La deforestazione è uno dei mali peggiori che affliggono il nostro pianeta. Questa, infatti, non solo mette a rischio di estinzione tante specie animali e vegetali, ma è anche la principale causa dell’aumento delle emissioni di CO2 e, di conseguenza, del surriscaldamento globale. Per questo motivo, negli ultimi anni, governi e associazioni ambientaliste hanno investito molto nella tecnologia satellitare, al fine di monitorare l’abbattimento delle foreste. Secondo uno studio, tale metodologia starebbe portando ad ottimi risultati, soprattutto nella foresta amazzonica.
Gli esperti fautori della ricerca durata due anni – con l’obiettivo di capire se facesse la differenza mettere nelle mani degli indigeni il controllo del territorio forestale -, dopo aver identificato 6 villaggi remoti nell’Amazonia peruviana, ne hanno scelti 36 in modo casuale da inserire nell’esperimento di monitoraggio. Tre membri di ciascuna di queste, dopo essere stati formati all’uso della tecnologia, hanno spiegato agli altri conterranei come effettuare i controlli sul territorio e segnalare eventuali deforestazioni. Un programma che, data la drastica situazione ambientale, è stato poi esteso ad altre comunità, arrivando a coprire quasi 250mila ettari di foresta pluviale nel dipartimento peruviano di Loreto.
Al termine della ricerca, gli esperti hanno esaminato i risultati ottenuti, confermando che la deforestazione è diminuita del 52% nel primo anno e del 21% nel secondo. Dati significativi considerando che, se nel prossimo decennio la situazione rimarrà invariata, si arriverà ad una perdita di 4,4milioni di ettari di foresta pluviale. Ma se l’innovativa metodologia di monitoraggio forestale nelle mani delle comunità venisse ampiamente adottata e la governance locale rafforzata, il disboscamento potrebbe essere ridotto fino al 20%.
Nell’ultimo secolo abbiamo assistito ad una evoluzione alimentare e contemporaneamente a un declino, in quanto il sistema ha puntato tutto su quantità e prezzo. Cioè a produrre la massima quantità possibile al prezzo più basso possibile, ignorando gli effetti disastrosi che questo avrebbe potuto causare sulla qualità e il profilo nutrizionale degli alimenti. E sulla nostra salute. In questo articolo parleremo delle differenze nutrizionali tra cibo industriale e pre-industriale prendendo in considerazione quattro alimenti che mangiamo tutti i giorni o quasi: la carne di pollo, il pomodoro, la pasta, la pizza.
Cibo industriale VS artigianale: il pollo
Uno studio del 2010, pubblicato su varie riviste scientifiche tra cui Public Health Nutrition dell’Università di Cambridge, presenta una analisi del pollo dal punto di vista del profilo nutrizionale e dal punto di vista dell’evoluzione storica nel metodo di allevamento. Se guardiamo alla tabella, appare inconfutabile un trend peggiorativo riguardo i contenuti di grassi e di proteine del pollo oggi in commercio. Da fine ‘800 ad oggi si registra un aumento enorme nel contenuto di grasso. Ne troviamo infatti tra il 2 e il 4% alla fine dell’800, poi aumenta fino al 23% di oggi. Parallelamente il contenuto di proteine cala. Una volta il contenuto era costantemente sopra il 20% e ora invece siamo nettamente al di sotto (16%). Il contenuto di calorie è passato dalle 110-120 Kcal per etto dei polli di fine ‘800 alle 270 calorie del pollo di oggi.
Se poi guardiamo la tabella 2 dello studio, che analizza il profilo di grassi omega-6 e omega-3, vediamo come il grasso omega-6 è drasticamente aumentato anche solo rispetto ai polli degli anni 70 del secolo scorso, passando da un 14% circa ad un 20-28% attuali. Viceversa il contenuto di grassi omega-3, i grassi buoni antinfiammatori, è diminuito in maniera pesante. Di oltre un decimo rispetto a quello degli anni 70. Agli inizi del secolo scorso un pollo impiegava in media 16 settimane per raggiungere il peso di 1 chilo e mezzo, oggi impiega un terzo del tempo (5-6 settimane) e viene macellato quando non ha ancora raggiunto nemmeno la pubertà. Oggi un pollo in allevamento intensivo può essere pronto per la macellazione in meno di 6 settimane. Una gallina deponeva in media circa 90 uova l’anno negli anni ’30, oggi ne produce facilmente almeno 250.
