Un medico haitiano 63enne, Christian Emmanuel Sanon, è stato arrestato poiché si sospetta che egli sia la “mente” dell’omicidio del presidente Jovenal Moise, ucciso la settimana scorsa all’interno della sua abitazione da un commando. A riferirlo è stata la polizia di Haiti, la quale ha fatto sapere di ritenere che l’uomo avesse obiettivi politici ed ha aggiunto che lo scopo della missione fosse quello di arrestare Moise, ma «essa è poi cambiata». Sanon viveva negli Stati Uniti e di recente era tornato a Port au Prince, la capitale di Haiti, con l’obiettivo di diventare presidente.
Tra sogni, bombe, speranze e paura: vi racconto cosa significa vivere a Gaza
Gaza City è una piccola città. 450.000 anime che abitano un’area sovrappopolata piena di vita e palazzi, in un’area grande meno di un terzo di Bologna. Una piccola città della quale in occidente sentite parlare solo quando l’aviazione israeliana ci bombarda, cosa che purtroppo accade abbastanza spesso. Io invece la abito tutti i giorni, e voglio raccontarvi cosa significa essere palestinesi di Gaza, perché non credo che i vostri media ve lo raccontino molto bene. Vi parlerò degli ultimi bombardamenti che tra il 10 e il 21 maggio hanno causato 250 morti tra cui 66 bambini. Perché credo che neppure questo vi sia stato raccontato bene, non fosse altro perché quando iniziano i bombardamenti i giornalisti fuggono da Gaza. Ma vi racconterò anche cosa significa vivere la vita di ogni giorno a Gaza. In particolare cosa significa – visto che è il mio caso – essere una giovane donna, madre e studentessa, palestinese di Gaza.
Come madre, mi preoccupo e temo per i miei figli, per i loro sogni e il loro futuro minacciato. Auguro loro un futuro inaspettato e di non vivere come me l’ansia psicologica, i problemi e la mancanza di libertà di movimento. Come ragazza, affronto la paura che i miei bisogni non siano soddisfatti a causa della mancanza di lavoro, della difficoltà di muovermi e di poter affrontare le esigenze quotidiane di base.
Come studentessa, sto affrontando i problemi della didattica a distanza dopo la pandemia, in una città dove la corrente manca per lunghe ore e la connessione va e viene.

I ricordi di Gaza
Il mondo che pretende ovunque democrazia ed alza la voce per essa diventa incomprensibilmente cieco, sordo e muto di fronte a quanto avviene in Palestina. Lo abbiamo visto durante tutte le operazioni militari condotte da Israele sul nostro territorio: nel 2008, nel 2012, nel 2014 e di nuovo nel 2021.
L’aggressione israeliana che ha preso di mira la Striscia di Gaza è durata undici giorni, senza che i suoi abitanti abbiano goduto di una sola ora di calma, sia durante il giorno che durante la notte. Non un’ora è passata senza il frastuono delle bombe, delle urla e delle ambulanze. 11 notti prive di sonno, trascorse nell’angoscia. 11 giorni durante i quali la macchina da guerra dell’occupazione ha commesso un crimine dopo l’altro, il più orribile dei quali è stato il massacro di Al Wahda Street, dove sono stati uccisi decine di civili che credevano di essere al sicuro nelle loro case.

Non credo che chi è abituato a vivere nella pace possa immaginare cosa significhi vivere sotto i bombardamenti. L’attesa, la paura, l’angoscia che passa dal momento in cui viene lanciato l’avvertimento al momento – che può essere anche diverse ore dopo – in cui effettivamente il bombardamento avviene. Perché è così che avvengono gli attacchi israeliani: prima lanciano dei missili di avvertimento che segnalano alla popolazione l’obiettivo che intendono colpire. Chi abita vicino, se riesce a non farsi bloccare dal panico – e vi assicuro che e non è semplice – cerca di raccogliere l’essenziale ed allontanarsi il prima possibile verso un riparo di fortuna. Attendendo nell’angoscia che arrivino i veri missili a colpire l’obiettivo e sperando di trovare ancora la propria casa al ritorno. Tra i colpi di avvertimento e il bombardamento vero e proprio possono passare diverse ore. Chi ci bombarda conosce i meccanismi psicologici che si scatenano nell’attesa di un attacco annunciato, e li utilizza.
