I venti di guerra che soffiano da est rendono sempre più concreto il rischio di una crisi alimentare e delle materie prime in Europa a seguito della chiusura dei porti ucraini e al blocco delle esportazioni. Mentre il panico e giochi speculativi degli investitori hanno portato all’impennata fuori controllo dei prezzi. Il punto è sostanziale per quei paesi come l’Italia (e tutta Europa in generale) che negli ultimi decenni hanno riposto nel cassetto ogni progetto di autosufficienza alimentare e industriale, il problema – ha detto ad esempio il presidente ci Cia-Agricoltori Dino Scavino – non è solo quello dei prezzi ma una potenziale «difficoltà di approvvigionamento per il nostro Paese di materie prime come il grano, il mais e il girasole con conseguenze drammatiche per le rispettive filiere».
Dalla Russia, infatti, l’Unione Europea non importa solo un quantitativo considerevole di gas naturale, pari al 40% del totale, ma anche una parte cospicua di materie prime fondamentali sia per il comparto agroalimentare che per quello tecnologico-industriale. Basti considerare che secondo le stime del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti (USDA), la Russia è il primo esportatore di grano al mondo, mentre l’Ucraina è il quarto: insieme i due Paesi sono responsabili del 30% del commercio globale di grano, del 25% delle esportazioni di mais e dell’80% di quelle di olio di girasole. Ma a preoccupare è anche la questione dei fertilizzanti, indispensabili sia per la qualità che per la quantità dei raccolti agricoli: come risposta alle sanzioni imposte dalla UE, infatti, il Ministero del commercio e dell’industria russo ha raccomandato ai produttori di fertilizzanti del Paese di interrompere le esportazioni, come segnalato anche dalla Coldiretti. L’amministratore delegato di Consorzi Agrari d’Italia, Gianluca Lelli, ha sottolineato che «nel settore dei concimi, se si mettono insieme le produzioni di Russia e Bielorussia si arriva al 40% delle esportazioni mondiali di potassio e al 20% di quelle di ammoniaca». Ciò significa che sono a rischio le forniture strategiche per le economie occidentali non solo in campo agricolo, ma anche in quello industriale. La Russia, infatti, è un Paese ricchissimo di materie prime, minerali e metalli preziosi e possiede buone quantità di terre rare indispensabili per il settore industriale e per la produzione dei microchip.
La guerra commerciale intrapresa dalla UE contro il Cremlino, dunque, si sta già ritorcendo contro i Paesi sanzionatori, con il rapido aumento dei prezzi delle materie prime e del gas, mentre il Cremlino guarda sempre di più all’Asia per i suoi scambi commerciali, compensando così ampiamente la perdita dei mercati occidentali: ha infatti sottoscritto di recente un vantaggioso accordo con il Pakistan – importante mercato emergente con ben 224 milioni di abitanti – per l’esportazione di circa due milioni di tonnellate di grano, mentre la Cina ha allentato le restrizioni doganali sulle importazioni di grano e mais russo, palesando così il suo sostegno a Mosca. Al contrario, ad aggravare ulteriormente il quadro commerciale dei Paesi europei è intervenuta la decisione del Presidente russo lo scorso 8 marzo di firmare un divieto di import-export verso i Paesi ritenuti ostili, tra cui l’Italia, come risposta all’iniziativa degli Stati Uniti di interrompere gli acquisti di greggio. Per il nostro Paese, ciò significa impossibilità di approvvigionamento di intere categorie di beni con un effetto a catena sull’intera filiera industriale e agroalimentare.
