mercoledì 17 Settembre 2025
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Il Tribunale conferma: contrarre il Covid al lavoro deve essere considerato infortunio

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L’Inail (Istituto Nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro), in seguito ad una vertenza avviata dalla Cgil (Confederazione Generale Italiana del Lavoro), ha riconosciuto il contagio Covid come infortunio sul lavoro a tutte le lavoratrici ed i lavoratori dell’azienda FIAC Compressori del comune di Sasso Marconi, in provincia di Bologna. A renderlo noto è proprio la Fiom (il sindacato dei lavoratori operanti nelle imprese metalmeccaniche che fa capo alla Cgil) di Bologna, la quale fa sapere che essa insieme alla Rsu (Rappresentanza sindacale unitaria) della FIAC ed all’Inca (il patronato della Cgil) ha avviato sin da subito tutte le pratiche per richiedere all’Inail che venisse riconosciuto l’infortunio alle 50 persone contagiatesi all’interno dell’azienda nei mesi di Febbraio e Marzo 2021. Così, in seguito all’istruttoria svolta, nei giorni scorsi è arrivata la conferma di tale riconoscimento, che come sottolineato dall’Inca per la prima volta è stato conferito nel bolognese in ambito metalmeccanico.

Si tratta di una vittoria di notevole importanza dato che la qualificazione del periodo come infortunio e non come semplice malattia costituisce una tutela aggiuntiva per i lavoratori in ottica ottenimento di eventuali terapie post infezione e riconoscimento di postumi permanenti legati all’evento, ed è proprio in virtù di ciò che la Fiom Cgil e l’Inca di Bologna sollecitano coloro che ritengano di essersi contagiati sul luogo di lavoro ad avviare le procedure per il riconoscimento dell’infortunio e far valere dunque i propri diritti. Infatti, proprio come comunicato negli scorsi mesi dall’Inca, non di rado è accaduto che un lavoratore si sia visto tutelare un diritto che però non era quello che invece avrebbe dovuto regolare la situazione di fatto esistente. In tal senso, è spesso successo che lavoratori messi in malattia comune (e quindi sotto la tutela Inps) per infezione derivante da Covid-19 abbiano scoperto di avere diritto al riconoscimento del contagio come infortunio contratto in occasione di lavoro solo dopo essersi rifatti al patronato, grazie al quale l’Inail ha poi convertito i casi di contagio da malattia comune in infortunio lavorativo.

A tal proposito, bisogna appunto ricordare che il riconoscimento dell’infortunio sul lavoro non rappresenta una novità inaspettata. L’Inail nel mese di aprile 2020 è intervenuta con una circolare volta a chiarire quale fosse la disciplina alla base del riconoscimento dell’infortunio per le persone contagiatesi a lavoro: ebbene, con l’art. 42 comma 2 del decreto legge 18/2020 – che si applica ai datori di lavoro pubblici e privati e che è stato successivamente convertito in legge – è stato stabilito che «nei casi accertati di infezione da coronavirus in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’Inail, che assicura la relativa tutela dell’infortunato». Ad essere destinatari di tale tutela, poi, sono «i lavoratori dipendenti e assimilati in presenza dei requisiti soggettivi previsti dal decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124, nonché gli altri soggetti previsti dal decreto legislativo 23 febbraio 2000 n. 38 (lavoratori parasubordinati, sportivi professionisti dipendenti e lavoratori appartenenti all’area dirigenziale) e dalle altre norme speciali in tema di obbligo e tutela assicurativa Inail». Vi sono inoltre solo alcuni lavoratori, come gli operatori sanitari o coloro che svolgono attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico, nei confronti dei quali vige il principio della presunzione di origine professionale della malattia in base alla elevata probabilità che essi siano venuti a contatto con il Covid sul luogo di lavoro.

Detto ciò, la tutela assicurativa si estende però anche alle ipotesi in cui l’identificazione delle precise cause e modalità lavorative del contagio sia problematica. Dunque, ove l’episodio che ha determinato il contagio non sia noto o non possa essere provato dal lavoratore – né si possa comunque presumere che il contagio si sia verificato in considerazione della mansione in questione – l’accertamento medico-legale seguirà l’ordinaria procedura privilegiando i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale.

