venerdì 7 Novembre 2025
Home Blog Pagina 240

Il rigassificatore di Ravenna non ha nulla di sostenibile, nonostante i proclami

0

Nei giorni scorsi, il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, si è recato in visita presso il rigassificatore di Ravenna insieme al presidente dell’Emilia Romagna, Michele de Pascale. Nel corso della visita, non si è persa occasione per sottolineare quanto l’infrastruttura costituisca una «sicurezza» per l’Italia, permettendo di aumentare la capacità di accumulo di gas e diversificare le fonti di approvvigionamento energetico – ora non più russo, ma americano. Tuttavia, mentre da un lato non vi è certezza che il GNL qui rigassificato rimanga in Italia (potrebbe essere venduto in Europa al miglior offerente), i costi ambientali dell’opera sono imponenti: per denunciarlo, i comitati ambientalisti hanno indetto una grande manifestazione di protesta per il prossimo sabato 12 aprile.

Una piattaforma con una capacità annua di 5 miliardi di metri cubi di gas, che viene estratto dall’altra parte del mondo, poi liquefatto, trasportato per migliaia di chilometri via mare e infine riconvertito nell’impianto appena costruito al largo delle coste ravennati, per essere immesso nella rete Snam, a disposizione del miglior offerente, italiano o estero che sia. Sul pontile della struttura, uno striscione recita a grandi lettere: «Per un futuro sostenibile». Questo è il rigassificatore di Ravenna, il grande impianto realizzato in fretta e furia nel 2022, dopo che l’Italia ha chiuso i rubinetti del gas russo a seguito dell’invasione dell’Ucraina. Un progetto approvato in tempi record – appena 120 giorni per le autorizzazioni – e che ora è pronto ad avviare ufficialmente la produzione. La prima nave carica di gas, la Flex Artemis, è arrivata lo scorso 4 aprile dagli Stati Uniti con un carico di GNL americano. «Ora lo stiamo usando per calibrare gli strumenti» – spiega Elio Ruggeri di FSRU Italia, la società che gestisce il rigassificatore per conto di Snam – «ma tra pochi giorni saremo pienamente operativi».

È per questo che martedì si è svolta la visita del ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, che, accompagnato dall’amministratore delegato di Snam e dal presidente della Regione Emilia-Romagna, Michele de Pascale, si è concesso una gita in barca per osservare da vicino la grande struttura di cemento e acciaio destinata – secondo i promotori – a salvare l’Italia dalla crisi energetica: «Con questa grande nave il Paese è in sicurezza» ha affermato il ministro una volta sceso dalla barca, rallegrandosi del fatto che l’Italia torni così a raggiungere i 28 miliardi di metri cubi annui di capacità di accumulo di gas, lo stesso livello che aveva prima della guerra in Ucraina.

«Con l’avvio del terminale di Ravenna continuiamo a diversificare le nostre fonti di approvvigionamento, migliorando la resilienza del sistema energetico italiano» ha dichiarato l’AD di Snam, Stefano Venier. «Sicurezza degli approvvigionamenti, economicità dei costi, sostenibilità ambientale ma anche sociale» – ha aggiunto imperativamente De Pascale. «Sostenibilità, sicurezza, diversificazione, resilienza». Parole d’ordine che tornano ciclicamente ogni volta che si parla di una struttura che, al di là dei proclami, di sostenibile ha ben poco.

La crisi con la Russia poteva rappresentare un’occasione per dirigere il Paese verso nuove strade nel soddisfacimento del fabbisogno energetico, potenziando ad esempio lo sviluppo delle fonti rinnovabili. Si è invece deciso di investire ancora di più in un sistema che ci mantiene dipendenti dal gas: non più russo, ma americano, con costi più elevati e un impatto ambientale maggiore rispetto a quello dei metanodotti. Il tutto alla modica cifra di 1 miliardo di euro. Come se non bastasse, il gas rigassificato non resterà necessariamente in Italia: una volta introdotto nella rete nazionale, potrà essere indirizzato anche verso altri Paesi del Nord Europa, a seconda di chi si aggiudicherà le navi di GNL all’asta. È anche per questo che proprio a Ravenna, sabato, si terrà una manifestazione nazionale di protesta contro le fonti fossili, intitolata Usciamo dalla camera a gas.