Un diffuso senso di panico
Cinque interminabili ore sono trascorse dai colpi di avvertimento alla distruzione della grande Torre Jawhara nel mezzo del quartiere Rimal. Il missile di avvertimento alle dieci di sera, ancora due missili di avvertimento due ore dopo, poi seguiti da quattro missili distruttivi che hanno scosso l’intero quartiere per dieci minuti, lasciando l’edificio sventrato seppur ancora in piedi.

Alle prime ore dell’alba dell’ultimo giorno del mese di Ramadan, meno di quattro ore dopo il bombardamento della torre Al-Jawhara, la città è stata svegliata dalle esplosioni senza precedenti del bombardamento della zona di Jawazat, nel pieno centro di Gaza City. Per tutto il giorno – che per noi è un giorno speciale, perché è appunto l’ultimo del mese sacro del Ramadan e andrebbe trascorso preparando l’Eid, ovvero la festa della fine del digiuno – si sono susseguiti bombardamenti senza sosta. Fino al tardo pomeriggio, quando è stata colpita e distrutta la torre Al-Shorouk , quella che ospita media e giornalisti. Come si dice, la prima vittima di ogni guerra è sempre la verità e Israele ha colpito chi poteva raccontarla.

Non sempre in guerra, ma mai in pace
Non mi interessava parlare della morte. Ne vedo troppa. Ma dovete sapere che dietro ognuno di questi attacchi che vi ho raccontato un po’ meccanicamente vi sono decine di vite spezzate, centinaia di feriti. E le vittime spesso sono bambini, colpiti mentre corrono e giocano troppo vicini agli obiettivi dell’esercito israeliano. Essere una madre a Gaza significa conoscere ogni possibile sfumatura dei sentimenti di terrore, ansia, confusione e panico.
Essere una madre a Gaza significa anche conoscere la gioia delle piccole cose. Ad esempio la gioia di un bambino che balla di felicità perché dopo otto ore è tornata la luce o perché, dopo aver vinto la paura, gli permetti di scendere di nuovo in strada a giocare con la palla. Molti dei diritti più semplici, quelli che si chiamano diritti umani inalienabili, a Gaza non sono certi.
I diritti di base negati: acqua, cibo, salute
A Gaza sono poche le cose che funzionano. Il sistema sanitario pubblico ad esempio è in gravi difficoltà. I governi di Israele e dell’Egitto che bloccano l’arrivo dei materiali, l’Autorità Palestinese in Cisgiordania che ha ridotto le spese sanitarie ed è dilaniata da conflitti interni, ed anche Hamas. Tutti hanno un parte di colpa. Le Nazioni Unite forniscono assistenza operando in 22 strutture sanitarie, ma un certo numero di sono state danneggiate o distrutte nei precedenti conflitti con Israele. I pazienti di Gaza che richiedono cure specialistiche devono recarsi negli ospedali della Cisgiordania o di Gerusalemme Est, ma per farlo devono prima ottenere l’approvazione dell’Autorità Palestinese per le loro domande e poi l’approvazione del governo israeliano per i permessi di uscita. Una burocrazia che costa molte vite. Nel 2019, il tasso di approvazione delle richieste dei pazienti di lasciare la Striscia di Gaza è stato del 65%. Significa che più di una persona su tre è stata lasciata senza cure.

Se vogliamo invece parlare dell’alimentazione, nella Striscia di Gaza funziona così. Più di un milione di persone sono state classificate affette “da moderata o grave insicurezza alimentare“, secondo le Nazioni Unite. Solitamente arrivano aiuti umanitari che permettono a tutti di mangiare quanto serve, i valichi di frontiera sono aperti al passaggio dei convogli per gli aiuti, ma quando ci sono i bombardamenti le consegne sono talvolta interrotte.