[di Raffaele De Luca]

Scuola: Tar sospende ordinanza Regione Campania su chiusura

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L’ordinanza con cui la Regione Campania ha imposto la didattica a distanza fino al 29 gennaio è stata sospesa dal Tar. Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Adnkronos, infatti, la quinta sezione del Tar della Campania ha accolto il ricorso presentato da alcuni genitori contro l’ordinanza nella parte in cui si rinvia a tale data la ripresa della didattica in presenza per le scuole dell’infanzia, elementari e medie: già dalla giornata di domani, riapriranno in Campania nidi, asili, elementari e medie. Inoltre la quinta sezione, oltre ad aver fissato la trattazione collegiale per il prossimo 8 febbraio, ha altresì accolto accolto anche il ricorso – presentato attraverso l’Avvocatura distrettuale di Napoli – dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal Ministero dell’Istruzione e da quello della Salute contro la medesima ordinanza.

La crisi del gas in Europa sta arricchendo gli esportatori USA

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La crisi energetica che sta attraversando l’Unione Europea, che ha fatto schizzare i prezzi a livelli record, ha senz’altro fatto contenti gli esportatori di gas naturale liquefatto (GNL) statunitensi. Nel dicembre scorso le esportazioni in direzione dell’Europa hanno toccato un livello senza precedenti. Una flotta di navi fa da spola nell’Atlantico per assicurare che l’Europa sia rifornita di energia.

L’Asia è in genere la destinazione principale per i carichi di GNL degli Stati Uniti ma questo inverno la significativa richiesta europea di energia ha portato a puntare sul mercato del “Vecchio Continente” e i terminal di esportazione di gas naturale liquefatto degli USA operano a capacità superiore per riuscire a soddisfare tutta la domanda. Metà dell’intera esportazione statunitense di GNL del mese passato è andata in Europa segnando un incremento del 37% rispetto al gennaio 2021: circa 7,15 milioni di tonnellate di GNL sono state spedite il mese scorso a bordo di 106 navi cisterna.

Secondo quanto riportato da Bloomberg, dall’inizio dell’anno, su 76 carichi di GNL statunitensi in transito, 10 navi cisterna che trasportano 1,6 milioni di metri cubi combinati di combustibile per centrali elettriche e di riscaldamento hanno dichiarato come destinazione l’Europa. Inoltre, 20 petroliere che trasportano circa 3,3 milioni dimetri cubi di petrolio da scisto stanno attraversando l’Atlantico per attraccare nei porti europei.

Oltre alle gravi difficoltà subite dalla catena di approvvigionamento globale innescata dalla pandemia, la crisi energetica europea ha senz’altro nelle sue ragioni le tensioni politico-economiche che insistono nei confronti della Russia e le continue pressioni statunitensi. La questione in Ucraina e il Nord Stream 2 sono il pomo della discordia centrale nella contesa geostrategica tra le due superpotenze, per cui l’Europa non sa prendere una posizione decisa rispetto ai suoi stessi interessi. Il raddoppio del passaggio a Nord del gas russo permetterebbe di far arrivare in Europa 55 miliardi di metri cubi di gas all’anno.

Nel settembre scorso la costruzione del Nord Stream 2 è terminata, ma un giudice tedesco ha successivamente bloccato la sua messa in funzione. Il regolatore tedesco ha infatti sospeso il processo di approvazione utile per l’avvio del gasdotto, ritenendo necessario che Nord Stream 2 AG crei una società con sede legale in Germania e presenti una nuova domanda di certificazione, conformemente alla legislazione europea. Solo dopo tale procedimento riprenderà l’iter burocratico al cui esito si dovrà esprimere la Commissione Europea. Nel frattempo, il Presidente ucraino Vladimir Zelensky ha esortato i politici statunitensi ad approvare un disegno di legge che impegni la Casa Bianca ad imporre sanzioni sul progetto russo-europeo a cui partecipano, oltre Gazprom, Royal Dutch Shell, OMV, Engie, Uniper e Wintershall.

Intanto che si compiono i giochi di potere, le famiglie e le imprese vengono duramente colpite dall’aumento vertiginoso dell’energia. Gli unici che stanno traendo beneficio economico dalla situazione sono dunque gli Stati Uniti, ovvero coloro che stanno anche intimando ai Paesi europei di agire contro il proprio interesse, rinviando l’attivazione del gasdotto Nord Stream 2 e proseguendo nella politica delle sanzioni a Mosca. Follow the money for understanding the truth (Segui i soldi per capire la verità), un vecchio adagio che pare spendibile anche nei casi più scottanti della geopolitica contemporanea.

[di Michele Manfrin]

Spagna, il premier Sanchez: valutiamo di trattare il Covid come un’influenza

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«Dobbiamo valutare l’evoluzione del Covid dalla situazione di pandemia vissuta fino a questo momento verso una situazione caratterizzata da una malattia endemica»: è quanto ha affermato il premier spagnolo Pedro Sánchez durante un’intervista rilasciata alla radio spagnola Cadena Ser, confermando in tal modo la notizia pubblicata dal quotidiano El País. Secondo quest’ultimo, infatti, il governo starebbe lavorando ad un piano per trattare la malattia in maniera più simile al modo in cui viene gestita l’influenza, non contando ogni caso di contagio e non facendo test davanti alla comparsa di un minimo sintomo.