A destra, l’amministratore delegato di Snam, Stefano Venier, al centro il presidente della Regione Emilia-Romagna Michele De Pascale, e a sinistra il ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin

«Qui siamo invasi dall’economia fossile» – spiega a L’Indipendente Pippo Tadolini, coordinatore del comitato Per il clima, fuori dal fossile – «A Ravenna non c’è solo il rigassificatore, ma anche in costruzione un grande tratto del gasdotto della Linea Adriatica, la proposta di ampliare le trivellazioni e il progetto, in fase sperimentale, dello stoccaggio in mare della CO₂. Insomma, siamo diventati una zona di sacrificio per gli interessi del settore oil & gas».

Proprio a Ravenna si è tenuto, dall’8 al 10 aprile, OMC Med Energy, il vertice del settore estrattivo del Mediterraneo: «Un luogo dove si parla in maniera roboante di transizione ecologica, sostenibilità e decarbonizzazione, ma da cui si esce sempre con un rafforzamento dei progetti fossili e un aumento dei profitti del settore» osserva Tadolini. L’evento è stato inaugurato martedì mattina proprio dal ministro Pichetto Fratin, che ha illustrato il suo mix energetico per l’Italia, inserendovi un po’ di tutto: eolico, fotovoltaico, idroelettrico, geotermico e persino nucleare. Subito dopo, però, si è recato a rendere omaggio alla nuova cattedrale del gas fossile.

«Noi abbiamo organizzato un vero e proprio controconvegno – continua Tadolini – con appuntamenti per tutta la settimana, fino ad arrivare alla manifestazione di sabato, con la quale chiediamo che si inizi finalmente a delineare una road map per l’uscita dalle fonti fossili, verso un modello realmente sostenibile. Il trend del consumo di gas metano è in costante diminuzione, mentre qui si continua a investire sulle fonti fossili, togliendo al contempo i sussidi alle energie alternative».

Proprio parlando di energie alternative: a poca distanza dal rigassificatore, sempre al largo delle coste ravennati, dovrebbe sorgere Agnes, un grande parco eolico in grado di produrre energia pulita per mezzo milione di persone. Se ne parla da anni, ma il progetto è ancora bloccato da permessi, bandi, aste e iter autorizzativi lunghissimi. «Per autorizzare il rigassificatore ci hanno messo 120 giorni» – conclude Tadolini, con amara ironia – «ce ne vogliono di più per aprire un chiosco di piadine».

Nei richiami dei bonobo alcuni scienziati hanno decodificato i principi di un linguaggio

0

Nei richiami dei bonobo, tra i primati considerati i parenti più stretti dell’uomo, c’è un principio chiave del linguaggio unico e mai esplorato così approfonditamente fino ad oggi: è quanto emerge dal lavoro di un team di ricercatori delle Università di Zurigo e Harward che, dopo aver analizzato centinaia di ore di registrazioni per anni, hanno dettagliato i loro risultati all’interno di un nuovo studio scientifico sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Science. Secondo la ricerca, alcune combinazioni di suoni prodotte da questi primati sembrerebbero avere un significato diverso rispetto ai singoli richiami che le compongono, una caratteristica nota come “composizionalità”. Il tutto, secondo gli esperti, indicherebbe un’origine evolutiva molto antica per questa proprietà del linguaggio, anche se alcuni scettici non coinvolti nel lavoro chiedono maggiore prudenza e ulteriori conferme. D’altra parte, nonostante abbiano riferito che ulteriori esperimenti sono già in programma, gli autori ribadiscono che si tratta di una prova più robusta rispetto a tutti gli studi precedenti simili e che i risultati ottenuti potrebbero cambiare il modo in cui comprendiamo le origini della comunicazione umana.