È anche importante rilevare come la crisi ucraina – così come precedentemente quella da Covid-19 – abbia mostrato inequivocabilmente gli scompensi della globalizzazione, che ha comportato un’interdipendenza strategica tra le nazioni, con effetti negativi per quelle che – come l’Italia – hanno trasferito quasi tutta la loro produzione di beni e servizi essenziali all’estero: se, infatti, il sistema globalizzato aveva già rivelato i suoi squilibri in “tempi di pace”, ancora più evidente è la sua inadeguatezza in tempi di crisi, per cui interi Paesi paventano il rischio di rimanere con gli scaffali vuoti. Per questo, il consigliere delegato di Filiera Italia, Luigi Scordamaglia, in un’intervista al Corriere della Sera ha affermato che «La globalizzazione che abbiamo idealizzato per anni è finita. Archiviamo da ora l’errata convinzione che l’Italia sia un giardino dove non si possa produrre più niente», aggiungendo poi che «le catene internazionali degli alimenti vanno completamente ridisegnate». Ci troviamo dunque di fronte al tramonto di un sistema – e di un’era – dipinto per anni come il miglior modello possibile di “progresso” e prosperità, con tutte le pesanti ripercussioni che questo comporta in termini economici e sociali per il Vecchio continente e in particolare per il Belpaese: quest’ultimo tra i più colpiti dal caro energetico e alimentare a causa dell’enorme dipendenza dall’estero. Per tale ragione, Scordamaglia – facendo eco al Presidente francese Macron – ha auspicato il ritorno alla sovranità alimentare, da sempre considerata dalla UE sinonimo di autarchia e anacronismo storico e che, invece, appare ora come l’unica reale contromisura ad una crisi alimentare ed economica annunciata.
Si tratta di un modello alimentare acclamato da tutti i nutrizionisti e medici del mondo. Nel 2010 è stata dichiarata, dall’UNESCO, patrimonio culturale immateriale dell’Umanità. La dieta Mediterranea è un modello nutrizionale ispirato, in origine, alla tradizione alimentare di Italia, Grecia, Spagna e Marocco; anche se nel novembre 2013 tale riconoscimento è stato esteso a Cipro, Croazia, e Portogallo. Questo modello nutrizionale è stato abbandonato nel periodo del boom economico degli anni sessanta e settanta perché ritenuto troppo povero e poco attraente rispetto ad altri modelli alimentari provenienti in particolare dalla ricca America. Tuttavia oggi, in Italia, le persone tendono a credere che la dieta Mediterranea sia quella degli italiani, che sia un patrimonio dell’umanità in quanto migliore modello alimentare al mondo, che sia quella che favorisce la longevità e che consente di rimanere in salute a lungo. Ma è proprio così?
La vera dieta mediterranea non la fa più nessuno
In realtà no. Una considerazione di base che permette di inquadrare l’argomento in maniera più oggettiva è che le persone tendono a pensare che chi vive sul Mediterraneo faccia la dieta Mediterranea. Questo è un errore di fondo. Gli studi ci dicono infatti, che la vera dieta Mediterranea oggi non la fa quasi più nessuno. In Italia la dieta prevalente è una tipica dieta occidentale: troppa pasta, troppo pane, troppi zuccheri, troppi tramezzini, troppi panini, troppa pizza, troppi dolci… Di mediterraneo in senso classico è rimasto molto poco perché le cose che dovrebbero essere consumate in prevalenza per potersi classificare dieta mediterranea in realtà sono: porzioni molto abbondanti di verdure di stagione, frutta di stagione, legumi, l’olio extravergine di oliva, il pesce come proteine in prevalenza, cereali al 100% integrali invece di quelli raffinati, il vino rosso (quest’ultimo in quantità moderate), il pane a lievitazione naturale, ampio uso di aglio, cipolla e erbe aromatiche, pochissimi dolci (il dessert tipico è la frutta), frutta secca e semi con regolarità, poco latte e latticini (con prevalenza di formaggio e yogurt, quindi latticini fermentati), poca carne preferibilmente bianca come il pollo, carne rossa (manzo, maiale) poche volte al mese, e infine le uova: da cinque a sette a settimana o anche di più.
Ciò che ne scaturisce è uno stile alimentare sano e preventivo, se per dieta mediterranea si intende quello che è stato appena elencato e che fa parte della vera (tradizionale) alimentazione dei popoli del mediterraneo. Peccato che in Italia oggi gli chef e i nutrizionisti “televisivi” continuino imperterriti a far credere alle persone che la dieta mediterranea sia mangiare ogni giorno (e più volte al giorno) brioche e biscotti a colazione, fette biscottate con marmellata, pane, pasta, crackers e massimo due uova a settimana; perché altrimenti si alza il colesterolo nel sangue. Falso mito questo sul consumo di uova fra l’altro, ormai ampiamente smentito dalle ricerche scientifiche più recenti che dimostrano come l’aumento eccessivo dei livelli di colesterolo nel sangue non sia dovuto ai cibi che contengono colesterolo, bensì ad uno squilibrio di regolazione causato dall’ormone leptina.