Cibo industriale VS artigianale: il pomodoro
Se confrontassimo un pomodoro degli anni ’70 e uno di oggi, apparentemente non noteremmo grosse differenze, oltre al fatto che quello di oggi è un po’ più grosso e forse un po’ più bello a vedersi. Se potessimo assaggiarli entrambi, però, ci accorgeremmo subito che quello di oggi ha un sapore molto più “diluito”. Dire che il pomodoro di oggi non sa più di niente non ha solo a che vedere con la bontà, ma riflette un gravissimo problema nutrizionale.
Il pomodoro che non sa di nulla è un cibo industriale impoverito di vitamine, minerali e sostanze antiossidanti che sono appunto gli elementi che conferiscono al pomodoro, fra le altre cose, il suo sapore. E questo significa non solo che il pomodoro di oggi è meno buono, ma che per avere la stessa quantità di vitamina C o di licopene (il caratteristico antiossidante dei pomodori) che cent’anni fa ottenevamo mangiando un pomodoro, oggi bisogna consumarne forse due o tre.
Infatti, maggiore è la resa per ettaro nei campi (agricoltura intensiva industriale) e minore sarà il contenuto di licopene e vitamina C. Alla pianta infatti servirebbe un terreno non impoverito di sostanza organica e un lasso di tempo più lungo per conferire al frutto un buon contenuto di vitamine, minerali e antiossidanti. Con l’agricoltura intensiva invece si punta a ridurre i tempi di maturazione della pianta e si impoveriscono i terreni con forte utilizzo di sostanze chimiche di sintesi come fertilizzanti, pesticidi, fungicidi ecc. L’agricoltura industriale raccoglie i frutti ancora in parte acerbi, anche per esigenze di logistica e trasporto delle merci nelle lunghe distanze (se raccogliessimo il frutto quando è maturo, arriverebbe nei supermercati “troppo” maturo e non sarebbe desiderabile per il consumatore).
In agricoltura l’uso massiccio di fertilizzanti e pesticidi impoverisce il suolo. Il fertilizzante di sintesi, infatti, pur fornendo azoto e facendo crescere la pianta più in fretta, non ha nulla a che vedere con un suolo naturalmente fertile in cui la pianta trova anche molte altre sostanze organiche. E quando la pianta è troppo “coccolata” (ovvero protetta da sbalzi climatici, insetti ecc. come avviene ad esempio nelle produzioni in serra) non ha più bisogno di produrre quei fitocomposti come i polifenoli, il licopene ecc. che sono delle difese per la pianta e anche per noi: ci aiutano infatti nella prevenzione delle malattie.
Cibo industriale vs artigianale: la pasta
Anche per la pasta possiamo registrare differenze significative tra un prodotto industriale e uno artigianale o più tradizionale. La cottura del grano e dell’amido in generale comporta la formazione di sostanze tossiche come la furosina e gli AGEs (prodotti avanzati della glicazione). Questo è un problema alimentare di cui quasi nessuno parla in Italia, ma che è in realtà addirittura normato e disciplinato per legge, purtroppo al momento solo per la produzione dei formaggi. Vediamo dunque più nel dettaglio questo problema.
La pasta secca, al contrario della pasta fresca e dei cereali in chicco, deve essere appunto essiccata prima di diventare commestibile. Nel processo industriale dell’essiccazione la pasta perde acqua e concentra la sua densità nutrizionale. Il trattamento di essiccazione ad altissime temperature tuttavia cambia il valore nutrizionale del frumento, cosa che suscita qualche perplessità tra gli esperti. I sistemi di essiccazione industriali (detti HTST e VHTS) permettono di raggiungere temperature molto elevate e di ridurre i tempi di lavorazione/essiccazione, con notevole risparmio sui costi. In commercio troviamo paste essiccate in poche ore ad alte temperature, ma anche pasta essiccata lentamente in tempi lunghi e con temperature più basse.
