sabato 6 Settembre 2025
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Singapore scioglie il parlamento: elezioni il 3 maggio

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Il presidente di Singapore, Tharman Shanmugaratnam, ha sciolto il Parlamento su consiglio del primo ministro Lawrence Wong. La decisione è arrivata oggi pomeriggio, martedì 15 aprile, ed è stata seguita da una dichiarazione del Dipartimento elettorale che ha annunciato che le prossime elezioni si terranno il 3 maggio. Il governo, invece, dovrebbe decadere il 23 aprile. Le elezioni arriveranno così in anticipo rispetto a quanto previsto, e, secondo diversi analisti, dovrebbero venire vinte dal Partito d’Azione Popolare dello stesso Wong, al potere sin dalla dichiarazione di indipendenza del Paese nel 1965.

Il Congo tra sfruttamento e resistenza

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C’è un’alta probabilità che, mentre scorri un testo come questo sul tuo smartphone, una minuscola particella di metallo nel tuo dispositivo provenga dalle profondità della Repubblica Democratica del Congo. Nascosto nel sottosuolo congolese, il coltan alimenta la nostra tecnologia, mentre il cobalto è il cuore pulsante della rivoluzione elettrica globale. Eppure, mentre il mondo costruisce il proprio futuro sulle risorse della RDC, il popolo congolese resta intrappolato in un presente di miseria e sfruttamento

La RDC è un paradosso crudele: possiede alcune delle risorse più preziose del pianeta – coltan per l’elettronica, cobalto per le batterie, oro e diamanti destinati ai mercati globali – eppure la popolazione è tra le più povere del mondo. L’abbondanza mineraria ha reso il Congo una preda ambita, vulnerabile a ingerenze esterne e conflitti interni. Le sue ricchezze non portano benessere, ma instabilità, violenza e sfruttamento. 

Nel Nord Kivu, il conflitto si nutre di minerali. L’M23, e altri gruppi armati, si contendono il controllo delle miniere, trasformando la guerra in un affare redditizio. A migliaia di chilometri di distanza, a Kolwezi, il panorama è diverso, ma il meccanismo è lo stesso: qui il cobalto viene estratto non sotto il controllo delle milizie, ma delle multinazionali. Le concessioni governative permettono alle aziende straniere di gestire la produzione su larga scala, mentre le comunità locali restano ai margini, senza tutele, senza diritti, senza futuro. Kolwezi è il cuore pulsante della produzione di cobalto globale. Il mondo vuole più batterie, più tecnologia, più elettricità. Ma a quale prezzo? Nel report di Still I Rise Raccontare il presente, cambiare il futuro è documentata una realtà allarmante: il settore minerario non porta benefici diretti alla popolazione locale. Il 70% delle famiglie intervistate vive in aree concesse alle compagnie straniere. La loro casa è terra di nessuno, ogni giorno rischiano di essere sfrattati per fare spazio a un nuovo cantiere di estrazione. 

Lavorare in miniera significa rischiare la vita ogni giorno. Sette famiglie su dieci hanno almeno un membro impiegato nelle miniere, spesso in condizioni disumane. Scavare, trasportare, lavare minerali: azioni ripetute fino allo sfinimento, senza protezioni, senza diritti, senza alternative. Le malattie professionali sono diffuse, i crolli improvvisi frequenti, e chi subisce un incidente raramente riceve cure adeguate. Solo l’1% dei lavoratori ha un’assicurazione sanitaria. 

E poi ci sono i bambini. La metà delle famiglie ha almeno un figlio che lavora in miniera, spesso iniziando a 13 anni, a volte prima. Trasportano carichi pesanti, lavano minerali nelle acque tossiche, si infilano in tunnel scavati a mani nude. Alcuni iniziano a lavorare prima ancora di saper leggere. Quando il cibo scarseggia, l’istruzione passa in secondo piano: le famiglie devono scegliere tra mandare un figlio a scuola o sopravvivere. 

Le miniere di Kolwezi non sono solo luoghi di sfruttamento economico, ma anche sociale. La precarietà abitativa e lavorativa si accompagna alla totale assenza di servizi essenziali: l’accesso ad acqua potabile, elettricità e cure mediche scarseggiano. Il progresso estrattivo convive con la mancanza di infrastrutture basilari, in un paradosso che lascia le comunità locali senza prospettiva. 

Un futuro rubato o uno possibile?

Nel 2022 a Kolwezi, Still I Rise ha aperto la prima Scuola di Emergenza e Riabilitazione del Lualaba. (Foto di Still I Rise)

Kolwezi e il Nord Kivu, così lontani eppure così simili, sono l’emblema di un Paese in cui le risorse sono una condanna, non un’opportunità. Ma esiste un’altra strada: quella dell’istruzione, della consapevolezza, della resistenza. 