È sana quando inserita nel suo contesto originario
Il modello alimentare mediterraneo, sano e protettivo per la salute, che abbiamo appena descritto va inquadrato peraltro come un elemento che si accompagna ad un tipico stile di vita in cui vi era un elevato consumo calorico giornaliero dato dallo sforzo fisico, perché si trattava in prevalenza di persone che lavoravano nell’agricoltura e dunque che usavano il corpo costantemente. Questo legame non è qualcosa di opzionale. È invece inscindibile e ne determina la buona riuscita in termini di reali effetti di protezione per la salute e di prevenzione delle patologie. Infatti, come tutti gli altri modelli alimentari preventivi (ce ne sono altri anche in Asia, in Nord Europa ecc.), la caratteristica fondante è un ritrovato equilibrio tra introiti e consumi. Uso di proposito l’aggettivo “ritrovato” perché è evidente che si sia perso molto del modello originario del passato, e che oggi la società italiana sia passata da essere quella agricola e contadina di alcuni secoli fa ad una industriale, tecnologica e per questo molto più improntata alla sedentarietà. Gli antenati che popolavano le coste del Mediterraneo vivevano in una società agricola e non industriale. Lavoravano nei campi per molte ore al giorno, facevano lavori molto fisici e stancanti, bruciavano tantissime calorie. Il loro fabbisogno calorico giornaliero poteva arrivare anche a 4000-5000 Kcal, quelle che oggi brucia un atleta professionista negli sport di resistenza come un ciclista o un maratoneta. È normale che queste persone mangiassero anche quantità generose di cereali e pane, rimanendo in perfetta salute e magre. Il loro fabbisogno di carboidrati era altissimo e l’organismo richiedeva dei pasti con alta densità calorica ed energetica per poter affrontare il lavoro nei campi. Oggi al contrario, si vive in una società industriale e le persone hanno un fabbisogno calorico medio di 2400 Kcal. Per cui seguire una dieta incentrata sul consumo di pane e cereali ogni giorno e al contempo avere uno stile di vita sedentario, porta ad ingrassare e ad infiammazioni. In realtà si dovrebbe evitare di parlare di dieta come qualcosa di separato dall’attività fisica. La parola dieta, del resto, veniva intesa da greci e romani come stile di vita e abitudini quotidiane, quindi non solo alimentazione ma anche movimento.
La dieta perfetta non esiste fuori dal contesto di vita
Possibile che i nutrizionisti odierni siano così ignari riguardo a questo semplice gap culturale? Possibile che si continui imperterriti a dire che bisogna mangiare cereali tutti i giorni, e anzi si preparano le piramidi alimentari e le raccomandazioni nutrizionali alla popolazione affermando che il 55-60% del fabbisogno calorico deve provenire dai carboidrati (in Italia quando si dice carboidrati si intende sostanzialmente cereali: pane, pasta, pizza, dolci)? Ci trattano tutti, in pratica, come se fossimo dei maratoneti, ma così facendo spingono la popolazione ad una nutrizione errata e a fare un pieno di carboidrati che non verranno mai smaltiti, in sostanza. Questa è una grave colpa della classe medico-nutrizionista in Italia, una miopia quasi imperdonabile, che sembra quasi un fatto voluto, ricercato e di connivenza con l’industria alimentare, la quale spinge per la iperalimentazione e l’obesità delle persone, con la produzione sempre crescente di alimenti a forte densità di carboidrati e di calorie. Esistono anche ipotesi di complotto, tra la classe medico-nutrizionista e il sistema di profitto farmaceutico, che si basa sui guadagni derivanti dalla vendita di farmaci anti-diabete, anti-colesterolo, anti-obesità. Personalmente non posso escludere che diversi illustri membri delle Commissioni preposte alle Linee Guida per l’alimentazione della popolazione italiana abbiano dei legami e interessi che si incrociano con quelli dei grandi pastifici italiani e dell’industria dolciaria italiana. Bisogna anche osservare tristemente come l’educazione alimentare e alla prevenzione sia ad un livello molto basso in Italia da sempre, sia in TV dove ogni giorno sfila il trionfo dello zucchero e della farina bianca in ogni programma sul cibo, sia presso gli ambulatori medici, le mense scolastiche, le mense ospedaliere. Non viene fornita alcuna educazione alimentare, anzi si insegna a mangiare tutto ciò che reca danno e abbatte la salute. Strano, non è vero? Una casalinga o un impiegato sedentario che seguano un regime alimentare basato sul 55-60% delle calorie dai carboidrati, come possono rimanere in salute? Lo poteva fare tranquillamente una massaia del 1800, che lavorava anche nei campi durante il giorno, ma non certamente la persona sedentaria di oggi.
