Negli ultimi giorni, centinaia di persone tra cui decine di bambini sono state uccise in Sudan. Lo riportano testimoni civili e operatori sanitari alle testate internazionali e le Nazioni Unite, aggiungendo che gli scontri si sono «intensificati in un conflitto interno che si avvicina al suo terzo anno». Dopo i bombardamenti già riportati settimana scorsa che hanno causato almeno 54 decessi a Omdurman, il ministero della Salute ha rivelato che un ospedale è stato bersagliato da colpi di mortaio causando 6 morti e 38 feriti, mentre a Kadugli le recenti lotte intestine hanno causato la morte di almeno 80 persone, secondo un rapporto delle Nazioni Unite.
Fatti non foste
C’è un misterioso, appassionante incrocio tra giornalismo e filosofia: la passione della realtà. Una realtà che trascolora inevitabilmente dai fatti in un linguaggio, in una rappresentazione, cioè in un modo di tornare a essere.
Il giornalista deve sapere che la realtà ha una forma e che, come sosteneva Ludwig Wittgenstein, tale forma è linguaggio. Il che significa che bisogna saper costruire e offrire una logica, sia per i ragionamenti in astratto, sia nei reportage e nelle inchieste in concreto.
Le testimonianze, le valutazioni, le dichiarazioni di un’intervista, i documenti stessi sono parole-fatti, e le riprese, gli scatti fotografici sono immagini-fatti, costruzioni formali che attendono una risposta e che il lettore, lo spettatore deve accogliere come frasi di un testo-realtà.
C’è una inevitabile complessità in ciò che accade. La voce e la scrittura giornalistica la devono raffigurare, scegliendo però una strada. Una strada che renda semplici da capire le conclusioni, anche provvisorie, a cui si arriva.
Una decisione nel fare sapere è, infatti, inevitabile e il giornalista è uno che, se vuole essere chiaro, deve decidere. Non c’è altro modo. Il linguaggio le scelte le impone. Il linguaggio non è un contenitore di comunicazione, è un atto, un modo di agire
Non i semplici fatti dunque, non gli accadimenti ridotti a cause, dati, protagonisti ed effetti ma l’irradiamento verso altri luoghi e altri tempi, come se la loro origine e la loro spiegazione fossero plurime e il loro modo di presentarsi invocasse una vera e propria teoria della realtà, una moltiplicazione di ciò che è vero, come in un mosaico che attende sempre di essere terminato.
«Il lavoro del filosofo – scriveva Wittgenstein – consiste nel mettere insieme ricordi, per uno scopo determinato». Così pure il giornalista, ma con una responsabilità sociale in più, quella che, ad esempio, va a costituire il rapporto fiduciario con il lettore.
Ricordo una conversazione con Italo Calvino, in preparazione dell’importante convegno Livelli di realtà nel lontano 1978: un discorso dominato da Ulisse.
Poliedrico era Ulisse, politropo come il polpo, diciamo una intelligenza delle profondità. Si tratta quindi di esplorare procedendo con mappe che si sovrappongono e non esauriscono mai il mondo di riferimento.
Correggendo sempre la barra del timone perché quel che avviene è sì una conferma ma contiene qualcosa di nuovo. Come per ogni lingua, per ogni linguaggio, che evolvono continuamente e che mutando fanno variare i confini tra comprensione e fraintendimento, tra realtà e finzione.
Con l’obiettivo dello svelamento, perché il giornalista e il filosofo sanno che le apparenze non bastano ma che la realtà può ingannare ancora più dell’apparenza.
[di Gian Paolo Caprettini]
Gaza, Hamas libera altri tre ostaggi israeliani
Il gruppo palestinese Hamas ha liberato altri tre ostaggi israeliani. Si tratta di Eli Sharabi, Or Levi e Ohad Ben Ami, che sono stati scortati a Gaza, consegnati alla Croce Rossa. L’Esercito israeliano (IDF) ha confermato su Telegram la liberazione degli ostaggi, spiegando che i tre «sono in viaggio verso le forze dell’IDF e dell’ISA (l’agenzia di sicurezza, ndr) nella Striscia di Gaza». Si tratta del quinto rilascio di ostaggi da parte di Hamas, i cui membri hanno riferito che in cambio Israele dovrebbe liberare 183 detenuti palestinesi, di cui 18 condannati all’ergastolo.