Il telescopio spaziale Webb fa la sua comparsa in scena

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Gli appassionati dello spazio lo sanno bene, ma il telescopio satellitare James Webb – erede del celebre Hubble – ha finalmente concluso le operazioni di dispiegamento iniziali. Perché tanto entusiasmo? Ebbene si tratta di un passaggio tecnico, scientifico e politico che ha tenuto il mondo occidentale col fiato sospeso per interi mesi, ogni passo dello sviluppo e della gestione della macchina è stato rischioso e la buona riuscita della sua apertura in orbita era tutto meno che scontata. Le manovre hanno portato via una settimana, una settimana nella quale si è rischiato di perdere per un inconveniente un investimento da 10 miliardi di dollari, nonché più di due decadi di lavoro.

Il tratto più caratteristico e riconoscibile dello strumento è certamente il suo oneroso specchio, una lastra da 6,5 metri di diametro composta da 18 cellule esagonali di berillio placcato oro, un elemento tanto ingombrante che la NASA ha dovuto trasportarlo sul luogo del lancio spaziale passando via mare. Una condizione che ha creato orrore negli accademici coinvolti, i quali hanno temuto fino all’ultimo che i pirati della Guinea Francese assalissero il cargo per chiedere un riscatto. 

Al di là delle legittime preoccupazioni per l’investimento monetario, il mondo scientifico festeggia il battesimo del fuoco del Webb come un punto virtuoso nella collaborazione tra NASA, European Space Agency (ESA) e Canadian Space Agency, i quali stanno predisponendo ai ricercatori uno strumento che sarà presto capace di monitorare la luce proveniente da galassie remote, il tutto con una sensibilità agli infrarossi mai vista in precedenza. Le aspettative sono altissime, con i tecnici che promettono che ogni immagine immortalata dallo strumento finirà con il rivelarci realtà del tutto inedite sulla galassia che viviamo.

Al momento il satellite è in rotta per la sua destinazione finale, il punto di Lagrange L2, quindi dovrà passare diverse settimane ad allineare il gigantesco specchio, il quale farà da scudo agli strumenti montati al suo interno fino a raffreddarli alla temperatura di -230°C, step essenziale per attivare i sensori della macchina, i quali sono estremamente sensibili alla percezione del calore. Tra una cosa e l’altra, le prime immagini del telescopio dovrebbero raggiungerci nell’estate prossima ventura.

Il James Webb è uno strumento pensato a uso esclusivo del mondo scientifico, ma la sua stessa esistenza gioca una parte importante anche nella sfera della cosiddetta esopolitica, ovvero nella diplomazia spaziale. Il punto di Lagrange L2 è attualmente presidiato solamente dall’osservatorio russo-tedesco Spektr-RG e dal satellite Gaia dell’ESA, il quale dovrebbe però andare in pensione nel prossimo futuro. La presenza americana in loco assume dunque anche una dimensione politica, soprattutto considerando che i punti di Lagrange potrebbero avere un ruolo importante nel futuro della corsa allo spazio, se non altro perché le loro peculiarità gravitazionali consentono agli strumenti stazionati di mantenere una posizione stabile consumando risorse energetiche esigue.

[di Walter Ferri]

Infermieri: indetto sciopero a livello nazionale per il 28 gennaio

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Il prossimo 28 gennaio si terrà lo sciopero nazionale del comparto sanità: a comunicarlo è il sindacato infermieristico NurSind, il quale tramite una nota fa sapere che «i tempi lunghi di chiusura del nuovo contratto collettivo nazionale» nonché «il mancato inserimento dell’emendamento alla Legge di Bilancio 2022 che avrebbe dovuto svincolare l’erogazione dell’indennità specifica infermieristica dal rinnovo contrattuale» hanno portato il sindacato a dichiarare lo stato di agitazione a novembre e ad annunciare ora lo sciopero. A tutto ciò si aggiunga che gli infermieri «da ormai due anni incessantemente, con scarsi presidi, ferie sospese, spostamenti improvvisi di reparti, sovraccarico di lavoro, carenze di personale, si sacrificano per salvare vite e, attraverso il loro lavoro, sostengono la ripresa economica del Paese e favoriscono la difesa delle libertà senza nessun riconoscimento economico».