I bonobo, come gli scimpanzé, sono tra i parenti più stretti dell’uomo. Sebbene noti per la loro struttura sociale cooperativa, sul piano linguistico finora non avevano mostrato segni evidenti di quella che gli esperti chiamano “composizionalità”, ossia la capacità di combinare elementi comunicativi semplici in messaggi più complessi, dotati di significato emergente. Questa proprietà è considerata essenziale per la creatività del linguaggio umano: se dire “cane nero”, infatti, è diverso da “cane” e da “nero” presi singolarmente, è perché il significato della frase nasce dall’interazione tra le sue parti. Negli anni, spiegano i ricercatori, alcuni studi avevano suggerito un inizio di questa abilità negli scimpanzé, ma il nuovo lavoro si distingue per l’approccio sistematico: oltre 330 ore di registrazioni effettuate in una riserva nella Repubblica Democratica del Congo, una classificazione dettagliata dei contesti comportamentali, e un’analisi statistica che ha confermato le teorie ipotizzate, ovvero capire se alcune combinazioni di suoni nei bonobo avessero un significato specifico, diverso dalla somma dei significati individuali.

I ricercatori hanno tracciato una sorta di “mappa semantica” dei richiami, simile a quelle usate per le parole nei modelli linguistici artificiali e hanno scoperto che, in quattro casi, le coppie di suoni risultavano significativamente distanti dai singoli elementi sulla mappa, suggerendo la presenza di un significato composto. Una di queste coppie, ad esempio, univa un richiamo acuto per attirare l’attenzione e un fischio grave associato a emozioni intense e, secondo la ricercatrice e coautrice Melissa Berthet, insieme sembrerebbero costituire una sorta di “chiamata d’aiuto”. «Sarebbe come dire: “Prestami attenzione perché sono in difficoltà”», ha spiegato. Lo studio, quindi, rafforza l’ipotesi che anche l’antenato comune tra umani e scimmie potesse possedere rudimenti di composizionalità, anche se non tutti, però, sono convinti: Johan Bolhuis dell’Università di Utrecht, per esempio, ha sostenuto che la ricerca non dimostra una vera sintassi, ma solo un accostamento di suoni. Townsend, tra gli autori, risponde precisando che quanto rilevato potrebbe dimostrare che in questo caso si tratti proprio del primo passo verso un linguaggio pienamente strutturato, emerso poi nei primi esseri umani. In tutti i casi, i ricercatori stanno già pensando al futuro e hanno annunciato che si potrebbe addestrare un modello di intelligenza artificiale a riconoscere i singoli richiami e testare se riesce a dedurne i significati delle combinazioni. Per ora, però, stando alle evidenze, l’ipotesi più suggestiva è che qualcosa di simile alla grammatica possa aver cominciato a emergere molto prima di quanto immaginassimo.

La Russia ha rilasciato una prigioniera russo-statunitense

0

La Russia ha rilasciato Ksenia Karelina, ballerina russo-americana condannata a 12 anni in una colonia penale russa, nell’ambito di uno scambio di prigionieri con gli Stati Uniti. La notizia arriva dall’avvocato della donna, che ne ha comunicato il rilascio all’agenzia di stampa Reuters. Ksenia Karelina era detenuta dall’anno scorso, dopo che era stata dichiarata colpevole di tradimento per aver donato denaro a un ente benefico con sede negli Stati Uniti che fornisce supporto umanitario all’Ucraina.

Trump sta trasformando i dazi in una guerra commerciale con la Cina

0

A poche ore dall’introduzione, Trump ha annunciato la retromarcia sul proprio social Truth: l’inizio dei dazi commerciali è rinviato di 90 giorni «per negoziare una soluzione» con i vari Paesi. In questi tre mesi i «dazi reciproci» saranno stati sostituiti dalla tariffa base del 10%. La misura sembra tuttavia non valere per un solo Paese, la Cina, che, «considerata la mancanza di rispetto», si vedrà applicare un’imposta del 125% con effetto immediato. È così accaduto quanto molti osservatori paventavano fin dall’inizio, ossia che i dazi si trasformassero in una vera e propria manovra di guerra commerciale contro Pechino. Il governo cinese, dal canto suo, non è apparso per nulla intimidito e, anziché cercare la via della trattativa, non ha ritirato i propri contro-dazi dell’84% sulle merci d’importazione statunitensi.