Corte Penale Internazionale: l’Italia rompe il fronte europeo per schierarsi con USA e Israele
Dopo la firma dell’ordine esecutivo con cui il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, impone una serie di sanzioni nei confronti della Corte Penale Internazionale, l’Italia ha deciso di sfilarsi dal blocco europeo e allinearsi con l’alleato transatlantico. All’indomani dell’emissione dell’ordine, 79 Paesi membri della CPI hanno rilasciato una dichiarazione congiunta per riaffermare il proprio «continuo e incrollabile sostegno all’indipendenza, all’imparzialità e all’integrità della CPI» e condannare la decisione di Trump; tra i firmatari della dichiarazione risultano quasi tutti i Paesi del vecchio continente, tra cui Germania, Francia, Regno Unito e Spagna, mentre altrettante personalità politiche (sia comunitarie che extra-UE) hanno condannato le azioni di Trump sotto forma di dichiarazioni sui social. La decisione di ignorare la dichiarazione degli alleati da parte dell’Italia arriva in un momento di attrito tra il Paese e la CPI a causa del caso Almasri. Il governo italiano non ha ancora rilasciato alcuna dichiarazione in merito alle sanzioni di Trump e non risulta ancora chiaro se abbia in programma di assumere una posizione sulla vicenda.
La dichiarazione congiunta contro l’ordine di Trump è arrivata ieri, venerdì 7 febbraio. Con essa, i Paesi riconoscono le ragioni della CPI, rimarcando che questa si sia limitata ad «adempiere al suo mandato in conformità con lo Statuto di Roma», venendo punita per aver fatto il proprio dovere. Tuttavia, «tali misure aumentano il rischio di impunità per i crimini più gravi e minacciano di erodere lo stato di diritto internazionale»; le sanzioni, inoltre, «potrebbero mettere a repentaglio la riservatezza delle informazioni sensibili e la sicurezza delle persone coinvolte, comprese vittime, testimoni e funzionari della Corte, molti dei quali sono nostri cittadini». A rischiare di essere compromesse, sottolinea la dichiarazione, sono le indagini attualmente in corso, perché gli uffici sul campo potrebbero essere costretti a chiudere.
Trump ha firmato il proprio ordine esecutivo giovedì 6 febbraio. Con esso, il presidente aggira la decisione del Senato di non approvare l’Illegitimate Court Counteraction Act, il disegno di legge precedentemente approvato alla Camera bassa. Esso prevedeva l’applicazione di sanzioni e misure restrittive contro i giudici della Corte «impegnati in qualsiasi tentativo di indagare, arrestare, detenere o perseguire qualsiasi» politico statunitense o «persona protetta» dal Paese che, come gli USA, non riconosca la CPI. L’ordine, di fatto, applica il contenuto del disegno di legge. Con esso, «gli Stati Uniti si oppongono inequivocabilmente e si aspettano che i nostri alleati si oppongano a qualsiasi azione della CPI contro gli Stati Uniti, Israele o qualsiasi altro alleato degli Stati Uniti che non ha acconsentito alla giurisdizione della CPI». Tra le misure stabilite risultano il blocco di proprietà e beni e la sospensione dell’ingresso negli USA per funzionari, dipendenti e agenti della Corte e i loro più stretti familiari.
USA, ennesimo disastro aereo: velivolo si schianta in Alaska, 10 morti
La guardia costiera statunitense ha reso noto di aver ritrovato i rottami di un piccolo aereo regionale della compagnia Bering Air che ieri era stato segnalato disperso in Alaska. È stata confermata la morte di tutte e dieci le persone che si trovavano a bordo. Si tratta del terzo incidente di una recente serie di disastri aerei negli USA, dopo che il 30 gennaio un aereo di linea è stato colpito da un elicottero dell’esercito americano a Washington, provocando 67 morti, e il 1° febbraio un volo sanitario in un quartiere di Philadelphia ha causato la morte di sette persone e il ferimento di altre 19.
Caso Paragon: a spiare attivisti e giornalisti è stato direttamente il governo italiano?