La furosina (ε-furoilmetil-lisina) è una sostanza tossica che deriva dalla unione tra una molecola di glucosio e un gruppo amminico delle proteine contenute nelle farine. Si forma nella fase terminale della lavorazione della pasta secca, quando la percentuale di acqua scende fino al 12%. L’essiccazione ad alte temperature e bassi valori di umidità del prodotto è la causa principale di formazione di furosina. Nelle parole di un nutrizionista di lunga esperienza come il Dott. Pier Luigi Rossi, questa sostanza «è aggressiva sui villi intestinali, viene assorbita nell’intestino tenue, entra nel sangue, non può essere bloccata, si diffonde nel tessuto connettivo presente in ogni organo per connettere le cellule tra loro. Destruttura il collagene e il tessuto connettivo compromettendo la nutrizione e la ossigenazione delle cellule. Può essere eliminata solo attraverso il rene. Insomma è una molecola inquinante».
La furosina andrebbe quantomeno limitata, cercando di assumere con più moderazione i cibi che la contengono (la pasta, il pane, la pizza ed il latte UHT sottoposto a trattamenti
termici ad alte temperature). Secondo quanto riportato in letteratura i valori di furosina oscillano da 100 a 200 mg/100 g di proteine quando le temperature di essiccazione sono inferiori agli 85°C. La pasta con valori di furosina inferiori a 200 viene considerata un prodotto con un buon indice di qualità nutrizionale, perché la quantità degli aminoacidi essenziali (come la lisina) restano elevate.
Che pasta scegliere? Ricercare quei marchi di pasta che garantiscono una essiccazione lenta e a basse temperature è sicuramente un criterio di qualità su cui puntare. Molti dei produttori di pasta che possiedono aziende piccole, a conduzione familiare o comunque che non hanno uno sbocco nella Grande Distribuzione hanno di solito metodi di essiccazione della pasta meno industriali e quindi offrono un prodotto di qualità superiore al marchio di pasta industriale. Per non parlare poi dei piccoli produttori di pasta fresca (sia all’uovo che semplice). Anche questi, di solito sempre a dimensione locale o artigianale e non industriale, ci dispensano dalla preoccupazione della furosina. Come abbiamo detto la furosina si crea durante il processo di essiccazione, ed è assente nella pasta fresca quindi.
Cibo industriale vs artigianale: la pizza
Esaminiamo ora l’etichetta di una pizza surgelata in vendita al supermercato: vedremo subito una elaborata lista di ingredienti, cosa che si traduce in una bassa qualità nutrizionale dell’alimento. Infatti, più ingredienti sono presenti e più il prodotto è industriale e di bassa qualità, e questo vale come regola generale per ogni alimento. L’esempio in questione è una pizza surgelata al salame.
In etichetta sono presenti ben 29 diversi ingredienti. Se il consumatore volesse sincerarsi delle genuinità di questo prodotto dovrebbe perlomeno leggere tutti gli ingredienti e capire di cosa si tratta. Sono presenti farina 0, salsa di pomodoro, sale e formaggio, quelli classici di ogni pizza. È presente anche l’olio, ma quale olio è stato usato? L’olio di colza, soprattutto, e in misura minore l’olio extravergine di oliva. Passiamo ad analizzare gli altri ingredienti della nostra pizza industriale. Il salame affumicato contiene un conservante nocivo, il nitrito di sodio. Si tratta di un conservante molto comune per carni e insaccati, che tuttavia nel 2015 è stato inserito dall’OMS tra le sostanze cancerogene di prima classe, in quanto nel nostro organismo tende a combinarsi con altre sostanze dando origine a dei composti altamente cancerogeni chiamati nitrosammine. Secondo l’AIRC (Associazione italiana per la Ricerca sul Cancro) un consumo eccessivo e regolare di nitriti è associato ad un aumento del rischio di tumori dello stomaco e dell’esofago.