La scuola italiana oggi riparte nel caos più totale

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Come previsto dal Governo, oggi 10 gennaio la maggior parte degli alunni ha fatto ritorno in classe, ma il clima è caotico e di totale incertezza. Patrizio Bianchi, il Ministro dell’Istruzione, ha ribadito fino a ieri che «non ci sarà alcun ripensamento sul ritorno a scuola in presenza», nonostante molte Regioni e Comuni abbiano deciso autonomamente di spostare più in là – addirittura e febbraio – la ripresa delle lezioni di persona. Il Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, ha espresso le sue perplessità sulle decisioni prese in merito alla didattica, perché secondo lui «è irresponsabile aprire le scuole il 10 gennaio. […] Per quello che ci riguarda non apriremo le medie e le elementari. Non ci sono le condizioni minime di sicurezza».

Dello stesso avviso Nello Musumeci, a capo della Regione Siciliana, che ha lanciato un appello al Governo, lamentando di un vero e proprio “caos” sul tema scuola. Non sono richieste isolate. Al coro delle Regioni si sono unite anche le voci di più di 2000 Presidi – e le adesioni continuano a crescere -, che con una lettera rivolta al Premier Draghi, chiedono di posticipare la ripresa in presenza di almeno due settimane. Cosa c’è che non va? E cos’è che non funziona?

Alcuni limiti in merito alle riaperture sono stati evidenziati dal Presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, secondo cui la fase di tracciamento e di testing è «insostenibile». Solo in Veneto, infatti, ci sono circa 2.400 classi in quarantena, a cui si aggiungono i docenti infetti o in malattia e quelli non vaccinati. «In questo brodo primordiale non so che cosa venga fuori, perché abbiamo grosse difficoltà». Le problematiche di cui parla Zaia preoccupano fortemente anche i sanitari e il Presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici, Filippo Anelli, che ha chiesto ufficialmente di tenere a casa gli studenti, almeno per ora, per cercare di contenere l’aumento dei contagi e dei ricoveri.

Ed è difficile pensare che questo accada se si tiene conto che nelle scuole mancano le basi per garantire una riapertura sicura. Non è infatti sufficiente il calmieramento del prezzo delle mascherine FFP2, se si pensa che sarebbe necessario cambiarle spesso, soprattutto dopo 6 ore passate in classe con altri 15 compagni. Non tutte le famiglie possono affrontare questa ulteriore spesa, che dovrebbe invece essere a carico delle istituzioni. Le scuole dovrebbero essere dotate di un numero adeguato di mascherine per garantire la protezione continua di docenti e studenti, senza escludere alcuna categoria.

La verità di fondo è che la scuola ha avuto due anni per prepararsi ad affrontare momenti come questi ma ancora una volta si fa cogliere impreparata. Sono tante le misure che si sarebbero potute adottare e che in alcuni settori esistono già: dai purificatori d’aria alla ventilazione meccanica controllata, fino ai sistemi di monitoraggio indiretto basati sulla CO2. Nonostante i finanziamenti pubblici previsti dal PNRR, le aule rimangono esattamente come sono, con il solito sovraffollamento, le strutture precarie e qualità dell’aria discutibile. Nelle attuali condizioni è molto probabile che nelle micro-aule di cui le scuole sono dotate, i contagi si estenderanno a macchia d’olio. Quanti altri anni serviranno prima di adottare provvedimenti responsabili?

Una descrizione sulle criticità denunciate dagli studenti è stata espressa in un comunicato rilasciato ieri dall’OSA (Opposizione Studentesca d’Alternativa) collettivo di studenti che da mesi sta portando avanti mobilitazioni e occupazioni negli istituti. “Non è stato garantito nessun tipo di tracciamento, né messa in sicurezza degli istituti, né intervento nei trasporti per mettere nelle condizioni noi studenti di rientrare dopo le vacanze in una scuola veramente sicura. Nuovamente ci stanno mandando al macello, nonostante dallo scoppio della pandemia sono passati ormai 2 anni. Continueremo a lottare fuori e dentro le scuole per mettere al centro le necessità degli studenti e di una generazione a cui è negato il presente e il futuro. Vogliamo avere voce in capitolo suoi fondi del PNRR perché vengano spesi per risolvere i nostri problemi e per venire incontro alle nostre esigenze. La scuola deve essere in presenza, vanno garantiti tamponi e mascherine gratuite a tutti gli studenti, serve un piano di assunzione di docenti e personale ed è necessario mettere in sicurezza le strutture scolastiche: la soluzione non può essere convivere con il virus o ritornare alla DAD. Il fallimento di questo sistema è sotto gli occhi di tutti, noi risponderemo con la lotta“.