Inoltre le restrizioni israeliane all’accesso ai terreni agricoli e alla pesca hanno ridotto la quantità di cibo che i gazawi possono produrre da soli. Ogni giorno i nostri pescatori rischiano di essere colpiti dalla marina militare israeliana se si avvicinano troppo al limite di sei miglia marittime che gli è stato concesso.
La maggior parte della popolazione di Gaza soffre di una carenza d’acqua, quella del rubinetto è salata, inquinata e inadatta a essere bevuta. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stabilito un requisito minimo giornaliero di 100 litri d’acqua per persona per coprire le necessità di bere, lavarsi, cucinare e fare il bagno. Il consumo medio a Gaza è di circa 88 litri. I servizi igienici sono un altro problema. Anche se il 78% delle famiglie sono collegate alle reti fognarie pubbliche, gli impianti di trattamento sono sovraccarichi. Secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, più di 100 milioni di litri di liquami grezzi e parzialmente trattati si riversano ogni giorno nel mare.

Anche a Gaza la vita è bella
Ad ogni modo non vi voglio parlare solo di cose brutte. A Gaza la vita è bella. Forse siamo troppi, nel senso che siamo una delle zone più sovrappopolate del pianeta e lo spazio per ognuno non è tanto. Ma noi gazawi siamo in gran parte giovani: il 65% della popolazione ha meno di 25 anni, e facciamo del nostro meglio per migliorare le cose. A Gaza ci sono tante associazioni nate dal basso che cercano di rendere la città un posto migliore, con l’arte, la fotografia, la musica, l’aiuto verso gli altri. A Gaza ci sono anche molti luoghi ricreativi dove passare il tempo in modo positivo, dei cinema e dei ristoranti niente male. E poi a Gaza c’è anche il mare, e a noi piace andare al mare. Guardandolo si può vedere l’orizzonte e si può provare a ripulire l’anima dai pensieri bui. Ah dimenticavo, il nostro mare è lo stesso di voi italiani: il mare Mediterraneo. Noi sentiamo molto il fatto di essere un popolo del Mediterraneo e ci sentiamo legati a tutti gli altri popoli mediterranei, e voi?
[di Deema Jad]
G20 Venezia: i manifestanti cercano di irrompere nella zona rossa
Prosegue la giornata di proteste contro il G20 dei ministri dell’economia e dei banchieri centrali a Venezia. Dal corteo principale uno spezzone si è staccato cercando di raggiungere e violare la zona rossa imposta a protezione del meeting globale, ma è stato fermato dalla carica della polizia. Secondo quanto riferito dal media di movimento Global Project si contano diversi feriti e un manifestante è stato fermato.
G20: Venezia blindata vive da giorni in ostaggio dei grandi dell’economia
Una Venezia blindata, militarizzata e con gli spostamenti controllati e ridotti al minimo sta accogliendo il G20 dell’economia. L’intera area dell’Arsenale, 48 ettari all’estremità orientale del centro storico, è stata trasformata in “zona rossa”. Qui i ministri dell’Economia e i direttori delle banche centrali dei 20 paesi più industrializzati tengono i loro meeting protetti da ogni possibile manifestazione di dissenso.
Già nei giorni scorsi sono stati installati cancelli per bloccare calle e vie d’accesso ai non addetti ai lavori. Inoltre, c’è stato un forte aumento della presenza delle forze dell’ordine, e motoscafi ed elicotteri stanno monitorando la situazione. È anche stata vietata la navigazione e sono stati bloccati i vaporetti in alcuni canali. Oltre a questo, come previsto da un’ordinanza del Comune sono state sospese dal primo fino all’11 luglio le concessioni degli spazi acquei di 12 rii e canali e sono stati forniti, ai soggetti a cui è stata sospesa la concessione acquea, dei posti barca presso le darsene ubicate nell’isola della Certosa e nella Marina di Sant’Elena. Infine, ad ogni partenza o arrivo dei componenti del G20 viene impedito l’accesso al transito acqueo: su alcuni giornali locali infatti si legge che mercoledì mattina si era formato un «cordone di barche ferme tra l’Accademia e Ca’ Rezzonico».