Un altro ingrediente che troviamo nel salame di questa pizza surgelata è il destrosio, uno zucchero semplice ottenuto dalla lavorazione degli amidi del mais o dalla fecola di patate. Ha la mera funzione di esaltatore di sapidità in questo caso, dato che come conservante c’è già il nitrito di sodio. Ma l’aggiunta di zuccheri “nascosti” all’interno della nostra pizza non si ferma a questo: infatti troviamo la presenza anche di zucchero, maltodestrine e caramello. Le maltodestrine sono zuccheri a rapido assorbimento: si assimilano più in fretta del comune zucchero e hanno un indice glicemico più alto. Per questo sono molto utilizzate da chi pratica sport a livello agonistico. Ovviamente sono aggiunte inutili nel cibo delle persone comuni con fabbisogni di zucchero molto inferiori a quelli di un atleta.
Il caramello è anch’esso uno zucchero, il risultato della cottura del saccarosio sino alla sua fusione, che avviene a temperature di oltre 160°C. Il fenomeno di cottura degli zuccheri dà origine ad un’altra sostanza molto problematica e tossica per la nostra salute, l‘acrilammide, di cui sentiamo spesso parlare. E il caramello ne è appunto ricco. Da segnalare in questa pizza anche la presenza di amido modificato, un altro carboidrato ottenuto sempre dalla lavorazione dell’amido di mais o dalla fecola di patate, che serve per dare una consistenza più gradita al consumatore nel prodotto. Altri ingredienti del tutto improbabili per una pizza fatta in casa o anche da pizzeria, sono le proteine vegetali idrolizzate (si tratta solitamente di proteine di soia che rivestono la stessa funzione del glutammato come esaltatori di sapidità).
Appaiono del tutto evidenti le grandi differenze di contenuto nutrizionale e di salubrità tra un cibo industriale come le pizze surgelate e un cibo casalingo-artigianale. Dubito infatti che vostra moglie o il pizzaiolo sotto casa possano pensare di aggiungere caramello, destrosio e proteine idrolizzate nell’impasto della pizza
Conclusioni
La prima cosa da fare è usare il senso critico quando si va a fare la spesa. Soffermatevi a valutare qualche istante il prodotto (aldilà del prezzo e delle diciture in evidenza), a leggere l’etichetta degli ingredienti e prestate attenzione alla scelta di prodotti davvero di qualità, preparati con pochi ingredienti e se possibile di produzione locale o regionale e freschi.
Ne guadagnerà la vostra salute e anche l’ambiente che ci circonda, e darete il vostro sostegno a chi produce il cibo in maniera più pulita. Ricordate sempre che l’etichettatura dei prodotti è l’elemento di maggiore democraticità che esista: consente di fare scelte consapevoli e libere.
A nulla è servito l’incontro di questa mattina tra i vertici dell’azienda e il ministero per lo Sviluppo Economico. La multinazionale Whirlpool ha annunciato l’intenzione di procedere al licenziamento collettivo dei 340 lavoratori impiegati nello stabilimento di Napoli. Tre righe scarne e autocelebrative di comunicato, emesse dal dirigente Luigi La Morgia, a rappresentare la scure sul futuro di 340 famiglie: «Dopo lunga riflessione abbiamo deciso di avviare la procedura di licenziamento collettivo. Siamo consapevoli della nostra scelta, siamo il più grande investitore e produttore di elettrodomestici in Italia».
Gli operai hanno già annunciato che si riuniranno in assemblea all’interno della fabbrica nella giornata di oggi per pianificare azioni di lotta in difesa del posto di lavoro. Per ora si appunta la presa di posizione della Fiom-Cgil, sindacato maggioritario all’interno della fabbrica – che per bocca del segretaria nazionale Barbara Tebaldi annuncia: «Richiamiamo l’azienda alle sue responsabilità. L’avvio della procedura di licenziamento interrompe il dialogo. Per quanto ci riguarda se Whirlpool mette in campo azioni offensive, sarà guerra».