[di Gloria Ferrari]

Intervista esclusiva al Presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra

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Nicola Morra, classe 1963, è Senatore della Repubblica dal 2013, eletto per due volte in Parlamento nelle fila del Movimento 5 Stelle. Nel corso della sua prima Legislatura da parlamentare, è stato capogruppo al Senato del M5S e ha ricoperto la carica di Vicepresidente della Commissione Affari Costituzionali. Nel Novembre 2018, dopo la vittoria dei pentastellati alle Politiche la formazione del Governo Conte I, è stato eletto Presidente della Commissione Antimafia. Nel Febbraio 2021 è stato espulso dal Movimento 5 Stelle per non avere votato la fiducia al nuovo Governo Draghi.

Ci confrontiamo con lui in merito allo stato di salute della criminalità organizzata nel nostro Paese, all’opportunità degli strumenti messi in campo per contrastarla e alle più importanti novità sul fronte della giustizia.

Presidente Morra, nel 2021 ben 14 comuni sono stati sciolti per mafia e il nuovo anno si è aperto con tre bombe mafiose esplose a San Severo e Foggia davanti all’ingresso di negozi e attività commerciali. Quanto il nostro Paese è ancora indietro nella lotta al potere dei clan sul territorio? 

Da questo punto di vista, in realtà, il 2020 e il 2021 hanno fatto registrare una regressione in merito allo scioglimento di enti locali comunali: nel 2018 i decreti di scioglimento erano stati 23; nel 2019, invece, 21. Nel 2020, anno in cui è scoppiata la pandemia, siamo addirittura scesi a 11, per poi attestarci a 14 nel 2021.

Il sottoscritto, insieme ad altri, riflette da tempo sull’opportunità di modificare la legge sullo scioglimento, perché se un comune, nell’arco di vent’anni, viene sciolto più volte, evidentemente la finalità della norma non è stata raggiunta e il comune non è stato effettivamente rimesso in bonis. Ai sensi dell’art. 143 TUEL, attualmente possiamo sciogliere per infiltrazioni mafiose enti locali comunali e aziende sanitarie. Però, soprattutto dopo la riforma del titolo V della Costituzione, che ha trasferito all’ente territoriale regionale le competenze sulla sanità, non si è considerato che l’istituto dello scioglimento potrebbe anche investire le stesse Regioni. Tra l’altro, se pensiamo alle indagini che hanno pesantemente coinvolto Consiglieri ed Assessori regionali negli ultimi anni, da questo punto di vista la politica ha in più occasioni dato un pessimo esempio di sé. Inoltre, dovremmo prendere in considerazione tante altre Amministrazioni che gestiscono la spesa pubblica sul territorio in maniera tale da destare l’attenzione degli appetiti mafiosi.

Lo Stato è indietro nella battaglia contro i clan? Si è indietro nella misura in cui si vuole raggiungere, fermare e impedire il crimine mafioso; ma se, al contrario, con il crimine mafioso si decide di flirtare, allora la questione è diversa.

La Dia, l’Anac e la Guardia di Finanza hanno lanciato l’allarme: il rischio che le mafie possano mettere le mani sui soldi del Recovery è molto alto. Quali strategie e strumenti occorrerebbe a suo parere adottare per evitare lo scenario peggiore?

 Basterebbe ricordarsi della lezione di Falcone e, prima ancora, di Chinnici. Le mafie inseguono il potere. Nella società contemporanea, esso è rappresentato dalla sua dimensione economico-finanziaria. Di conseguenza, dovremmo incrementare lo spettro d’analisi in chiave economico-patrimoniale. Lo facciamo? No. Il Procuratore Nazionale Antimafia Cafiero De Raho, nell’audizione che ha tenuto lo scorso Luglio davanti alla Commissione Giustizia della Camera, ha lamentato il fatto che i database dell’Agenzia delle Entrate, dell’INPS, della Camera di Commercio e della Procura Nazionale Antimafia non siano in grado di dialogare la tra loro, chiedendo a gran voce che le informazioni che sono nella disponibilità delle massime amministrazioni pubbliche, capaci di monitorare flussi economici e finanziari, diventino patrimonio condiviso attraverso un’operazione tecnologica e informatica. E’ stato fatto qualcosa? No.