Dopo lo scandalo emerso negli scorsi giorni relativamente alla sorveglianza illegale di giornalisti e attivisti, attraverso lo spyware Graphite della società Paragon Solutions, l’azienda che produce il software di spionaggio ha rescisso il contratto con il governo italiano. La decisione sarebbe stata presa dopo che l’esecutivo di Roma non ha risposto alle accuse mosse da WhatsApp, secondo cui il software militare in grado di violare smartphone criptati sarebbe stato utilizzato per spiare membri della società civile. L’accusa, non ancora provata, è che l’esecutivo italiano abbia intenzionalmente spiato attivisti e giornalisti con posizioni critiche verso l’amministrazione di centro-destra, violando così i termini di servizio e il quadro etico di Paragon Solutions, azienda fondata da personalità israeliane e recentemente acquisita da un fondo USA.
Nello specifico, i soggetti spiati in Italia sarebbero sette, secondo quanto riferito ieri dallo stesso governo. Quest’ultimo ha negato il suo coinvolgimento nella vicenda attraverso una nota pubblicata il 5 febbraio in cui si legge che “In merito a quanto pubblicato da alcuni organi di stampa su presunte attività di spionaggio che avrebbero riguardato operatori dell’informazione, la Presidenza del Consiglio esclude che siano stati sottoposti a controllo da parte dell’intelligence, e quindi del Governo, i soggetti tutelati dalla legge 3 agosto 2007, n. 124 (Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto), compresi i giornalisti. Trattandosi di una questione che il governo considera di particolare gravità, è stata attivata l’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale, che dipende dalla Presidenza del Consiglio”. Al momento, si sa che il governo riferirà presto al Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) sull’utilizzo dello strumento da parte degli 007, mentre l’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale sta interloquendo con lo studio legale Advant, incaricato da WhatsApp, e sta svolgendo tutte le verifiche tecniche sul caso.
La vicenda è ancora lontana dall’essere chiara. Tuttavia, è noto che Paragon vende il suo software di spionaggio Graphite esclusivamente ai governi e il giornale israeliano Haaretz ha riferito che la società ha assegnato la licenza a entrambi i rami del governo italiano che si occupano di sicurezza, vale a dire l’intelligence (che risponde alla presidenza del Consiglio dei ministri) e la polizia (che risponde al ministero dell’Interno): la società “lavora esclusivamente con entità statali, tra cui l’establishment della sicurezza israeliano e l’FBI e altri negli Stati Uniti, fornendo loro capacità di hacking”. In Italia “lavora con un’agenzia di polizia e un’organizzazione di intelligence”, si legge sul media israeliano. Il sospetto che l’esecutivo possa essere coinvolto, dunque, è lecito, sebbene ancora da appurare. Nel caso, rimarrebbero in piedi due domande: chi avrebbe messo in atto lo spionaggio – l’intelligence, la polizia o entrambe – e con quali finalità.
A rendere noto per prima il caso di spionaggio è stata l’impresa statunitense Meta che una settimana fa ha riferito che diversi attacchi informatici sono stati perpetrati attraverso la sua app di messaggistica WhatsApp e sono proseguiti per tutto il mese di dicembre. L’azienda ha avvisato con un messaggio direttamente i soggetti coinvolti, tra cui il direttore di Fanpage, Francesco Cancellato, e ha inviato una lettera di protesta a Paragon Solutions. Ha, inoltre riferito che lo spyware – software installato di nascosto per rubare i dati presenti sul telefono – sarebbe stato usato ai danni di una novantina di persone, «tra cui giornalisti e membri della società civile», in circa 20 Paesi europei. Oltre a Cancellato, sono emersi altri due nomi di soggetti presi di mira da Graphite: Husam El Gomati, attivista libico che vive in Norvegia, critico verso gli accordi dell’Italia con il Paese nordafricano per frenare le partenze di migranti, e Luca Casarini, dell’ONG Mediterranea Saving Humans. Lo spyware (o malware) in questione è del genere “zero-click”, per cui lo spiato non deve necessariamente cliccare su un link compromesso ma basta che sia soggetto all’arrivo di un file contenente l’arma informatica. In questo specifico caso, si sarebbe trattato di un file pdf.