A Kolwezi, Still I Rise ha scelto di intervenire per offrire un’alternativa ai bambini intrappolati in questo ciclo di sfruttamento. Nel 2022 l’organizzazione ha aperto la prima Scuola di Emergenza e Riabilitazione del Lualaba, un luogo in cui i bambini possono finalmente essere bambini. La Still I Rise AcademyKolwezi è l’unica nell’intera regione a offrire istruzione di eccellenza, protezione dell’infanzia e un supporto completo che include alimentazione, assistenza psicosociale e cure sanitarie. 

Il Congo è una terra dove la ricchezza si dissolve nelle mani sbagliate, lasciando dietro di sé povertà e sfruttamento. Ma c’è qualcosa che non può essere rubato: la speranza di un futuro diverso. E ogni bambino che entra a scuola è la prova che questo futuro è possibile.

Negli USA inizia il processo per il monopolio di Meta

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È iniziata la causa dell’antitrust statunitense nei confronti di Meta, azienda che dovrà difendersi dall’accusa di aver adottato comportamenti anticoncorrenziali. Dopo l’acquisizione di WhatsApp e Instagram, la big tech avrebbe creato un monopolio capace di soffocare il panorama dei social. Per questo, la Federal Trade Commission (Ftc) chiede un riequilibrio attraverso la cessione delle app in questione. Il processo raccoglierà le testimonianze dei dirigenti di Meta, ma anche di quelli di TikTok, Google, Snap e YouTube. Sempre ammesso che il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, non scelga di intervenire per far cadere le accuse.

L’UE ha annunciato 1,6 miliardi di fondi per “la ripresa e la resilienza” della Palestina

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L’Unione Europea ha proposto un pacchetto da 1,6 miliardi per la Palestina da erogare tra il 2025 e il 2027. La misura è stata annunciata con un comunicato stampa denso di parole di supporto alla causa palestinese, ma privo di concretezza: la maggior parte dei fondi andrebbe all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) per favorire un processo di riforma interna e «per aiutarla a rispondere alle esigenze più urgenti della pubblica amministrazione», in questo momento impegnata a soddisfare le richieste di Israele; un quarto del denaro sarebbe destinato agli investimenti privati, mentre un terzo – che gestirebbe sempre l’ANP – agli aiuti effettivi, che tuttavia inizierebbero a venire erogati solo «una volta che le condizioni sul campo lo consentiranno». Un intervento che ha tutta l’aria di essere di facciata, insomma, come confermano le parole di inizio e fine comunicato: con questa misura l’UE vuole contribuire ad arrivare a «una pace duratura e sostenibile fondata sulla soluzione dei due Stati», ma naturalmente senza riconoscere la Palestina.

La proposta di finanziamento europea ruota attorno a tre «pilastri»: supporto ai servizi, sostegno alla ripresa e alla stabilizzazione della Cisgiordania e di Gaza, e supporto al settore privato. Per quanto concerne il primo punto, l’UE intende stanziare circa 620 milioni di euro in sovvenzioni di assistenza diretta al bilancio dell’Autorità Nazionale Palestinese. «Tali sovvenzioni», si legge nel comunicato, serviranno principalmente «ad attuare le riforme chiave in materia di sostenibilità fiscale, governance democratica, sviluppo del settore privato e infrastrutture e servizi pubblici, contribuendo alla costruzione sostenibile dello Stato nei territori palestinesi». Riguardo ai fondi dedicati alla ripresa e alla stabilizzazione della Striscia, l’UE propone un pacchetto di massimo 576 milioni di euro «in sovvenzioni per sostenere progetti concreti sul campo» nei settori dell’acqua, dell’energia e delle infrastrutture, che verranno erogati solo «quando la situazione lo consentirà». Nell’ambito di questo finanziamento, l’UE propone inoltre un pacchetto di 82 milioni di euro all’anno all’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA). Il piano, infine, prevede 400 milioni da destinare ai privati tramite la Banca Europea per gli Investimenti.