Tre i dati interessanti da notare: il primo è che il licenziamento collettivo degli operai di Napoli è stato nei fatti reso possibile dal governo Draghi, che ha annullato il blocco dei licenziamenti approvato dal governo Conte II per far fronte alla pandemia. Il secondo è che la Whirlpool non è affatto una azienda in crisi: i risultati del primo trimestre 2021 sono stati salutati dalla stessa multinazionale statunitense come «un successo». Terzo, i suoi dirigenti, appena due anni fa, raggiunsero un accordo con il governo italiano, ricevendo anche sovvenzioni, per rilanciare lo stabilimento di Napoli con un piano triennale di investimenti. Nuova prova di come sia facile per le grandi aziende ottenere aiuti dallo stato italiano e poi, una volta incassati i soldi, rivedere unilateralmente gli accodi senza che il governo abbia armi per impugnare la decisione.
Un’esplosione verificatasi a bordo di un autobus, in Pakistan, ha causato la morte di almeno 13 persone, di cui 9 cittadini cinesi. L’incidente nello specifico è avvenuto nel distretto di Upper Kohistan, situato nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa (Sarhad) ed ha provocato anche 28 feriti, tutti di nazionalità cinese. A renderlo noto è stato un funzionario locale, il quale ha spiegato che l’esplosione ha generato un incendio e che l’autoveicolo è successivamente precipitato in un burrone ed è finito sulla sponda di un fiume.
Negli ultimi giorni numerose proteste sono scoppiate nelle principali città cubane. I manifestanti hanno denunciato il governo comunista di Díaz-Canel per la mancanza di cibo e vaccini e hanno inneggiato alla libertà e all’anti-comunismo. Ovviamente, gli Stati Uniti si sono prontamente schierati dalla loro parte, mentre il governo cubano ha equiparato le proteste a delle provocazioni.
Le manifestazioni sono state a tratti anche brutali, con episodi di violenza contro la polizia e atti di vandalismo. Alle base del risentimento ci sono le condizioni economiche di oggettiva difficoltà in cui versa il popolo cubano. Cuba è un paese economicamente in difficoltà. L’amministrazione americana ha ampliato l’embargo economico e commerciale con il risultato che negli ultimi tempi Cuba ha trovato grosse difficoltà anche ad importare materie prime di base, comprese le siringhe per somministrare i vaccini anti-covid, pur avendo mandato i suoi medici in giro per tutto il mondo (anche in Italia), nel mezzo della pandemia nel nome dell’internazionalismo sanitario.
Forse è più proprio dire che Cuba è un paese che è stato impoverito dalle sanzioni spietate che gli sono state imposte nel corso di decenni. Gli Stati Uniti, il paese più ricco del mondo, ha fatto di tutto per isolare il paese e fargli terra bruciata attorno. Nel 1962 ha imposto l’embargo e ancora oggi rifiuta di concedere al vicino anche beni di prima necessità. Secondo il Cuban Democracy Act, l’embargo sarà tolto solo nel momento in cui Cuba, tra le altre condizioni, instaurerà un regime economico di libero scambio – ovvero, quando smetterà di essere socialista. Ai paladini della “libertà” evidentemente non interessa che l’ordinamento di Cuba sia stato approvato dai cittadini nel febbraio 2019, quando l’85% degli aventi diritto ha approvato la nuova Costituzione che ribadisce la sovranità della nazione e il suo ordinamento economico.
La questione è infatti fondamentalmente economica. Si tratta di socialismo contro capitalismo. Molti manifestanti sfoggiavano infatti bandiere americane e i fatti hanno avuto una risonanza piuttosto estrema negli Stati Uniti, specie tra i conservatori.
In #Cuba, thousands took to the streets to protest against the govt, chanting "Down with the dictatorship" and "We are not afraid". Long food lines and critical medicine shortages have fueled anger. Another failure of Communism to deliver.pic.twitter.com/Y21fhX1cK7
Che gli Stati Uniti strumentalizzino la situazione cubana per sostenere politiche anti-comuniste volte a rovesciare il governo locale non è certo una novità. Qualsiasi episodio di violazione dei diritti umani, anche se isolato, è sufficiente per attaccare e screditare il paese. Un modo di fare ipocrita, dimostrato che violazioni dei diritti umani ben più gravi siano ampiamente tollerate da parte di tutti i governi alleati, a partire dalla Colombia e dal Qatar.