L’annuncio della sospensione di 90 giorni dei dazi commerciali è arrivato ieri al termine di una giornata caratterizzata da una frenesia generale. Dopo l’entrata in vigore delle tariffe, diversi Paesi hanno annunciato contromisure e altri hanno contattato le istituzioni statunitensi per arrivare a un accordo. Tra le risposte, la più dura è stata certamente quella della Cina: dopo che Pechino ha annunciato che avrebbe imposto dazi del 34% su tutti i prodotti statunitensi in entrata, pareggiando così la tariffa imposta dagli Stati Uniti, Trump ha modificato la misura contro i prodotti cinesi, alzandola all’84%. La Cina, dunque, ha nuovamente alzato la propria tariffa sui prodotti statunitensi, arrivando anch’essa all’84%. Al culmine delle ritorsioni reciproche, Trump ha annunciato che avrebbe colpito la Cina con dazi del 125%: «Al contrario, e sulla base del fatto che oltre 75 Paesi hanno convocato rappresentanti degli Stati Uniti per negoziare una soluzione, e che questi Paesi, su mio forte suggerimento, non hanno esercitato ritorsioni in alcun modo o forma contro gli Stati Uniti», ha scritto Trump, «ho autorizzato una pausa di 90 giorni e una tariffa reciproca sostanzialmente ridotta al 10% durante questo periodo», con effetto immediato.

Sui canali ufficiali dell’amministrazione statunitense non è ancora uscito alcun aggiornamento delle tariffe, e non risulta chiaro se la sospensione dei dazi riguardi solo quegli «oltre 75 Paesi» menzionati o tutti, tranne la Cina. Intercettato dai giornalisti alla Casa Bianca, Trump ha risposto ad alcune domande di chiarimento sull’annuncio rilasciato sul proprio canale social, sostenendo di avere «fatto una pausa di 90 giorni per tutte le persone che non hanno risposto»; eppure, secondo quanto ricostruito dai media statunitensi, l’Unione Europea sarebbe inclusa nella lista di Paesi per cui è valida la pausa, nonostante ieri abbia approvato dazi di risposta agli USA da imporre a partire dal 15 aprile. Quello che è chiaro, comunque, è che, durante il periodo di pausa, ai prodotti dei Paesi a cui si applica la sospensione saranno imposti dazi del 10%. Resteranno, inoltre, in vigore i dazi sui prodotti specifici, come quelli su acciaio e alluminio e sulle auto.

La risposta dei mercati all’annuncio di Trump è stata rapida. Oggi, dopo cinque giorni di crollo delle borse, gli indici di tutto il mondo hanno registrato un rialzo. In Asia, l’area del mondo maggiormente colpita dal tracollo economico, i mercati hanno registrato un forte aumento, e la borsa di Tokyo è cresciuta del 9%. Anche Taiwan ha visto un rialzo del 9,3%, mentre i futures di Wall Street risultano in calo a causa dei contro-dazi cinesi. Nel frattempo, l’Unione Europea ha reagito positivamente all’annuncio di Trump, ribadendo di essere pronta a negoziare con il presidente statunitense.

Repubblica Dominicana, crollo tetto discoteca: i morti salgono a 184

0

È salito ad almeno 184 morti il bilancio del tragico crollo del tetto di una discoteca nella capitale della Repubblica Dominicana, avvenuto nella notte tra lunedì e martedì. Lo hanno reso noto le autorità del Paese, mentre le forze di soccorso continuano a cercare corpi sotto le macerie. L’incidente si è verificato nel night club Jet Set mentre si stava esibendo l’artista di merengue Rubby Pérez, anche lui tra i morti accertati. Il portavoce presidenziale Homero Figueroa ha riferito che è stato intensificato l’impegno delle squadre d’emergenza, anche attraverso l’impiego di macchinari pesanti al fine di accelerare la rimozione dei detriti e facilitare le operazioni di ricerca.

 

 

Campania, il terzo mandato di De Luca è incostituzionale

0

La Corte Costituzionale ha dichiarato che la legge regionale che permette al governatore di correre per un terzo mandato consecutivo è incostituzionale, bloccando una possibile rielezione dell’attuale presidente della Campania, Vincenzo De Luca. La legge era stata approvata lo scorso novembre proprio per permettere la sua candidatura alle elezioni previste quest’anno, e impugnata dal Governo. La legge campana prevedeva di attuare la norma che introduce il limite dei due mandati consecutivi a partire dal momento della sua approvazione, nel 2024; essa, dunque, permetteva di considerare il suo mandato attuale come se fosse il primo utile ai fini della legge. La decisione della Corte varrà per tutte le regioni a statuto ordinario.