Di recente, tra l’altro, con il Decreto emanato a fine Ottobre e convertito a fine Dicembre relativo all’attuazione del Pnrr e alla “prevenzione delle infiltrazioni mafiose”, si è indebolito il sistema delle interdittive antimafia che, come ha dimostrato un’inchiesta del Sole 24 Ore, nel periodo precedente aveva prodotto un incremento di tali provvedimenti pari al 121 per cento, con un contenzioso che solo raramente vedeva soccombere la Pubblica Amministrazione. Il risultato? Con le nuove norme abbiamo depotenziato le interdittive attraverso l’introduzione dei meccanismi della “agevolazione occasionale” e del “contraddittorio preventivo”. Come rilevano tanti specialisti, per spendere il più efficacemente possibile in termini di ripresa dell’economia questi soldi che arriveranno dall’Europa, si è di fatto indebolito un marchingegno che, seppure a macchia di leopardo (perché aveva comunque il vulnus di dipendere troppo dalla sensibilità delle singole Prefetture), stava funzionando. 

Il ‘fine pena mai’ per i mafiosi è stato, di fatto, smantellato dalle sentenze della CEDU e della Corte Costituzionale. In Commissione Giustizia è attualmente in discussione la riforma dell’art. 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario e il Parlamento è vincolato dalla Corte ad esprimersi entro Maggio. Che prospettive si aprono, a questo punto?

Ritengo che dovremmo aprire una riflessione sistematica sul carcere e sui regimi di detenzione carceraria. Infatti, fino a quando non capiremo che le organizzazioni criminali di stampo mafioso risultano essere eserciti di poteri nemici dello Stato repubblicano e democratico, noi non avremo gli strumenti di consapevolezza necessari per affrontare una seria riflessione sul 41-bis e sull’ergastolo ostativo. Bisogna sapere che la pericolosità sociale di alcuni crimini rappresenta un motivo prudenziale tale da consentire l’impedimento reale, effettivo e concreto di ogni forma di comunicazione del soggetto con l’interno e con l’esterno del carcere (ovviamente, ad esclusione di quelle previste dall’ordinamento stesso). Io contesto che si dica che il 41-bis sia un “carcere duro”: nel momento in cui il messaggio che passa è questo, si alimenta il mito che esso si ponga automaticamente in contrasto con i diritti umani. Non è così: è una forma di detenzione per cui deve essere impedita la pericolosità sociale del soggetto. A rafforzare il potere delle organizzazioni criminali mafiose è proprio la capacità di relazione, che avviene attraverso la trasmissione di informazioni. Chi sta dentro è stato sottratto al reticolato dell’organizzazione e deve essere mantenuto avulso dalla trama connettiva-comunicativa del sodalizio mafioso. Puntualizzo che, in ogni caso, è imprescindibile che nessun detenuto sia mai privato dei diritti umani fondamentali.

La nuova riforma della giustizia targata Cartabia ha ricevuto un unanime coro di critiche da parte dei più importanti magistrati antimafia. Le condivide?

Sì, le condivido in toto. Ormai, le mafie agiscono ben poco attraverso l’intimidazione, ma al contrario attraverso la corruzione, che è uno degli aspetti che costituiscono il fondamento di tanti reati contro la Pubblica Amministrazione. Questi reati, come anche quelli ambientali, non sono stati sottratti al giogo dell’improcedibilità delineato dalla riforma.

La Commissione Antimafia da lei presieduta si è distinta per avere audito i familiari dell’infiltrato Luigi Ilardo e del Maresciallo Lombardo, che hanno denunciato i punti di non ritorno nella ricostruzione delle morti dei propri cari, inserendoli nell’ampio calderone di quella ‘zona grigia’ che sembra aver caratterizzato una lunga serie di delitti di mafia nei periodi più caldi della nostra storia recente. A suo parere, i prossimi anni potrebbero partorire delle verità processuali inedite e significative su questo fronte?

Non credo. Anche perché l’esercizio dell’azione penale, per come è previsto nella riforma Cartabia, sarà vincolato a recepire le informazioni che annualmente il Parlamento darà agli Uffici Giudiziari e, in particolare, agli Uffici di Procura. Il Parlamento dovrà infatti indicare ai magistrati i reati da perseguire con maggiore intensità.

Occorre riformare nel giusto modo il Consiglio Superiore della Magistratura, che ha dimostrato attraverso lo “Scandalo Palamara et alii”, dove gli “alii” sono rimasti ignoti, che a capo degli Uffici Giudiziari ci andavano magistrati cari alle correnti della Magistratura che, come palesato dalle intercettazioni che hanno disvelato la frequentazione tra membri togati, membri laici e Parlamentari, flirtavano con la partitocrazia.