Di fronte alle proteste il presidente Biden ha rilasciato dichiarazioni apparentemente moderate: «Il popolo cubano sta coraggiosamente chiedendo il riconoscimento di diritti fondamentali e universali dopo decenni di repressione e di sofferenze economiche dovute a un regime autoritario». Ma nella pratica l’amministrazione americana si muove in modo molto diverso. Ci sono diversi piani su cui agisce questa volontà di rovesciare il governo di Cuba. Recentemente, per esempio, dopo che nel paese caraibico è stato ampliato l’accesso alla rete internet, l’occidente e i gruppi legati alla “controrivoluzione” stanno investendo nel gruppo rap anti-governativoPatria y Vida, acclamato in tutto l’Occidente come simbolo di un desiderio di democrazia che cresce all’interno del popolo cubano. I loro video hanno fatto milioni di visualizzazioni. Tutto questo si aggiunge ad un tentativo incessante di isolare il paese, privandolo di accesso alle risorse, impedendo ai cubani di viaggiare per andare a trovare i loro parenti. Se tutto questo non basta, si sostengono le proteste all’interno. È la teoria e la pratica delle cosiddette “rivoluzioni colorate”: agire su governi sgraditi provocando cause di malcontento tra la popolazione sulle quali fare leva per fomentare una ribellione anti-governativa, così da indebolire lo stato dall’interno mentre dall’esterno cresce su di esso la pressione comunicativa, militare, politica ed economica. Una strategia in larga parte spiegata da documenti ufficiali americani, come lo Strategic Competition Act.
Il Consiglio dei Ministri ha approvato nella giornata di ieri un decreto legge che contiene misure urgenti volte a tutelare le vie d’acqua di interesse culturale ed a salvaguardare la città di Venezia. Infatti, a partire dal primo agosto, sarà vietato alle grandi navi il transito nel Bacino di San Marco, nel Canale di San Marco ed in quello della Giudecca. Nello specifico, il divieto riguarda quelle dotate di almeno una delle seguenti caratteristiche: più 25.000 tonnellate di stazza lorda, scafo al galleggiamento lungo più di 180 metri, tiraggio aereo superiore a 35 metri (escluse le navi a propulsione mista vela-motore) ed impiego di combustibile in manovra con contenuto di zolfo uguale o superiore allo 0,1%.
Nel decreto sono anche previsti risarcimenti per gli operatori del settore danneggiati da questa decisione (compagnie di navigazione, gestori dei terminal e società erogatrici di servizi) grazie all’istituzione di un fondo ad hoc. In più, le navi potranno attraccare a Marghera, dove vi saranno non più di cinque punti di approdo che però, come sottolineato anche dal Ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili, Enrico Giovannini, sono «temporanei». Per questi ultimi sono previsti investimenti complessivi da 157 milioni di euro ed i primi saranno realizzati dal prossimo anno. Inoltre, per procedere celermente alla progettazione, all’affidamento ed all’esecuzione di queste opere il Presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Settentrionale viene nominato commissario straordinario.
Tale decreto rappresenta indubbiamente una vittoria per il movimento No Grandi Navi, uno storico comitato di cittadini di Venezia che dal 2012, anno in cui a largo dell’Isola del Giglio la Costa Concordia si schiantò provocando la morte di 32 persone, si batte in città per l’estromissione delle navi da crociera dalla laguna di Venezia. E lo fa non solo appunto per denunciare i rischi civili provocati dal transito delle grandi navi ma anche quelli ambientali. In tal senso basterà ricordare che, come dimostrato da una ricerca condotta dall’Istituto di scienze marine del Cnr di Venezia, il passaggio di queste ultime ha reso i fondali della laguna martoriati da crateri, buche e solchi scavati da chiglie o eliche.
I Carabinieri del Comando provinciale di Palermo hanno dato esecuzione ad una misura cautelare nei confronti di 11 persone della famiglia mafiosa di Torretta, comune in provincia di Palermo appartenente al mandamento di Passo di Rigano. Quest’ultima è nota per avere solidi legami con la mafia newyorkese. Gli individui sono accusati a vario titolo di: associazione di tipo mafioso, favoreggiamento personale, detenzione di stupefacenti e tentata estorsione con l’aggravante del metodo mafioso. Nove di essi sono finiti in carcere, uno ai domiciliari ed uno all’obbligo di dimora nel comune di residenza.