Un nuovo sistema, molto più efficiente, restituisce la voce ai malati che l’hanno persa

1

Dopo di anni di studi e di miglioramenti, ne è arrivato uno che potrebbe potenzialmente svoltare la vita di coloro che hanno perso completamente la capacità di parlare: è stato sviluppato un nuovo algoritmo che permette la costruzione di neuroprotesi capaci di trasformare in tempo reale i segnali cerebrali in un discorso udibile e naturale. A rivelarlo è un nuovo studio condotto da scienziati dell’Università di Berkeley della California (UC), sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Nature Neuroscience. Nonostante in precedenza fossero necessari circa otto secondi per generare una frase, con il nuovo sistema – costruito tramite uno studio clinico e con l’aiuto dell’intelligenza artificiale – il primo suono viene emesso entro un secondo dall’intenzione di parlare. «Abbiamo scoperto di poter decodificare i dati neurali e, per la prima volta, abilitare uno streaming vocale quasi sincrono. Il risultato è una sintesi vocale più naturale e fluida», ha affermato Gopala K. Anumanchipalli, professore associato di Ingegneria Elettrica e Informatica presso l’UC Berkeley e co-ricercatore principale dello studio.

Persone affette da gravi forme di paralisi, come nella sclerosi laterale amiotrofica (SLA) o in seguito a ictus, possono perdere completamente la capacità di parlare. Le interfacce cervello-computer avevano aperto una strada per restituire loro una forma di comunicazione, ma fino a oggi le soluzioni disponibili erano lente, macchinose e spesso limitate alla traduzione in testo. I tentativi precedenti di sintesi vocale soffrivano infatti di latenza eccessiva, rendendo impossibile una conversazione fluida. Per superare questo limite, allora, i ricercatori californiani hanno utilizzato modelli avanzati di intelligenza artificiale, simili a quelli che alimentano assistenti vocali come Siri e Alexa, per sviluppare un sistema in grado di decodificare i segnali neurali in flusso continuo. In particolare, la tecnologia è stata testata nell’ambito di uno studio clinico condotto presso l’UC, dove un soggetto affetto da paralisi ha potuto “parlare” pronunciando frasi silenziose che venivano trasformate in voce quasi simultaneamente.

Campionando i segnali dalla corteccia motoria – l’area del cervello che controlla i movimenti del tratto vocale – tali impulsi sono stati poi interpretati da un modello di IA che li ha tradotti in suoni. Per addestrare il sistema, i ricercatori hanno chiesto alla paziente, Ann, di leggere frasi sullo schermo e provare a pronunciarle mentalmente. Non avendo output vocali reali, l’algoritmo ha quindi ricostruito l’audio mancante usando modelli pre-addestrati, anche con la voce di Ann registrata prima dell’infortunio. Il risultato è una sintesi fluida, continua e personalizzata, che la stessa paziente ha definito «più controllabile» rispetto a metodi precedenti. Inoltre, il sistema è stato testato anche su parole nuove, dimostrando di saper generalizzare oltre i dati di addestramento. «È un framework rivoluzionario», ha commentato il coautore Cheol Jun Cho, aggiungendo che l’IA non si limita a ripetere i dati appresi, ma impara i principi fondamentali della fonazione: «Ora possiamo lavorare per migliorare ulteriormente la velocità, l’espressività e il naturalismo del linguaggio generato».

Tunisia, proteste per il rilascio degli oppositori politici

0

Centinaia di tunisini hanno organizzato due raduni di protesta contro quello che definiscono il regime autoritario del presidente Kais Saied, e hanno chiesto il rilascio dei prigionieri politici. Il primo raduno, tenutosi nella capitale Tunisi, chiede la liberazione della leader del Partito Destouriano Libero, Abir Moussi, ed è stato organizzato da membri del suo partito. Il secondo, anch’esso a Tunisi, è stato organizzato dai membri del Fronte di Salvezza Nazionale, un altro partito di opposizione. Le proteste arrivano dopo che sei oppositori politici di Saied hanno annunciato uno sciopero della fame per opporsi allo svolgimento del loro imminente processo.