La vicenda è particolarmente importante non solo perché è uno dei primi casi in cui giornalisti e membri della società civile risulterebbero spiati dai governi europei, ma anche perché mostra quanto sia potenzialmente semplice per le istituzioni violare i principali presupposti delle società considerate democratiche, tra cui il diritto alla riservatezza e quello dei giornalisti di fare liberamente informazione. Una possibilità potenziata da strumenti informatici e tecnologici sempre più invasivi e sofisticati. In ogni caso, occorrerà aspettare ulteriori sviluppi per fare luce sulla vicenda.
La maggioranza sta ancora affrontando lo scandalo Al Masri e questa nuova vicenda aumenta il livello di pressione da parte dell’opposizione: il Partito Democratico, il Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi Sinistra hanno chiesto al Governo di riferire in Parlamento sull’accaduto. Allo stesso tempo, gli eurodeputati Pina Picierno e Sandro Ruotolo hanno presentato interrogazioni alla Commissione europea, domandando quali misure l’Unione Europea intenda adottare per fronteggiare la questione.
Fanpage era stato bersaglio di uno scontro con il Governo nel giugno del 2024, a seguito della pubblicazione di un reportage in cui si evidenziava come all’interno del movimento giovanile di Fratelli d’Italia si muovessero ingombranti rigurgiti nostalgici del ventennio mussoliniano. Il Primo Ministro Giorgia Meloni aveva usato toni duri per denunciare i metodi adoperati durante l’inchiesta e, rivolgendosi a Sergio Mattarella, aveva affermato: «prendo atto che questa è una nuova frontiera dello scontro politico. Da oggi si potrà utilizzare a 360 gradi».
[di Giorgia Audiello]
La Corte Europea dei Diritti Umani contro l’Italia per gli eccessi nei controlli fiscali
La Corte Europea per i Diritti Umani ha condannato l’Italia per violazione del diritto al «rispetto del domicilio e alla corrispondenza». La decisione è arrivata nell’ambito di un caso riguardante le ispezioni di Guardia di Finanza e Agenzia delle Entrate avvenute tra il 2018 e il 2022 nei locali di oltre una dozzina di aziende di Foggia e dei Comuni vicini. La Corte ha criticato il «potere discrezionale illimitato» delle istituzioni nell’effettuare le verifiche e ha respinto la difesa del governo, che sostiene che tali modalità siano invece necessarie per combattere l’evasione fiscale. La CEDU ha quindi sancito la necessità di introdurre norme più specifiche in tal senso, oltre che di garantire ai professionisti l’accesso a un ricorso «efficace».
Nello specifico, la pronuncia della CEDU riguarda il caso “Italgomme Pneumatici S.r.l. v. Italy” e altre 12 richieste analoghe, presentate da diverse aziende. Le società coinvolte hanno denunciato la mancanza di tutele contro l’invadenza delle ispezioni fiscali, che si sono tradotte in sequestri di documenti, copie di registri contabili e accesso illimitato a informazioni aziendali sensibili. La Corte ha respinto la difesa del governo italiano, che aveva sostenuto che le ispezioni fossero giustificate dalla necessità di contrastare l’evasione fiscale e che i contribuenti avrebbero potuto presentare ricorso. Per i giudici europei, le leggi attuali non garantiscono infatti sufficienti salvaguardie, poiché la legalità, necessità e proporzionalità delle ispezioni non sono soggette a un adeguato scrutinio. In particolare, la CEDU ha evidenziato come non sia richiesta alcuna giustificazione specifica per autorizzare le ispezioni nei locali aziendali e, in alcuni casi, la Guardia di Finanza non necessiti neppure di un’autorizzazione scritta per procedere. Di conseguenza, la CEDU ha dichiarato che le ispezioni fiscali condotte in assenza di un controllo adeguato costituiscono una violazione dell’Articolo 8 della Convenzione.