L’isola di Creta e i veri seguaci della dieta Mediterranea
Il primo studioso a parlare di Dieta Mediterranea fu un medico e scienziato americano, tale Ancel Keys, che negli anni ’50 e ’70 del novecento studiò a fondo le abitudini alimentari di vari popoli del bacino del Mediterraneo, tra cui gli italiani (fece degli studi in Campania per la precisione) e gli abitanti dell’isola di Creta. Ancel Keys osservò nell’isola di Creta una dieta mediterranea molto specifica a base di cipolle, insalata, formaggio Feta, olive, yogurt greco, un po’ di pesce, pochissima carne. I cretesi mangiavano poco in generale e digiunavano spesso perché seguivano i digiuni rituali della Chiesa Ortodossa, infine conducevano uno stile di vita molto attivo e stavano molto all’aria aperta. Egli constatò che tra gli abitanti di Creta le malattie del cuore non erano affatto diffuse, le persone erano piuttosto in salute fino a tarda età. Questo ci spinge a fare una considerazione importante per noi oggi, e cioè che le abitudini alimentari dei popoli del Mediterraneo possono essere anche molto diverse a seconda dell’area geografica. Per esempio a Napoli Ancel Keys osservò che tra le classi popolari la dieta tipica era “a base di pasta variamente condita, insalate con una spruzzata di olio d’oliva, tutti i tipi di verdura di stagione e spesso formaggio, il tutto completato da frutta e in molti casi accompagnato da un bicchiere di vino”. Quindi a Creta si seguiva una dieta povera di carboidrati ma ricca di grassi, mentre a Napoli esattamente il contrario, ricca di carboidrati e povera di grassi. La validità di questi modelli alimentari era sempre legata allo stile di vita complessivo delle persone (movimento, digiuni ecc.). Anche la Sardegna ha offerto alla Scienza un modello alimentare collegato alla longevità. Quello sardo è uno dei vari gruppi di centenari presenti nel mondo: sono presenti anche in Giappone, in Sudamerica, negli USA e in altre regioni del pianeta. In Sardegna tuttavia, la percentuale di centenari è il triplo rispetto a quella di tutti i Paesi occidentali. Le persone longeve sarde mangiano carne e latticini tutta la vita ma si tratta di carni e derivati da animali salutari che non provengono dal circuito della Grande Distribuzione, bensì da filiere di allevamento ben diverse da quelle dell’allevamento intensivo e industriale tipico ad esempio della Pianura Padana.
Questo è un dato su cui sicuramente riflettere, anche perché in Sardegna i cibi animali vengono consumati regolarmente quasi tutti i giorni (soprattutto il latte e i formaggi) ma la salute media della popolazione sarda è molto buona. E i sardi sono una popolazione mediamente molto attiva e poco industrializzata, rispetto ad altre che vivono in Italia. O comunque possiamo applicare queste caratteristiche ai sardi del passato recente, i nostri nonni e bisnonni diciamo, che erano sicuramente molto attivi, lavoravano all’aperto nei campi e percorrevano distanze considerevoli anche a piedi durante la giornata, piuttosto che in auto o con altri mezzi di trasporto. Quindi ritorna ancora una volta la costante dello stile di vita nel complesso attivo e per nulla sedentario, oltre al modello alimentare. Napoletani, sardi e cretesi sono tutti esempi di modelli alimentari mediterranei, ma differenti e con specifiche caratteristiche per ognuno di essi. I cretesi avevano uno stile di vita tradizionale ben diverso da quello che si può considerare tale in Italia al giorno d’oggi.