I cittadini si sfogano sui social: «Sembra di essere in un regime dittatoriale», afferma un utente, mentre un altro si lamenta per «un elicottero che ronza per ore e ore sopra la testa». Inoltre, vi sono anche testimonianze di quanto riportato da alcune testate, ossia il fatto che residenti e frontisti devono munirsi di un pass per potersi muovere nella zona rossa. Ma le proteste non sono solo virtuali: nella giornata di oggi vi sarà una mobilitazione contro il meeting, con un presidio di attivisti che si riunirà in riva delle Zattere dietro lo slogan «Noi siamo una marea, voi solo (G)20!».
[di Raffaele De Luca]
Honduras: 5 arresti per linciaggio e uccisione dell’italiano Giorgio Scanu
Almeno 5 persone sono state arrestate dalla polizia dell’Honduras in quanto sospettate di aver preso parte al linciaggio e all’uccisione dell’italiano Giorgio Scanu. Esso, verificatosi giovedì scorso a Santa Ana de Yusquare, nel sud del Paese centroamericano, ha coinvolto circa 600 persone armate di machete, bastoni e pietre, che accusavano l’italiano di aver pestato a morte un anziano vicino di casa. A comunicare gli arresti in questione è stato il governo di Tegucigalpa, il quale nella giornata di oggi ha fatto sapere che gli arrestati sono stati prelevati ieri dalla polizia.
Indonesia: scossa terremoto di magnitudo 6.2
Una scossa sismica di magnitudo 6.2 si è verificata al largo delle coste dell’Indonesia alle 9.43 ora locale (le 2.43 in italia). Nello specifico, in base ai dati dell’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv) italiano e del servizio di monitoraggio geologico statunitense (Usgs), la scossa ha avuto ipocentro a circa 70 km di profondità ed epicentro nel nord del mare delle Molucche. Al momento, però, non sono stati segnalati danni a persone o cose e non è stato annunciato alcun pericolo di tsunami.
Golfo del Messico, enormi quantità di scarti tossici riversati in mare per estrarre petrolio
Da un decennio a questa parte, l’estrazione di petrolio e gas nel Golfo del Messico ha interessato almeno 3.000 siti. 760 i casi di acidificazione di pozzi offshore e almeno 250 milioni i litri di rifiuti derivanti dalle operazioni e scaricati in mare. È quanto ha svelato il rapporto Toxic Water redatto dal Centro per la Diversità biologica. Questi scarti tossici, in particolare, derivano dal fracking – il processo di fratturazione idraulica sfruttato per facilitare l’estrazione degli idrocarburi – e dalle operazioni di stimolazione del giacimento mediante impiego di acidificanti. I prodotti chimici quali biocidi, polimeri e solventi, utilizzati in entrambi i casi e rinvenuti nelle acque del Golfo, sono associati a rischi significativi per la salute sia per l’uomo che per la fauna selvatica. Formaldeide, metanolo, naftalene, sono solo alcune delle sostanze cancerogene e mutagene provenienti dalle acque reflue rilasciate al largo delle coste federali di Alabama, Mississippi, Louisiana e Texas.
Dal 2010 ad oggi il governo degli Stati Uniti, solo nel Golfo del Messico, ha approvato quindi migliaia di estrazioni inquinanti, senza alcuna supervisione o revisione ambientale significativa. Anzi, l’Agenzia per la protezione dell’ambiente statunitense consente alle aziende di scaricare nel Golfo quantità illimitate di acque reflue di fracking. Considerando che ogni singola operazione genera oltre 80 mila litri di rifiuti, stiamo parlando di una vera e propria devastazione ecologica e sociale legittimata. Uno studio – cita il documento – ha ad esempio valutato la tossicità di 1.021 sostanze chimiche impiegate nella fratturazione idraulica ed ha evidenziato che per il 76% di queste mancano informazioni sugli effetti sulla salute umana e, per le restanti 240 sostanze, è stata dimostrata una tossicità riproduttiva nel 43% dei campioni, una tossicità per lo sviluppo nel 40% ed entrambe nel 17%. Ma le ripercussioni sulla salute umana, nonché i danni appurati per l’ecosistema e gli organismi acquatici, sono solo quelli più diretti. Queste tecniche estreme di estrazione di petrolio e gas danneggiano anche il turismo e la pesca, che creano circa 2,85 milioni di posti di lavoro: più di 10 volte le occupazioni create dall’industria dei combustibili fossili nel Golfo del Messico.