La sentenza non si limita però a una semplice constatazione di violazione. La Corte ha infatti richiesto all’Italia di adottare misure generali di riforma per conformare la legislazione e la prassi nazionale ai principi sanciti dalla Convenzione Europea. In particolare, il nostro Paese sarà chiamato a chiarire le condizioni e i limiti delle ispezioni fiscali, specificando con precisione le circostanze in cui le autorità possono effettuare controlli nei locali aziendali e professionali con l’obiettivo di impedire accessi indiscriminati e limitare l’acquisizione di documenti non strettamente necessari. Inoltre, l’Italia dovrà garantire un effettivo controllo giudiziario: le aziende e i professionisti devono poter contestare le ispezioni in tempo reale, così che un giudice abbia margine per valutare la legittimità e la proporzionalità dei controlli prima che si concludano, senza che il ricorso sia subordinato all’eventuale esito dell’accertamento fiscale.
Questo verdetto inaugura un’importante sfida per il sistema di controlli fiscali in Italia. Se il governo non adotterà le riforme richieste, potrebbe essere soggetto a ulteriori ricorsi e sanzioni da parte della CEDU. Inoltre, la decisione potrebbe rappresentare un precedente per altre aziende che hanno subito controlli invasivi, con un aumento del contenzioso nei confronti dello Stato. La palla passa ora al legislatore, che dovrà intervenire per garantire che le verifiche fiscali siano condotte nel rispetto delle garanzie previste dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
[di Stefano Baudino]
Viaggio a Kobane: nel cuore della rivoluzione confederalista del Kurdistan
Al confine tra Iraq, Siria e Turchia c’è un ponte galleggiante che attraversail fiume Tigri. Siamo nel cuore del Kurdistan, il Paese che, per volere delle potenze europee e degli imperi ottomano e persiano, non è mai esistito, e che oggi è diviso tra Turchia, Iran, Siria e Iraq. Da 13 anni, l’unico modo ufficiale per entrare in Rojava, regione siriana del Kurdistan, è necessario affrontare lunghi controlli di frontiera alla dogana irachena, attraversando gli uffici decorati dalle immagini del leader curdo Masoud Bazoum. Una volta attraversato il ponte ed entrati in Sira, tuttavia, è il ritratto di Abdullah Öcalan a tappezzare gli edifici. Leader e fondatore del PKK (Partito dei Lavoratori Curdi), Öcalan si trova in isolamento nelle prigioni turche da quasi 26 anni. A lui si attribuisce l’ideazione del confederalismo democratico come alternativa di governo decentralizzato per il Kurdistan e per tutto il Medio Oriente. Un’idea di democrazia diretta che vuole andare oltre lo stato nazione, che favorisce l’autogoverno dei popoli e mira a dare uguale rappresentanza a tutte le minoranze e alle donne. E la città di Kobanê è uno dei simboli di questa rivoluzione.
Il Rojava è una lingua di terra che si estende da Kobanê fino al confine con l’Iraq, e si trova proprio tra i fiumi Tigri ed Eufrate. Da qui è partita la rivoluzione confederalista, che attraverso un sistema organizzativo su base comunalista, dalla dimensione del quartiere fino a quella della provincia, ha delineato una forma istituzionale dove il potere politico, economico e giudiziario sono decentralizzati e dove ogni carica istituzionale è presieduta sia da un uomo che da una donna. Si tratta tutt’oggi di un esperimento, che ogni giorno cambia e va migliorando grazie alla costituzione della DAANES (Amministrazione Autonoma della Siria del nord-est), che oggi amministra più di un terzo della Siria, superando i confini della regione curda. Nonostante il progetto rivoluzionario sia stato avviato e rimanga condotto dai curdi, perseguitati dal regime Baathista per oltre cinquant’anni, sotto l’ombrello della DAANES vivono per la maggior parte arabi, ma anche turkmeni, ceceni, assiri, siriaci, yazidi, armeni. Man mano che il progetto confederalista cresceva, sempre più comunità prendevano parte alle istituzioni di autogoverno, portando i loro interessi e i loro diritti all’interno dell’unico progetto rivoluzionario del secolo corrente. Si espandeva il confederalismo e insieme a esso veniva sconfitto Daesh, villaggio per villaggio, dalle Forze Democratiche Siriane (SDF), coalizione delle forze militari democratiche della regione a trazione YPG-YPJ (le unità di difesa popolare curde miste e delle donne).