Trump apre al disboscamento di 455 mila km² di foreste: nessuno potrà fare ricorso

2

Negli Stati Uniti, l’amministrazione Trump ha approvato un decreto d’urgenza che elimina una serie di protezioni ambientali per oltre la metà delle foreste gestite dal Servizio forestale americano. Il motivo, si legge in un memorandum rilasciato dal Dipartimento dell’Agricoltura, sarebbe triplice: ridurre il rischio di incendi, contenere la diffusione di infestazioni e, soprattutto, aumentare la produzione di legname. Viene così dichiarato lo stato d’emergenza su una superficie pari a 455.000 chilometri quadrati che, con la rimozione dei vincoli ambientali, viene aperta al disboscamento. Il decreto impedisce inoltre che sulle foreste in questione possano essere avanzati ricorsi da parte di organizzazioni della società civile e limita anche la lista di alternative presentabili in fase di valutazione dei progetti di disboscamento.

Il memorandum del Dipartimento dell’Agricoltura statunitense è stato pubblicato giovedì 3 aprile. Esso parte dalla considerazione che circa «66.940.000 [circa 271mila chilometri quadrati] acri di terreni del Servizio Forestale Nazionale (NFS) sono a rischio di incendi molto elevato o elevato». A questi si aggiungono «circa 78.800.000 [circa 319mila chilometri quadrati] acri di terreni NFS già soggetti a, o a rischio di, infestazioni di insetti e malattie». L’amministrazione statunitense pone queste aree a rischio sotto stato di emergenza. Considerata la superficie soggetta sia a rischio incendi che a rischi sanitari, gli USA mettono sotto stato di emergenza 112.646.000 acri di terreno (circa 455 chilometri quadrati), poco meno del 60% dell’intero patrimonio forestale gestito dall’NFS.

Per ridurre i rischi a cui sono soggette le foreste statunitensi, il Dipartimento dell’Agricoltura chiede che vengano presi provvedimenti mirati, quali interventi di risanamento degli alberi o delle aree circostanti, o, appunto, l’abbattimento. L’intera superficie di 455 chilometri quadrati viene così spogliata dalle tutele di cui godeva, e aperta al disboscamento. Sebbene risulta difficile che essa venga abbattuta completamente, è certo che lo sarà almeno in parte. Il memorandum del 3 aprile, infatti, segue un decreto presidenziale del 1° marzo con cui il presidente Trump intensificava lo sfruttamento delle aree boschive, con l’obiettivo di produrre più legname e ridurre la dipendenza dal Canada. Lo stesso memorandum arriva in risposta all’attuazione del decreto del 1° marzo, e specifica che il Dipartimento ha individuato «43 milioni di acri [circa 174mila chilometri quadrati] adatti alla produzione di legname». In aggiunta, il memorandum stabilisce che «qualsiasi valutazione ambientale o dichiarazione di impatto ambientale richiesta per un’azione di emergenza autorizzata richiede l’analisi solo dell’azione proposta e dell’alternativa di non intervento e non è soggetta alla revisione amministrativa pre-decisionale a livello progettuale». In sintesi, esso impedisce che vengano presentati reclami amministrativi per le procedure di disboscamento.

Il disboscamento massiccio di una tale area, grande più dell’intero Stato della California, potrebbe comportare gravi rischi per l’ecosistema statunitense, compromettendo la tutela della biodiversità e riducendo la capacità di assorbimento delle emissioni di CO2 del Paese. Secondo alcuni studiosi, inoltre, potrebbe avere un effetto contrario a quello sperato e aumentare il rischio di incendi. Meno alberi, infatti, spiega lo scienziato Chad Hanson al Guardian, significa temperature più elevate, clima più arido e, dunque, vegetazione più propensa a fungere da “combustibile” per il propagarsi di un incendio.

Google assumerà hacker israeliani complici dei massacri in Libano e Palestina

2

Google ha raggiunto un accordo per l’acquisizione di Wiz, società israeliana di sicurezza informatica. Se finalizzato, l’acquisto, dal valore di 32 miliardi di dollari (pagati senza impiegare strumenti finanziari, come le azioni), sarà il più grande di sempre portato a termine dal gigante tecnologico statunitense. Tra le fila dell’azienda israeliana sono impiegate decine di ex membri dell’Unità 8200, l’ala militare israeliana specializzata in informatica e cyberspionaggio e coinvolta nell’automazione del genocidio palestinese, così come nell’attacco ai cercapersone avvenuto in Libano, nel quale sono stati uccisi decine di civili. L’operazione costituisce inoltre una notizia positiva per le finanze dello Stato di Israele, che vedrebbe così entrare circa 5 miliardi di dollari da utilizzare nella propria economia di guerra.

