica”, cosa che ha fatto Orsini, condannando sì l’azione di Putin ma allo stesso tempo estendendo l’analisi al ruolo ricoperto dall’Unione europea, fino ad ora un vero e proprio taboo nella comunicazione mainstream. Questa condanna rientra nella serie di prese di posizione di diversi istituti avvenute nei giorni scorsi, a partire dalla Bicocca di Milano che ha deciso di cancellare, tornando poi sui propri passi, il corso patrocinato da Paolo Nori su Fëdor Michajlovič Dostoevskij, evidentemente considerato dall’università come destabilizzante, “a causa del momento di forte tensione attuale”.
Siamo di fronte a tanti piccoli tasselli che, congiungendosi, spingono a riflettere sulla qualità della libertà di espressione nel nostro Paese: non si tratta di condividere, o meno, il punto di vista di chi parla. Si tratta di garantire una certa tranquillità nell’espressione, libera da qualsiasi influenza o preoccupazione esterna, sacra in un Paese democratico. Senza che un esperto, o qualsiasi persona, debba temere ripercussioni sulla propria carriera lavorativa nel momento in cui avanza, supportando con ragionamento logico e dati, analisi diverse da quelle dominanti.
[Di Salvatore Toscano]
Covid: l’impatto trascurato delle restrizioni sulle persone con disabilità
L’emergenza sanitaria degli ultimi due anni ha fatto affiorare innumerevoli problematiche in numerosi ambiti: tra queste, però, ve ne è una generalmente trascurata dal grosso dell’informazione mainstream, ovverosia l’impatto negativo che le restrizioni anti Covid hanno avuto sulle persone con disabilità. Infatti, come dimostrato da studi, indagini e testimonianze, le difficoltà legate a tale mondo si sono acuite in maniera importante nel biennio pandemico, che si è dimostrato essere altamente dannoso per la stabilità fisica e psicologica delle persone con disabilità.
A tal proposito, da uno studio pubblicato sulla rivista Rehabilitation Psychology è emerso che le persone con disabilità hanno sperimentato alti livelli di depressione ed ansia durante la pandemia. Nello specifico, tutto è partito dal fatto che gli studiosi hanno cercato di identificare quali condizioni costituissero un campanello d’allarme per lo sviluppo di tali disturbi tra “gli statunitensi adulti con disabilità durante la pandemia”: sono quindi state esaminate le risposte, raccolte tra ottobre e dicembre 2020, di 441 persone con disabilità ad un test autovalutativo sulla presenza di malattie come depressione ed ansia, e la conclusione cui gli studiosi sono arrivati è stata quella secondo cui il 61% dei partecipanti “soddisfacesse i criteri per un probabile disturbo depressivo maggiore” mentre il 50% per un probabile “disturbo d’ansia generalizzato” e che il principale campanello d’allarme fosse rappresentato dall’isolamento sociale. Si tratta , come sottolineato dalla coautrice Kathleen Bogart, di percentuali molto più alte di quelle riportate nel periodo pre-pandemico: per rendere l’idea, precedenti ricerche avevano rilevato che a circa il 22% delle persone con disabilità venisse diagnosticata la depressione nell’arco della loro vita.
Non si può non citare, poi, un altro studio – o meglio un’indagine scientifica – pubblicata sulla rivista Disability and Health Journal ed avente ad oggetto gli effetti negativi delle restrizioni non solo sulla salute mentale ma anche sull’attività fisica di bambini e giovani con disabilità fisiche e/o intellettive. Per permettere ai ricercatori di condurla, tra giugno e luglio 2020 i genitori/tutori dei soggetti con disabilità del Regno Unito hanno potuto compilare volontariamente un sondaggio per conto dei propri figli, rispondendo a domande sul modo in cui, tra l’altro, i loro livelli di attività fisica e la loro salute mentale fossero cambiati durante il lockdown rispetto al periodo pre-pandemico. “In generale gli intervistati hanno riportato gli effetti negativi delle restrizioni di blocco – si legge nell’indagine – con il 61% che ha segnalato una riduzione dei livelli di attività fisica ed oltre il 90% che ha riportato un impatto negativo sulla salute mentale”, tra cui un peggioramento comportamentale ed umorale nonché una “regressione sociale e nell’apprendimento”. Molti intervistati, inoltre, hanno “citato la mancanza di accesso a strutture specialistiche, terapie ed attrezzature come ragioni di ciò e hanno espresso preoccupazione per gli effetti a lungo termine di questa mancanza di accesso sulla salute mentale e fisica dei figli”.
Proprio a tal proposito, con l’obiettivo di capire in che misura tutto questo abbia interessato i territori italiani abbiamo intervistato la dottoressa Paola Landi – neurologa presso l’Azienda sanitaria locale (Asl) di Salerno, dove si occupa anche di riabilitazione, nonché consigliera comunale della propria cittadina – che ci ha fornito una testimonianza socio-sanitaria sulle problematiche verificatesi sul suo territorio. «Il lockdown ha generato difficoltà per le disabilità motorie e ancor più per quelle psichiche: riguardo le prime, infatti, si sono osservati dei temporanei peggioramenti dovuti al fatto che quasi tutti i trattamenti riabilitativi sono stati per un breve periodo sospesi, mentre per le seconde si sono visti peggioramenti in gran parte comportamentali legati non solo alla sospensione di durata maggiore dei trattamenti riabilitativi ma anche e soprattutto alla riduzione di contatti col mondo esterno ed alla conseguente perdita di abitudini quotidiane e di stimoli». «Appena è stato possibile i trattamenti riabilitativi individuali sono ripresi con le precauzioni necessarie, ma la sospensione delle attività di gruppo è durata più a lungo», ha precisato la dottoressa, sottolineando che per questo motivo «si è cercato di mantenere dei contatti online per evitare l’isolamento totale, ma nonostante ciò quando vi è stata la ripresa completa delle attività gli operatori hanno dovuto fare i conti con problemi psicologici acuiti».
La dottoressa infine, in qualità di consigliera comunale, ha potuto anche testimoniare le «tante richieste di aiuto» inviate durante il primo lockdown al comune della propria cittadina dalle famiglie delle persone disabili, che hanno appunto dovuto gestire situazioni più complesse legate alla chiusura. «Il comune ha per tale ragione deciso in quel periodo di rilasciare permessi di uscita in determinate zone alle persone con disabilità accompagnate da un familiare nonché di favorire, con l’ausilio di professionisti del settore, attività on line di arte, danza e supporto psicologico di gruppo», ha concluso la dottoressa.