Solo gettandovi un rapido sguardo, è facile notare come l’iniziativa dell’Unione Europea sembri tutto tranne che un inedito slancio filantropico nei confronti dei palestinesi. Il comunicato si apre con un annuncio dai toni decisi in cui l’UE dice di «ribadire il suo incrollabile sostegno al popolo palestinese e il suo impegno per una pace duratura e sostenibile basata sulla soluzione dei due Stati». Si chiude con una nota seguita da un asterisco in cui specifica che «la presente designazione non deve essere interpretata come riconoscimento dello Stato di Palestina». In una situazione come quella attuale, proporre un aiuto finanziario negando il riconoscimento politico rischia di risultare in uno sforzo vano. Se poi nel frattempo si continua a sostenere incondizionatamente lo Stato ebraico, senza esercitarvi pressioni o proporre misure per contenerne i suoi intenti genocidi, quello sforzo sembra configurarsi come una iniziativa di facciata.

Va inoltre sottolineato che la quasi totalità dei finanziamenti verrebbe data in mano all’ANP, che negli ultimi quattro mesi ha tagliato i fondi per le famiglie delle vittime e dei prigionieri palestinesi, chiuso i canali di Al Jazeera in Cisgiordania, e portato avanti l’operazione militare “Protezione della Patria” contro il suo stesso popolo, terminandola in concomitanza con l’avvio dell’operazione “Muro di Ferro” dell’esercito israeliano. Il presidente dell’ANP, Mahmud Abbas, inoltre, ha invitato ad «andare in pensione anticipata» diverse figure politiche di spicco che gli si opponevano, tra cui il segretario del Comitato per gli Affari dei Prigionieri Palestinesi, Qadura Fares. La maggior parte dei finanziamenti stanziati all’ANP, peraltro, è rivolta al funzionamento dell’organizzazione, e non al sostegno del popolo palestinese.

Soffermandosi attentamente sui finanziamenti, infatti, emerge come i fondi stanziati non siano davvero così ingenti come l’UE vorrebbe far credere: gli aiuti diretti alla popolazione palestinese, da finanziare mediante i programmi dell’UNRWA, si attestano a circa 245 milioni di euro, pari a un sesto del pacchetto nella sua interezza. Essi, inoltre, non arriverebbero ora che la situazione nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania risulta particolarmente critica, ma in un non meglio specificato momento in cui «le condizioni lo permettono». Anche i fondi per la ricostruzione sono ben più ridotti di quanto sembri. In questo momento, Israele sta portando avanti un piano di demolizione e occupazione della Cisgiordania, mentre la Striscia risulta in gran parte rasa al suolo: la proposta di pace egiziana avanzata lo scorso marzo promuoveva un piano di ricostruzione della Striscia di Gaza dal valore complessivo di circa 47 miliardi di euro. Di fronte a queste stime, l’UE propone – al netto degli aiuti all’UNRWA – un finanziamento di massimo 330 milioni di euro da spartire tra Gaza e Cisgiordania.

All’8 aprile, data dell’ultimo aggiornamento dell’ONU, Israele ha distrutto o danneggiato il 92% delle case, l’82% delle terre coltivabili, l’88,5% delle scuole e, in generale, il 69% di tutte le strutture della Striscia. In totale, dall’escalation del 7 ottobre, l’esercito israeliano ha ucciso direttamente oltre 51.000 persone, anche se il numero totale dei morti potrebbe superare le centinaia di migliaia, come sostenuto da un articolo della rivista scientifica The Lancet e da una lettera di medici volontari nella Striscia.

Milano, al corteo per Gaza c’era anche un agente con una felpa neonazista

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Non solo cariche e manganellate sui manifestanti raccontate dai media in modo arbitrario e parziale, come abbiamo dimostrato in un articolo pubblicato ieri su L’Indipendente. Ora emerge che, tra gli agenti che sabato scorso hanno caricato i manifestanti al corteo per la Palestina di Milano ce n’era anche almeno uno che indossava una felpa infarcita di simboli neonazisti. Le riprese, rilanciate dal portale di movimento Osservatorio Repressione, mostrano infatti un poliziotto con un giubbino nero in cui si legge la scritta “Narodowa Duma” (“Orgoglio Nazionale”), slogan legato a un gruppo neonazista polacco. Un altro agente indossava una felpa con un toro stilizzato, che alcuni associano agli ultras di estrema destra e militanti neonazisti polacchi “Teschi dell’Aquila”, altri a una palestra di Milano. La Digos, dopo avere acquisito le immagini, ha comunicato di avere identificato entrambi i poliziotti coinvolti.