Si intensificano in tutto il Sudafrica le proteste a seguito dell’arresto dell’ex presidente Jacob Zuma, finito in carcere con una condanna a 15 mesi per oltraggio alla corte, per non essersi presentato davanti agli inquirenti nel processo per corruzione. Secondo quanto riferito da media locali sarebbero almeno 45 i manifestanti rimasti uccisi nelle manifestazioni, per fronteggiare le quali il governo ha schierato l’esercito. I manifestanti arrestati sono almeno 757, la maggior parte a seguito delle proteste nella capitale Johannesburg.
I sussidi elargiti dalle prime dieci nazioni del settore ittico supportano industrie della pesca che non sarebbero redditizie senza un sostegno finanziario. In questo modo contribuiscono alla pesca eccessiva e a quella illegale, non dichiarata e non regolamentata. È quanto ha denunciato un nuovo rapporto supportato da Oceana, l’organizzazione statunitense per la conservazione degli oceani. Il documento, pubblicato dai ricercatori dell’Università della Columbia Britannica, ha esaminato con attenzione i sostegni economici rilasciati dai governi a favore del settore ittico. È emerso come, nel 2018, dieci Paesi – Cina, Giappone, Corea del Sud, Russia, Stati Uniti, Thailandia, Taiwan, Spagna, Indonesia e Norvegia – abbiano speso più di 15,3 miliardi di dollari innescando problematiche sociali, economiche ed ecologiche. Circa il 60% è stato speso per la pesca domestica, mentre il 35% per quella in acque straniere. Il restante 5%, invece, ha sostenuto le attività ittiche in alto mare, ovvero, in settori oceanici al di fuori della giurisdizione di qualsiasi nazione.
La Cina, con una spesa di circa 5,9 miliardi di dollari, è risultata essere il principale fornitore di sussidi alla pesca dannosi. Seguono Giappone con 2,1 e l’Unione europea con 2. In termini sociali, questi sostegni economici potrebbero portare a problemi di sicurezza alimentare in alcuni paesi meno sviluppati. Secondo il rapporto, infatti, le catture effettuate da pescherecci stranieri nelle acque degli Stati a basso reddito tendono a superare le sovvenzioni e le catture nazionali. In Sierra Leone, ad esempio, dove le persone dipendono dalla pesca per circa l’80% del loro fabbisogno giornaliero di proteine animali, i sussidi stranieri superano di dieci volte quelli dello Stato. Quel che ne risulta è che i pescatori esteri, impoverendo lo stock ittico del luogo, catturano il doppio del pesce rispetto a quelli locali. La mancanza di risorse per gestire e monitorare adeguatamente le attività di pesca condotte da flotte straniere – si legge nel rapporto – non fa altro che aggravare la situazione. Ciò, in definitiva, potrebbe determinare pratiche insostenibili e persino una pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata. In questo caso, inoltre, le conseguenze non sarebbero solo socioeconomiche, ma anche e soprattutto ecologiche.
Anziché favorire un’indispensabile transizione sostenibile del settore, i governi rischiano di peggiorare il già annoso problema del sovrasfruttamento degli stock ittici del Pianeta. Una pesca sostenibile, infatti, rispetta la naturale crescita delle popolazioni e non toglie più di quanto queste possano rigenerare autonomamente. «Tuttavia, tali sussidi – ha dichiarato a Mongabay il ricercatore Daniel Pauly – possono incoraggiare la pesca nelle aree in cui gli stock sono già stati esauriti e impedire qualsiasi tipo di recupero. Ad esempio – ha aggiunto – questi consentono a paesi come Cina, Giappone, Taiwan, Spagna e Francia di pescare in modo competitivo il tonno nel Pacifico, nonostante sia noto quanto la popolazione risulti in deficit numerico e presenti chiare difficoltà di recupero». Un meccanismo quindi, atto a favorire devastanti impatti ecologici nonché, come abbiamo visto, pericolosi rischi sociali. Per cambiarlo, prima di tutto – chiedono a gran voce gli autori del documento – è necessaria una trasparenza maggiore sull’entità e la destinazione di tali sussidi.