L’operazione da 32 miliardi di dollari, annunciata da Google nella seconda metà di marzo, dovrà essere definitivamente approvata dalle autorità competenti di regolamentazione. Come riportato da Forbes, l’entità dell’accordo ha attirato l’attenzione non solo per il prezzo record che Google è disposta a pagare, ma anche a causa del multiplo del suo valore rispetto al fatturato della società israeliana. In altre parole, Google sarebbe disposta a strapagare per acquistare Wiz. Senz’altro chi ci guadagnerà sarà Israele: dal punto di vista fiscale, l’acquisizione porterà circa 5 miliardi di dollari all’economia di guerra israeliana. Per Forbes il piano strategico dietro una mossa di questa portata potrebbe, tra le altre cose, rafforzare il portafoglio di sicurezza di Google Cloud e affrontare la carenza di talenti della sicurezza informatica. Per quanto concerne quest’ultimo punto, come fatto notare da Wikileaks, i “talenti” che in questo modo Google si garantirebbe sono ex membri dell’Unità 8200, ovvero l’ala informatica e di cyberspionaggio dell’esercito israeliano.

Ami Luttwak, uno dei fondatori di Wiz, sul suo profilo LinkedIn spiega di aver guidato un «team di ricerca e sviluppo mission critical» per l’Unità 8200, vincendo l’Israel Defence Award 2012. L’identità dei fondatori di Wiz, tutti ex Unità 8200, è riportata anche dal Times of Israel. Oltre a Luttwak ci sono Assaf Rappaport, Yinon Costica e Roy Reznik. E poi ci sono una cinquantina di dipendenti che provengono dall’Unità 8200, come documentato da un’inchiesta di Nate Bear che aveva anche esposto diversi ex membri dell’unità speciale israeliana che adesso lavorano per Google, Microsoft, Meta, Apple, Amazon, OpenAI e Nvidia. Come scritto nel già citato articolo del Time of Israel, Wiz non è l’unica società tecnologica israeliana fondata da personaggi provenienti dall’intelligence militare e al cui interno lavorano membri dell’Unità 8200. Infatti ci sono anche Check Point Software Technologies, Nice, Palo Alto Networks, CyberArk e Waze – quest’ultima già acquistata da Google per 1 miliardo di dollari.

L’Unità 8200 ha partecipato alla progettazione e alla programmazione degli algoritmi che hanno permesso l’automazione del genocidio a Gaza, partecipando a progetti quali Lavender, di cui L’Indipendente ha già parlato in merito all’utilizzo dell’intelligenza artificiale nel genocidio palestinese. Inoltre, tale unità è stata coinvolta nell’operazione di attacco in Libano che ha sfruttato i cercapersone nel tentativo di colpire Hezbollah, causando numerose vittime civili. Non sorprende che Google voglia acquisire una simile azienda, fondata da persone che hanno operato nell’Unità 8200 e con dipendenti che vi hanno fatto parte. Come già spiegato su L’Indipendente, sappiamo che le Big Tech come Google, Microsoft, Amazon, IBM e molte altre, fiancheggiano lo Stato di apartheid di Israele e il genocidio dei palestinesi e che, in generale, fanno parte di un complesso sistema che le lega all’intelligence militare. In merito alla questione israelo-palestinese, Google aveva addirittura fatto arrestare i propri dipendenti che si erano riuniti nel movimento No Tech for Apartheid, in protesta contro le commesse siglate dall’azienda con Israele.

Insomma, oltre a soddisfare i propri interessi economici, la mossa di Google soddisfa anche gli interessi di Israele e pone sempre di più la società tecnologica dalla parte dello Stato sionista. Certamente si trova in buona compagnia delle sorelle del Big Tech della Silicon Valley, in un intreccio sempre più fitto che coinvolge le agenzie e le unità di intelligence militare e i gruppi privati del settore tecnologico.