Non esiste una sola dieta mediterrana
Anche tra italiani del sud e del nord, ritroviamo altre abitudini culinarie differenti. Facciamo alcuni esempi: la pasta col pomodoro, quanto è tradizionale come piatto in Italia? Il pomodoro è arrivato in Europa nel 16° secolo, dall’America, ma fu considerato a lungo un cibo velenoso e fu poco utilizzato. Durante i primi anni del ‘900, in Italia non si utilizzava il pomodoro, ne è prova il fatto che il celeberrimo ricettario-manuale di Pellegrino Artusi “La scienza in cucina e l’arte del mangiar bene”, che molti considerano la bibbia della cucina tradizionale italiana, menzioni il pomodoro soltanto 2 o 3 volte su centinaia di ricette. La pizza margherita fu inventata a Napoli nel 1889, ma alla fine dell’800 la maggior parte degli italiani non sapeva cosa fosse; e sempre nel manuale di Artusi, pubblicato nel 1891, della pizza non vi è traccia (il nome compare 3 volte ma si riferisce ad altre pietanze e non alla pizza napoletana). La parola pizza è entrata nel dizionario italiano solo nel 1915 e nel nord Italia non si è diffusa prima del secondo dopoguerra, quando arrivarono gli Alleati che risalendo l’Italia portarono aglio, olio d’oliva e pomodoro; che nell’Italia del nord non esistevano perché si usavano il burro, lo strutto e la cipolla. Anche l’olio d’oliva non era per niente diffuso nella cucina tradizionale del nord Italia di quel tempo. È evidente quindi come le tradizioni culinarie dei popoli del bacino del mediterraneo possano essere diverse tra loro. Non esiste un modello univoco di dieta Mediterranea.
In conclusione, sono vari i modelli di alimentazione tradizionale di tipo mediterraneo che si configurano come salutari. Tuttavia, i popoli mediterranei dei decenni passati mangiavano cibi integrali, mentre al giorno d’oggi si mangiano questi alimenti nella versione raffinata; lavoravano nei campi per molte ore, mentre ora è prevalente l’attività sedentaria. Insomma, non si può certo dire che la vera Dieta Mediterranea venga seguita, anche se molti ancora non se ne sono resi conto.
Nella città di Bastia, in Corsica, una manifestazione che ha coinvolto circa 7000 persone nel pomeriggio di domenica 13 febbraio è diventata violenta quando all’incirca 300 individui con cappucci hanno iniziato a lanciare molotov e altri oggetti contro la polizia e le istituzioni statali, dando anche alle fiamme un ufficio delle imposte. Negli scontri sarebbero state ferite 38 persone, delle quali 24 poliziotti. Le proteste seguono l’aggressione nel carcere di Arles dell’indipendentista Yvan Colonna, strangolato dal compagno di cella il 2 marzo e ora in coma. Il ministro dell’Interno francese Darmanin ha dichiarato che si recherà in Corsica questa settimana per tenere colloqui con i funzionari locali.
Brent Renaud, giornalista e documentarista americano, è stato ucciso a Irpin, nelle vicinanze di Kiev, mentre realizzava un reportage sulla guerra in Ucraina. Stando alle prime ricostruzioni, Renaud stava filmando la fuga dei profughi insieme a un collega, quando un colpo di arma da fuoco partito da un checkpoint lo ha colpito al collo. Il reporter è morto sul colpo, mentre il collega è riuscito a salvarsi. Renaud aveva realizzato diversi documentari di rilievo, numerosi dei quali per il quotidiano New York Times, su tematiche riguardanti le droghe, i disastri ambientali e i contesti di guerra.
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha accelerato alcuni processi di portata storica per l’Unione europea. I 27 capi di Stato dell’Unione hanno infatti discusso e siglato, nelle giornate del 10 e dell’11 marzo, la Dichiarazione di Versailles, un documento che racchiude le modalità di rafforzamento della sovranità europea, riduzione delle dipendenze e attuazione di un nuovo modello di crescita e investimento. A tal proposito, la costituzione di un fronte di difesa europeo comune, con un deciso aumento degli investimenti militari da parte dei singoli Paesi membri, costituisce un elemento di centrale importanza.
Si è concluso l’11 marzo il vertice di Versailles, presieduto dal presidente francese Macron, che ha riunito i 27 leader europei e nell’ambito del quale sono state prese decisioni di portata storica per l’Unione, in particolare per quanto riguarda la nuova politica di difesa comune europea in seguito all’attacco dell’Ucraina da parte della Russia. Nelle settimane passate alcuni Paesi dell’Unione avevano già preso decisioni di particolare peso: la Germania ha infatti investito cifre da record per la difesa, portando la spesa militare ben al di sopra del 2% del PIL richiesto dagli accordi tra i Paesi NATO, e la Svizzera ha abbandonato la propria posizione neutrale per dichiararsi favorevole alle sanzioni contro la Russia.