La liberazione di Kobanê, dieci anni dopo
Nei giorni scorsi in Rojava si è festeggiato il decennale della liberazione di Kobanê da Daesh. La città è uno dei simboli della rivoluzione confederalista: da qui inizia la controffensiva a danno dello Stato Islamico. La liberazione di Kobanê è il momento in cui il confederalismo democratico sembra davvero un’alternativa di governo nella regione. A dieci anni da questi eventi in Siria è l’alba di una nuova era. Per la DAANES è un momento cruciale: il progetto confederalista ha la possibilità di giocare un ruolo importante per il futuro della Siria unita. Dopo tanti anni potrebbe essere il momento di deporre le armi, ma dall’altro lato del tavolo negoziale le fazioni comandate da Al-Jolani, molto vicine alla Turchia di Erdogan, non hanno ancora dimostrato concretamente di essere intenzionati a includere tutti, in particolare i curdi, nella costruzione di una Conferenza Nazionale per disegnare la Siria di domani. «Nelle zone in cui ha preso il potere HTS stiamo già vedendo persone minacciate e perseguitate per la loro etnia o religione. Cristiani, yazidi, alawiti… Abbiamo certamente bisogno di un conferenza nazionale, ma questa deve essere sotto l’ombrello delle Nazioni Unite, affinché sia concesso a tutte le parti della società di parteciparvi ed essere rappresentate» mi dice Gharib Hassou, il neo eletto co-segretario del PYD, primo partito nel Kurdistan Siriano. «A Damasco vediamo Al Jolani insieme agli emiri dell’Isis, di Al Nusra e di tante altre fazioni islamiche fondamentaliste», aggiunge. «Abbiamo combattuto 13 anni e siamo stanche. Se ci garantiranno i nostri diritti in quanto donne e in quanto curde, lasciandoci la facoltà di proteggere ciò ci siamo guadagnate in questi anni, allora deporremo le armi», mi confida Emine Ose, tra le donne del Kongra Star che ho incontrato nella città di Quamishli, roccaforte della DAANES. Il suo messaggio è chiaro: «se ci sarà dialogo non ci sarà bisogno di armi. Se invece ci offriranno oppressione, non abbasseremo la testa».
La lotta per la diga
I combattenti e le combattenti delle SDF, YPG e YPJ non hanno ancora deposto le armi. A pochi chilometri da Kobanê devono difendere la diga di Tishreen, dove ogni giorno centinaia di civili si recano per protestare pacificamente e difendere una delle infrastrutture più importanti della regione per le risorse idrighe ed elettriche. Ogni giorno in centinaia vengono feriti. Molti vengono uccisi dai droni turchi. A poche decine di chilometri più a ovest il fronte contro la SNA (l’Esercito Nazionale Siriano), milizie mercenarie a prevalenza Turkmena che portano avanti l’agenda Turca nel Nord della Siria. «Due mesi fa è caduto il regime di Assad, e quasi un mese fa sono iniziati gli scontri alla diga dopo che abbiamo perso Manbij. Il nuovo governo deve decidere se vuole difendere il loro paese dalle violenze dei nostri vicini», afferma Rohilat Afrin, la comandante in capo alle Ypj, mentre accoglie una delegazione internazionale di solidali nel quartier generale vicino ad Hasake. E manda un messaggio chiaro al nuovo presidente della Siria: andare a braccetto con Erdogan significa scegliere di non difendere il proprio paese dalle ingerenze esterne.
La Turchia vuole impossessarsi della diga di Tishreen, sul fiume Eufrate, per tagliare i rifornimenti di acqua e di energia elettrica della città. Kobanê è chiusa a nord dal confine e a ovest dalle terre occupate nel 2018 a seguito dell’operazione Ramoscello d’ulivo, durante la quale la Turchia ha occupato diverse città importanti tra cui Afrin, obbligando più di 400.000 persone a lasciare la propria casa. Quegli stessi sfollati ora scappano dalle zone limitrofe a Manbij, presa dalle SNA dopo la caduta del regime. «La Turchia colpisce intenzionalmente i civili. Mira bambini, donne e anziani. Mio padre è appena stato ferito alla diga» mi dice Zehra, dottoressa di Kobanê, nella piazza dei Martiri dove si stanno volgendo le celebrazioni della liberazione. Abdul, professore universitario sui 50, si avvicina deciso per farmi capire chiaramente di cosa stiamo parlando. «Siamo tutti un bersaglio per la Turchia, e infatti resistiamo tutti, anziani e bambini. I nostri figli sono al fronte, quindi noi continueremo. Non abbiamo paura». In tutto il territorio amministrato dalla DAANES sono tantissimi i civili che raccontano la loro esperienza alla diga. Con molti è difficile fissare un appuntamento «domani devo andare a Tishreen». Con i loro corpi si interpongono tra il diritto ad una vita dignitosa e ai crimini di guerra di un paese NATO.