Se non si avvia una seria riforma della magistratura, ho paura che si rinnovi un cliché già noto per cui, ad esempio, l’80% delle vittime di mafia continua a non avere giustizia, in particolare riguardo alle responsabilità dei mandanti di tali delitti. Questa è una Repubblica che, fin dal ’47 con il tragico episodio di Portella della Ginestra, che ne ha segnato l’incipit, si fonda sulle stragi, senza che però vi sia stata sentenza che abbia posto fine al dibattito. Vero è che la verità processuale non coincide con quella storica: il mio rinvio non può che essere al famoso articolo di Pierpaolo Pasolini dal titolo “Io so”, uscito il 14 Novembre del ’74 sul Corriere della Sera.

L’universo dell’attivismo antimafia, specie dopo la nascita del ‘governissimo’ presieduto da Draghi e la sentenza di Appello sulla “Trattativa Stato-mafia”, appare politicamente ancora più disorientato e spaccato di prima. Potrebbe essere questo lo scenario più funzionale alla nascita di una nuova forza politica che si proponga di abbracciarne le istanze?

Il Movimento 5 Stelle era nato, così come altre forze politiche quali l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro e Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia, con la finalità di allontanare gli interessi economico-finanziari dal campo della ricerca della verità, sostenendo che la politica si potesse fare col denaro necessario e sufficiente a veicolare idee e valori e non, al contrario, posizioni di rendita dei singoli partiti e parlamentari. Ciò non è avvenuto. Io rilevo una formidabile domanda di giustizia e verità da parte della società italiana; contestualmente, rilevo una formidabile capacità di utilizzare armi di distrazione di massa per allontanare dai veri temi del dibattito democratico la coscienza civile del Paese.

Ci avviciniamo alla data fatidica del 24 Gennaio: sebbene sia assolutamente legittimo da un punto di vista giuridico, è a suo parere moralmente accettabile che si parli serenamente della possibile elezione a nuovo Presidente della Repubblica di un condannato per frode fiscale che ha finanziato Cosa Nostra?

Assolutamente no, ma non voglio limitarmi a questa risposta. Vorrei anche ricordare il famoso intervento del 2003 alla Camera dei Deputati di Luciano Violante, che rappresentava una importante forza politica di opposizione a Berlusconi in Parlamento, il quale sosteneva che si era già trovato un sostanziale accordo per salvaguardare gli interessi privati del soggetto in questione. Finché non avremo una severa disciplina di legge sul conflitto di interessi noi saremo esposti a pericoli di commistione tra interesse particolaristico e interesse universalistico, che è tra l’altro uno dei principali obiettivi della mafia: noi dovremmo difendere i beni comuni che, al contrario, stiamo assoggettando a logiche private. Uno su tutti è quello dell’acqua pubblica.

Qual è il modo migliore per celebrare Falcone e Borsellino nel 30’ anniversario della loro morte?

Per esempio, facendo seguire alle classi delle scuole del territorio le udienze più significative dei dibattimenti di mafia, al fine di far crescere nei ragazzi la consapevolezza che il crimine mafioso è un oltraggio ai diritti di democrazia.

[di Stefano Baudino]

Birmania, 4 anni di carcere per San Suu Kyi

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Aung San Suu Kyi, leader birmana arrestata nel corso del colpo di stato dello scorso febbraio, è stata condannata da un tribunale militare a 4 anni di carcere. Le accuse contro di lei sono di possesso di walkie-talkie senza licenza e violazione delle norme di sicurezza contro il covid. Se la leader fosse giudicata colpevole di tutti gli altri capi di imputazione contestategli, rischierebbe fino a 100 anni di prigione. Sono poche le notizie che trapelano riguardo al suo caso, perchè il processo si sta svolgendo a porte chiuse e ai suoi avvocati è stato ordinato di non parlare del caso, ma è chiaro a molti che le accuse rivoltele siano politicamente motivate.

Gedi: l’editore di Repubblica nei guai per truffa, la notizia che nessun media riporta

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Il sogno di ogni azienda: scaricare per anni gli stipendi più costosi dei propri dipendenti ad altri e fare cassa con i soldi risparmiati. Magari, se possibile, buttare nel calderone del bilancio statale il salatissimo conto da pagare. Secondo la procura di Roma, che scava in silenzio da 4 anni insieme ad in Inps e Inl, è esattamente quello che è successo con decine di manager e dipendenti del gruppo Gedi: l’ipotesi, molto grave, è di truffa ai danni dello Stato, aggravata dall’entità del danno patrimoniale. Il gruppo Gedi non è un piccolo editore di provincia: è la flotta editoriale che gli Agnelli, ossia Exxor, hanno rilevato da De Benedetti e che comprende, oltre alla corazzata Repubblica, anche La Stampa, il Secolo XIX, 9 testate locali, l’Espresso e diversi periodici, oltre a tre emittenti radiofoniche nazionali.