La Dichiarazione di Versailles, siglata dai presenti, rappresenta l’intenzione di “compiere ulteriori passi decisivi verso la costruzione della nostra sovranità europea, la riduzione delle nostre dipendenze e la messa a punto di un nuovo modello di crescita e investimento per il 2030″. Tra questi, la costruzione di un fronte di difesa comune costituisce un punto centrale. Ulteriori incontri saranno previsti per il 23 e 24 marzo, quando la Dichiarazione sarà presentata al Consiglio europeo, e a metà maggio, per definire con più precisione le modalità di rafforzamento della capacità di difesa. Previsto poi per fine giugno il vertice tra i Paesi della NATO a Madrid.
Il progetto di un rafforzamento della difesa comune, come scritto nella Dichiarazione, è in discussione da dicembre 2021: dopo lo scoppio della crisi in Afghanistan, infatti, l’Europa si è scoperta disorganizzata e impreparata nei confronti di scenari geopolitici instabili. “La guerra di aggressione della Russia segna un cambiamento epocale nella storia europea” si legge nella Dichiarazione: per tale motivo l’UE ha deciso di assumersi “maggiori responsabilità” nel campo della sicurezza. È previsto un aumento degli investimenti nella difesa da parte dei firmatari, ragion per cui prima dello svolgimento degli incontri di metà maggio dovrà essere presentata “un’analisi delle carenze di investimenti in materia di difesa” da parte della Commissione, in coordinamento con l’Agenzia europea per la difesa.
Gli Stati si impegnano inoltre a perseguire l’invio di “tutti i mezzi disponibili” verso l’Ucraina, anche ricorrendo anche allo strumento europeo per la pace, un fondo dell’Unione che ha previsto lo stanziamento di 5 miliardi per il periodo 2021-2027 finanziato da contributi degli Stati membri e che consente l’invio di risorse e armi.
Nella città di Shenzhen, in Cina, è stato nuovamente imposto il lockdown a causa dell’aumento esponenziale di casi di Covid. La città, che conta 17 milioni di abitanti, aveva messo in atto alcune restrizioni già la settimana scorsa, con la chiusura dei locali non essenziali e il divieto di consumazione nei ristoranti. A Shanghai il governo ha invece chiuso scuole, aziende e attività commerciali. I provvedimenti sono stati presi nonostante il picco sia costituito da casi per lo più asintomatici.
Dopo che Putin ha dichiarato di voler “denazificare” l’Ucraina, in riferimento alla galassia di milizie e battaglioni dichiaratamente nazisti che hanno operato e operano tutt'ora prevalentemente nell'Est dell'Ucraina, è iniziata la campagna mediatica per smentire una realtà fattuale utilizzando l’ebraicità del Presidente ucraino Volodymyr Zelensky come ragione con cui mistificare quanto affermato da Putin circa i neonazisti chiaramente presenti nel Paese, anche all’interno delle istituzioni pubbliche e politiche. Eppure è evidente, e non certo da adesso, che i neonazisti ci sono, sono numerosi...
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Secondo quanto riportato da Reuters, l’Iran avrebbe lanciato una dozzina di missili balistici verso la città di Erbil, la capitale curda dell’Iraq. Sarebbero stati presi di mira il consolato statunitense e la vicina zona residenziale, ma non vi sarebbero vittime. Al momento non vi sono ulteriori dettagli o rivendicazioni. Un attacco di portata simile non si verificava dal 2020, ma l’Iraq e la Siria sono teatro di regolari violenze tra Stati Uniti e Iran.
Tre associazioni di categoria, rappresentanti di alcune delle più grandi aziende al mondo che si occupano del commercio di soia, “hanno fatto pressioni” sull’Unione europea per indebolire la sua politica sulla deforestazione pochi giorni dopo aver firmato nell’ambito della conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP26) un impegno pubblico atto proprio a porre fine alla deforestazione legata alle materie prime: è quanto denunciato da Unearthed, il braccio investigativo della Ong ambientalista Greenpeace, sulla base di alcuni documenti in suo possesso. In una lettera inviata al commissario europeo per il clima Frans Timmermans otto giorni dopo aver assunto tale impegno, infatti, tre importanti associazioni di categoria avrebbero avvertito che la proposta di legge sulla deforestazione dell’UE non avrebbe avuto l’impatto desiderato ed avrebbe causato gravi aumenti di prezzo nonché problemi di disponibilità per cereali e mangimi. Tra le multinazionali rappresentate dai gruppi firmatari vi sarebbero appunto tre delle quattro più importanti aziende esportatrici di soia dal Brasile verso l’UE, ovverosia Cargill, Bunge ed ADM.