Oltre ai loro diritti difendono la rivoluzione, per la quale Kobanê è un simbolo importantissimo. «Qui abbiamo sconfitto l’Isis. E abbiamo pagato con la vita di migliaia di giovani martiri». E sono in migliaia, nonostante la guerra a pochi chilometri, le persone che lo scorso 26 gennaio hanno preso parte alle celebrazioni per il decennale dalla liberazione. A Kobanê sono sicuri che da questa resistenza ne usciranno vittoriosi. «Vinceremo e continueremo a resistere. Dieci anni fa eravamo bambini, ora combattiamo noi al fronte per difendere la rivoluzione», mi dice Kawa, 22 anni. Jassur, Omar e Wael corrispondono all’identikit del compagno. Hanno rispettivamente 20, 22 e 20 anni. Sono combattenti dell’esercito a difesa della città. «Mio fratello e i miei vicini di casa sono al fronte. Pochi giorni fa siamo andati anche noi alla diga e insieme a noi sono morti una coppia, marito e moglie. Loro figlio ha 2 anni e ora è orfano», dice Jassur. Oltre alla piazza anche il cimitero dei martiri di Kobanê è teatro di numerose celebrazioni, oltre che di frequenti riti funebri, dato che ogni giorno qualche giovane combattente perde la vita. Mi avvicino a una signora che con la famiglia piange sulla tomba del marito, morto nel 2018 sempre durante la guerra con i turchi. «Adesso anche mio figlio è diventato un martire alla diga, pochi giorni fa». Dice dirigendosi verso la sezione del cimitero dove i corpi sono ancora seppelliti a terra perché deceduti da poco.
«Nello stesso giorno abbiamo liberato questa città e abbiamo protetto tutto il mondo. Allo stesso modo proteggeremo la diga per tutelare tutta la Siria. Da Kobanê a Damasco». Le parole di Asisa, anche lei presente in piazza, dicono molto del momento che potrebbe vivere il popolo siriano tutto in questo momento. Dopo 13 anni in cui il Paese ha fatto da scacchiera per le grandi potenze esterne, oggi i siriani possono autodeterminarsi se veramente costruiscono una prospettiva di unità. Sta ai diversi attori che hanno composto la rivoluzioni siriane: sia quelle democratiche che quelle islamiste. È un momento cruciale e di cambiamento anche per tutto il popolo curdo. Da un lato l’incontro ufficiale di poche settimane fa tra Masoud Barzani e il generale Mazlum Abdi – comandante generale delle SDF – ne è la dimostrazione. Fino a poco tempo fa i rapporti dell’amministrazione autonoma con i curdi “barzaniani” non erano così distesi, per via principalmente del loro legame con Erdogan. Dall’altro è significativo il fatto che dopo molto tempo si stiano iniziando a smuovere le acque sulla liberazione di Abdullah Ocalan. «Se ci saranno veramente progressi sulla liberazione di Ocalan, allora prenderemo seriamente quelle che per adesso sono ancora parole. Se Ocalan davvero prenderà parola, questo potrebbe avere implicazioni decisive per la pace in Kurdistan. Erdogan però sta intensificando il conflitto», mi dice sempre Gharib Hassou. «Come curdi in Siria», riprende, «siamo stati perseguitati per cento anni. Da un lato dobbiamo risolvere la questione curda e dall’altro dobbiamo fare in modo che cessino gli attacchi turchi. Stiamo organizzando una Conferenza Nazionale Curda proprio per capire come procedere su questi due fronti».