Ancora una volta l’Italia si è stretta attorno alla propria nazionale di calcio. Le immagini delle piazze durante la finale degli Europei, vinta contro l’Inghilterra, ci restituiscono le scene di migliaia di connazionali festanti, per una volta strappati a vite sempre più orientate al privato per una nottata di dimensione collettiva. Tutto molto bello, sul serio. I facili moralismi dei bastian contrari a tutti i costi che bacchettano l’incongruenza del celebrare una squadra di milionari viziati non hanno senso. Piaccia o meno, il calcio è sport nazionale ed è normale, legittimo e anche bello che una nazione si riversi in strada a celebrarne il successo. E poi, dopotutto, non si capisce per quale ragione scatenarsi nella festa per una occasione ludica dovrebbe impedire ad una persona di essere anche conscia e impegnata sulle cose importanti. La storia è piena di grandi personaggi, che hanno lottato in prima persona per cambiare le cose e che erano anche ferventi tifosi.
Una volta, dopo la vittoria dei mondiali di calcio del 1982, un cronista chiese al presidente Pertini – uno che la lotta per i suoi ideali, prima come partigiano e poi in tempo di pace, non l’ha certo mai mancata – se i festeggiamenti non fossero una esagerazione che rischiava di far dimenticare agli italiani i problemi reali. Il presidente si arrabbiò, affermando: «ma ci dovrà pur essere una sosta dalle preoccupazioni. Sarebbe come andare a dire a chi è felice alla domenica “ma cos’hai da essere felice che domani sarà lunedì?”. Oggi pensiamo alla domenica, il lunedì lo affronteremo a suo tempo». È giusto, e se tanti la loro “domenica” vogliono passarla gioendo o soffrendo per il calcio non si capisce cosa ci sia da obiettare.
Tuttavia non si può non notare come gli italiani sembrino aver perso ormai ogni altra possibile dimensione collettiva se non legata a qualche cosa di ludico. Si scende in strada per il calcio, ma per tutto il resto – al massimo – c’è un post di protesta su Facebook? È questa la cosa che non ha senso. Così si rischia di diventare sempre più un popolo di professionisti della lamentela, che ha dimenticato come scendere uniti in piazza possa servire anche per cambiare le cose o per pretendere misure politiche che non vadano contro gli interessi collettivi. Una nazione che, in definitiva, accetta ogni cosa pensando non ci sia nulla che si possa fare: governi non eletti a ripetizione, l’introduzione di misure che erodono i diritti sul lavoro, limitazioni alle libertà personali senza precedenti.
Eppure non è così. In Francia, ad esempio, la determinazione popolare nelle proteste contro la nuova legge sulla sicurezza che impediva ai cittadini di filmare le forze dell’ordine ha portato alla sua modifica e sempre in Francia – popolo che in quanto a fermezza nel difendere i propri diritti andrebbe preso ad esempio – i vari governi da anni non riescono a far passare una riforma delle pensioni molto più timida di quella “lacrime e sangue” varata nel 2011 in Italia dalla ministra Fornero, perché ogni volta che ci provano si trovano centinaia di migliaia di francesi in piazza e scioperi in tutti i posti di lavoro. Anche in Spagna, dopo le proteste seguite all’arresto per reati di opinione del rapper Pablo Hasél, il governo si è dovuto impegnare a rivedere le norme contro la libertà di espressione. In Italia, pure, non mancano gli esempi: poche settimane fa i portuali di Ravenna sono riusciti a fermare i carichi d’armi che salpavano verso Israele, mentre in Val di Susa, da oltre vent’anni, la determinazione e l’unità dei cittadini impedisce la costruzione del Tav. Insomma, celebriamo pure i successi nello sport, ma ricordiamo che se utilizzassimo una frazione della stessa determinazione per cercare di cambiare le cose che non vanno avremmo molto più spesso delle buone ragioni per festeggiare, magari anche per cose che contano davvero.
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