Proprio queste ultime, come anticipato, durante la COP26 avevano rilasciato una dichiarazione di intenti con cui si impegnavano a fermare la perdita di foreste associata alla produzione e al commercio di materie prime agricole ed a fornire una tabella di marcia per dare vita ad una catena di approvvigionamento in grado di bloccare il riscaldamento globale a 1,5 gradi Celsius. Un modus operandi sorprendente dato che, come ricordato da Unearthed, Cargill sarebbe stata “più volte collegata alla deforestazione in Brasile” mentre Bunge sarebbe stata “collegata alla deforestazione nella loro catena di approvvigionamento”. Tuttavia quello che si pensava fosse stato un cambio di rotta inaspettato, si sarebbe sostanzialmente rivelato essere una semplice tecnica con cui schierarsi solo a parole a favore dell’ambiente. Come documentato da Unhearted tramite la lettera sopracitata, infatti, le medesime aziende si sarebbero schierate contro una legge – attualmente in fase di valutazione – che in tale ambito sarebbe la più drastica al mondo, richiedendo a diversi commercianti di dimostrare che il loro prodotto non sia stato generato su terreni deforestati prima che possa essere venduto sul mercato europeo. In pratica, prodotti come caffè, soia, carne bovina o cacao non potrebbero entrare nel mercato dell’Ue se ritenuti legati alla deforestazione.
Le aziende, dal canto loro, hanno ovviamente rigettato le accuse affermando che la lettera inviata al commissario Timmermans avesse lo scopo di offrire modi migliori per raggiungere l’obiettivo di porre fine alla deforestazione, che sarebbero intenzionate realmente ad eliminare. Eppure, i documenti di cui è venuto in possesso Unearthed mostrerebbero che le associazioni industriali dei commercianti di materie prime si sarebbero ripetutamente opposte alle misure dell’ambiziosa legge dell’UE sulla deforestazione: ciò sarebbe dimostrato non solo dalla lettera, ma anche dai briefing di un incontro di ottobre con il dipartimento del commercio della Commissione e dalla corrispondenza privata con il ministro dell’ambiente francese Barbara Pompili.
Ad ogni modo, le associazioni hanno poi rilasciato una posizione pubblica dettagliata sulla legge due settimane fa, sostenendo che le loro preoccupazioni avrebbero ad oggetto due componenti chiave della legge. La prima riguarderebbe la creazione di una “catena di approvvigionamento segregata” di prodotti privi di deforestazione per il mercato europeo, in quanto “tecnicamente ed efficacemente non fattibile su vasta scala di mercato”. In tal senso, le tre associazioni di categoria hanno chiesto un sistema di “bilancio di massa”, con cui i fornitori potrebbero acquistare solo parte dei loro prodotti da fonti sostenibili. La seconda riforma contestata dai gruppi sarebbe intesa a migliorare la tracciabilità, richiedendo ai commercianti di fornire una geolocalizzazione per la fattoria o la piantagione in cui è stata coltivata la merce e stabilendo così se provenga dalla deforestazione: secondo le associazioni, però, alcuni agricoltori potrebbero rifiutarsi di condividere questi dati con l’Ue. Eppure, anche tale punto appare controverso dato che, secondo quanto riportato da Unearthed, diversi gruppi di piccoli agricoltori riterrebbero che queste proposte andrebbero a loro vantaggio e che l’opposizione alla geolocalizzazione da parte delle associazioni avrebbe lo scopo di proteggere il potere dei principali commercianti di materie prime proprio a scapito dei piccoli agricoltori.
L’agenzia di stampa Saudi Press Agency ha dichiarato che 81 pene di morte sono state eseguite nelle ultime 24 ore in Arabia Saudita, in quella che si configura come la più grande esecuzione di massa della storia moderna del Paese. I giustiziati sarebbero stati accusati di affiliazione a varie organizzazioni terroristiche (ISIS, Al Quaeda e Huthi) e di aver commesso crimini contro le istituzioni saudite. L’Arabia Saudita è finita spesso al centro delle critiche internazionali per la durezza delle sue leggi sulla libertà di espressione politica e religiosa e sull’applicazione della pena di morte anche nei confronti di minorenni, ma le ha sempre respinte affermando di agire nell’ottica della sicurezza nazionale.
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