Il tradimento occidentale
Molte potenze giocano tuttavia ancora un ruolo fondamentale nell’area. Primi tra tutti gli americani, a capo della coalizione internazionale che ha supportato le SDF nella sconfitta di Daesh sul campo. «Non ci hanno aiutato a sconfiggere l’Isis. Hanno aiutato loro stessi», mi dice Arad, ex combattente curdo. «Non mi piace che siano qui, ma al tempo stesso questo ci tutela dalla minaccia di un’invasione turca». Fa riferimento ai quasi 2000 soldati presenti nelle due basi militari ad Hasake. Pochi giorni fa proprio qui la popolazione locale protestava per l’ipocrisia americana, sostenendo che gli Stati Uniti occupano il territorio curdo solo per i propri interessi. I rapporti istituzionali però, per forza di cose data la situazione, sono positivi. Sia Mazlum Abdi che Elhan Ahmad, tra le figure più importanti della DAANES a livello politico, sono stati invitati all’insediamento di Trump alla Casa Bianca lo scorso 20 gennaio. La recente decisione di Trump di sospendere per tre mesi gli aiuti umanitari americani non va tuttavia esattamente nella direzione di una partnership solida per sconfiggere definitivamente Daesh. Sebbene questa sia la ragione ufficiale della presenza militare degli Stati Uniti in Rojava, l’immediata sospensione degli aiuti umanitari ha causato il licenziamento di quasi mille operatori umanitari soltanto nei campi di Al Hol e Roj, dove sono detenute le famiglie dei combattenti dell’Isis, provenienti da tutto il mondo. Specialmente negli ultimi mesi, da quando la Turchia ha ricominciato gli attacchi a danno della DAANES, la gestione del campo è sempre più complessa. «Fermare improvvisamente i progetti umanitari aumenterà le condizioni di disagio e di povertà nei campi e nelle zone che più sono state colpite da Daesh. Alcuni progetti erano pensati proprio per allontanare i giovani dal terrorismo nero. Ora avranno una strada spianata per reclutare giovani disperati che non hanno alternative. Magari offrendo soldi alle famiglie per farsi esplodere in un centro abitato», mi spiega M., una fonte che ha lavorato come coordinatore di progetti del US Aid, che preferisce rimanere anonimo.
Da quando HTS ha preso Damasco i campi erano già in subbuglio. I detenuti pensano che Al-Jolani li libererà, e non si tratta per forza di speculazioni dopo che sono di recente apparsi al suo fianco alcuni tra i più importanti esponenti di Daesh. Anche per questo, oltre al suo passato di affiliazione con Al Qaeda, la maggior parte delle persone in Rojava non si fidano di lui. In particolare le donne: «dentro la DAANES i nostri diritti sono garantiti, ma nelle zone governate da HTS abbiamo paura che non sarà lo stesso», mi dice Asisa, responsabile del centro per i disabili di Kobanê. «Da Al Jolani non vogliamo dichiarazioni ma fatti. Ci saranno discussioni democratiche a cui potremo partecipare o no? Le YPJ vogliono rimanere parte dell’esercito mantenendo la nostra autonomia», di nuovo la comandante in capo delle YPJ Rohilat Afrin. E ancora la rappresentante dell’assemblea delle donne Kongra Star: «nel governo temporaneo non c’è nemmeno una donna. Senza donne non c’è futuro democratico».
Era il 5 ottobre del 2014, e proprio una donna, Arin MIxran, combattente delle YPJ ha dato il via alla liberazione di Kobanê facendosi esplodere tra i miliziani di Daesh disarmandoli dell’artiglieria più pesante e della postazione più strategica per l’assedio, la collina di Mishtenur. Grazie al suo sacrificio e a quello di altre figure leggendarie della siria rivoluzionaria come Faysal Abu Leyla, combattente mezzo arabo e mezzo curdo del battaglione del Sole del Nord, Kobanê è stata liberata e la prima rivoluzione del nostro secolo ha preso forma in una delle regioni più conservatrici del pianeta. Se oggi Kobanê cade non si abbandonano soltanto le persone che hanno sacrificato tutto per sconfiggere un cancro globale. Far cadere Kobanê significa lasciar morire un’esperienza che per tutti noi lotta contro i numerosi cancri che attanagliano le nostre società: il patriarcato, il razzismo e le disuguaglianze dell’iper capitalismo.
[di Mosè Vernetti]