Tanta roba, insomma. E un’accusa pesante, per una delle portaerei nel panorama dei media italiani: aver taroccato carte e conti, per ottenere illecitamente Cigs e prepensionamenti, attraverso il demansionamento e il trasferimento di decine di persone in organico, si parla di 70 tra dirigenti e giornalisti. Una truffa degna dei migliori Totò e Peppino, se confermata. Manager con stipendi più che lauti che sono passati da un’azienda all’altra del gruppo, con qualifiche drasticamente rimpicciolite (da manager a grafici), e guardacaso da aziende che non avevano diritto ad ammortizzatori sociali, perché con bilanci floridi, ad altre nelle quali invece grazie ad accordi con sindacato ed enti erogatori, sono stati concessi milioni di contributi sulle spalle dello Stato. In questa palude di furbi e furbetti, secondo gli inquirenti e secondo gli istituti che hanno svolto gli accertamenti insieme ai magistrati (Inps e Inl), non si salva nessuno. Secondo l’ipotesi investigativa, un triplice patto d’acciaio tra azienda, sindacati e dipendenti, con gli enti che nella migliore delle ipotesi sono restati a guardare, e che è stato svelato nel 2016, quando un dirigente del gruppo ha scritto una mail a Tito Boeri, all’epoca presidente dell’Inps, facendo una domanda più che retorica e che riguardava, appunto, l’ipotetica truffa.

Quattro anni prima, una segnalazione anonima di anomalie nel gruppo era finita nel cestino, dopo che il presidente di Inps Lazio, Gabriella Di Michele, aveva dichiarato di non aver ravvisato nessuna irregolarità dopo un controllo amministrativo effettuato sui dipendenti del gruppo che all’epoca dei fatti era ancora l’Editoriale l’Espresso ed era in mano alla famiglia De Benedetti, presidente l’ingegner Carlo che però a quanto risulta non ha avuto nessun coinvolgimento giudiziario nella vicenda. Vicenda nella quale, è bene ricordarlo, sono indagati tre figure apicali del gruppo, Roberto Moro, Corrado Corradi e Monica Mondardini: per tutti c’è l’ipotesi di rinvio a giudizio. Ma proprio pochi giorni fa, ad un passo da Capodanno, la procura di Roma ha disposto il sequestro cautelautivo di oltre 30 milioni di euro sui conti del gruppo, calcolati sulla base di analogo illecito profitto derivante dal mancato pagamento di stipendi e compensi a dirigenti e dipendenti del gruppo, scaricati appunto sui conti pubblici. Rischiano o per meglio dire sono già nel mirino anche la settantina di dipendenti, tra quadri e altri, che avrebbero illegittimamente percepito cassa integrazione e beneficiato di prepensionamenti. Lo Stato chiederà loro la restituzione, anche in solido con i membri degli enti di previdenza che hanno avvallato quegli accordi.

Una vicenda scottante e per molti versi inquietante, non solo perché riguarda uno dei primi gruppi editoriali italiani. Ma anche per altri motivi. Per esempio, tolto pochissimi casi, tra cui La Verità che a fine dicembre ha fatto lo scoop col sequestro milionario da parte della procura di Piazzale Clodio, o Il Fatto Quotidiano che si è intestato l’avvio dell’inchiesta, con segnalazioni, nel panorama dei giornali italiani nessuno ha dato conto di questa patata bollente. Sarà che forse questo “metodo” di gestione dei dipendenti, secondo gli inquirenti, potrebbe essere non essere stato usato solo dal gruppo Gedi? E che quindi, stando alle notizie di corridoio, sarebbero pronte altre ispezioni e altre verifiche incrociate tra enti previdenziali e procure, se non già in corso, sui conti e le posizioni di altri grandi gruppi come RCS (editore tra l’altro del Corriere della Sera) e Sole 24 Ore. Il sospetto degli inquirenti è che anche altre aziende editoriali abbiano utilizzato il sistema-Gedi per risparmiare soldi e scaricare costi sui conti statali. Un altro masso sulla reputazione già non certo cristallina dei giornali e dei giornalisti in Italia.

RETTIFICA DEL 10/01/22 ore 15:50: Nella versione dell’articolo pubblicata originariamente avevamo scritto che il sig. Tito Boeri, era stato collaboratore del quotidiano La Repubblica mentre era presidente dell’INPS. Si tratta di una informazione errata. Il diretto interessato ha precisato a L’Indipendente di aver «interrotto la collaborazione con La Repubblica dal giorno stesso in cui era stato proposto alla Presidenza dell’INPS, ben prima della nomina». Ci scusiamo per l’imprecisione con i lettori e, naturalmente, con il prof. Tito Boeri.

[di Salvatore Maria Righi]