Non vi è dubbio che queste operazioni, alla luce degli impatti sociali, economici ed ecologici, andrebbero vietate o, come minimo, regolamentate. «Il fracking offshore – ha commentato Miyoko Sakashita, direttore del programma oceani presso il Centro – minaccia le comunità del Golfo e la fauna selvatica molto più di quanto il nostro governo abbia riconosciuto. Un decennio dopo il boom del settore, i suoi impatti sulla salute pubblica non sono ancora stati studiati adeguatamente. Il fallimento nel frenare questa importante fonte di inquinamento è inaccettabile». Infatti, se al settore dell’industria fossile, già di per sé responsabile a pieno titolo della crisi climatica, sommiamo l’inquinamento chimico e la devastazione ambientale collaterali, è evidente come una transizione energetica sia quanto mai impellente.
[di Simone Valeri]
L’UE, sotto pressione estera, cede sulla privacy digitale
L’Unione Europea si fregia da sempre del titolo di baluardo nella difesa della privacy dei propri cittadini, una narrazione certamente fondata su fatti concreti, ma che si trova frequentemente a imbattersi in contrattempi di diversa natura. L’ultimo dosso affrontato dalla Commissione UE è stato quello del decidere come tutelare la riservatezza degli europei senza dover cedere alla lotta contro la circolazione del materiale pedopornografico; la soluzione approvata martedì è lungi dall’essere soddisfacente.
La questione presa in analisi è elementare: molti social si stanno muovendo verso la crittografia dei messaggi inviati dai propri utenti, un procedimento che contribuisce a tutelare la riservatezza delle parti coinvolte, ma che rende anche più complesso l’intercettarne il contenuto, cosa che a sua volta crea un terreno fertile per diverse pratiche illegali.
Per ovviare a questa criticità, le Big Tech si sono sempre “offerte” di supervisionare in via automatica i contenuti presenti sui propri portali, scandagliando con algoritmi la vita delle persone pur di identificare quei tratti che rimandano al terrorismo e alla pedopornografia. Alle autorità preposte vengono dunque consegnati quei pacchetti di dati che un’intelligenza artificiale reputa compromettenti, così che poi stia ai vari Governi il portare avanti i dovuti controlli.
Difficile dire quante di queste segnalazioni si dimostrino effettivamente attendibili, tuttavia molti sospettano che la generosità delle aziende digitali sia solamente una copertura con cui continuare indisturbate a infliltrarsi nell’esistenza dei rispettivi iscritti. Una pratica che, almeno su carta, sarebbe resa in ogni caso illegale dalla General Data Protection Regulation (GDPR) europea.
Nella realtà dei fatti, martedì l’UE ha garantito alle Big Tech una deroga triennale con cui circumnavigare goffamente la legge, una deroga che è stata votata in un clima di vero e proprio “ricatto morale” e per la cui approvazione l’Europa ha subito le pressioni di Regno Unito, Canada e Stati Uniti. Le ditte digitali – perlopiù statunitensi – potranno dunque continuare a immergersi nella privacy dei cittadini europei, indisturbate.
Una vera e propria manna dal cielo per realtà quali Facebook, la quale aveva deliberatamente sospeso i suoi filtri antipedofilia in segno di protesta ben prima che le autorità potessero imporre quel giro di vite che non si è mai effettivamente concretizzato. La stessa Facebook che in passato era stata accusata di muoversi contro la pedofilia solamente quando gli era economicamente conveniente.
I promotori della risoluzione promettono ora che verrà presto redatto un documento contenente i binari guida con cui garantire che il meccanismo di sorveglianza di massa si muova “in equilibrio con la tutela dei diritti”. Un’accortezza che sarebbe stato il caso di concretizzare a monte del voto e che comunque non manca di riconoscere alle aziende private un ruolo da leoni in quello che invece dovrebbe essere il campo di lavoro delle Intelligence europee.
[di Walter Ferri]