La questura della città meneghina sta approfondendo la questione, visionando il materiale. Se l’agente con la felpa recante il simbolo del toro ha affermato di avere ottenuto l’indumento da una palestra da lui frequentata a Paderno Dugnano, il poliziotto con il giubbino con la scritta “Narodowa Duma” – rispetto a cui ci sono invece pochi dubbi – ha provato a difendersi sostenendo di non essersi reso conto del significato politico di quella frase. Lo avrebbe detto ai colleghi che lo hanno identificato, aggiungendo che avrebbe comprato quel capo mentre si trovava in Polonia per visitare i campi di concentramento nazisti della Shoah. La questura sta valutando per il poliziotto provvedimenti per potenziali responsabilità disciplinari, chiarendo che l’uomo non era autorizzato a indossare quel giubbino durante il servizio. L’agente è in servizio presso un commissariato del capoluogo lombardo e non ha specifiche competenze in materia di ordine pubblico. Con tutta probabilità, al centro del procedimento – che non dovrebbe sfociare in una sospensione o in un trasferimento – ci sarà l’ipotesi di lesione al prestigio dell’amministrazione. Sulla vicenda si muove anche la politica: Angelo Bonelli, coportavoce nazionale di Europa Verde e parlamentare di Alleanza Verdi Sinistra, ha annunciato che indirizzerà un’interrogazione al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. «Voglio sapere se ritiene normale che un agente delle forze dell’ordine possa indossare, durante il servizio, una giacca non prevista dall’uniforme ufficiale, per di più con simboli chiaramente riconducibili all’estrema destra internazionale – ha dichiarato il deputato -. È inaccettabile che chi rappresenta lo Stato sul campo, durante operazioni di ordine pubblico, possa lanciare un messaggio ideologico così pericoloso».

La manifestazione nazionale per la Palestina in cui erano presenti i due agenti che ora sono sotto l’occhio della Digos è andata in scena sabato scorso. Quando il corteo, dopo una lunga marcia pacifica, aveva quasi raggiunto la sua meta, la situazione è degenerata in una carica della polizia che ha portato all’arresto di 7 persone, che sono tornate a casa con denunce per resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento, oltre che con fogli di via. Quando l’isola di traffico che apre Piazza Baiamonti è stata raggiunta da uno striscione attribuito ai soliti non meglio identificati “gruppi antagonisti”, dietro cui si trovavano solo persone intente a camminare, la polizia ha chiuso a uncino il corteo, spaccandolo a metà e caricando i manifestanti. Le forze dell’ordine hanno provato ad arrestare arbitrariamente alcuni dei presenti, sventolando gli sfollagente alla cieca. Nel frattempo, il cordone parallelo a quello che ha iniziato le cariche ha iniziato a spingere i manifestanti con gli scudi, e colpito la gente con calci e manganellate, per poi iniziare a prelevare in maniera violenta alcuni dei presenti.

Ungheria, bando alle manifestazioni Lgbtq+ entra in Costituzione

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Il Parlamento ungherese ha dato il via libera con un’ampia maggioranza a un emendamento costituzionale che rafforza il divieto della Pride March, introducendo nuove restrizioni contro la comunità Lgbtq+. Il testo, che ha ottenuto il semaforo verde con 140 sì e soltanto 21 parlamentari contrari, fornisce la base costituzionale alla legge approvata il 18 marzo che vieta la marcia annuale del Pride, rafforzando la linea dell’esecutivo contro il riconoscimento delle identità di genere non binarie. Il provvedimento prende di mira anche le persone con doppia o multipla cittadinanza, considerate potenziali «traditori della nazione», che  potranno essere private della cittadinanza ungherese ed espulse dal Paese.

I dati di migliaia di cittadini italiani sono finiti in mano agli hacker

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Un nuovo attacco informatico scuote Milano e altre città italiane: i dati personali degli utenti dell’app ATM, utilizzata per l’acquisto di biglietti e abbonamenti del trasporto pubblico, sono stati violati e trasferiti su un archivio esterno non autorizzato. A comunicarlo è stata la stessa Azienda Trasporti Milanesi, che ha confermato la compromissione di informazioni anagrafiche e di contatto a seguito di un attacco subito da Mooney Servizi S.p.A., società incaricata della gestione dei dati. ATM non è l’unica azienda a essere stata colpita: a stretto giro sono arrivate le comunicazioni di altre società coinvolte nello stesso attacco, come Tuabruzzo, UNICO Campania e Busitalia Veneto. Non sarebbero stati intercettati dati bancari, credenziali di accesso o indirizzi di residenza.

L’attacco, avvenuto il 5 aprile scorso, ha messo in evidenza quanto sia vulnerabile un sistema che affida la gestione dei dati sensibili a molteplici fornitori esterni. In particolare, l’intrusione ha colpito un archivio ospitato da WIIT S.p.A., società di servizi cloud scelta da Mooney Servizi – che è partecipata al 50% da Isybank (Intesa San Paolo) e al 50% da EnelX – per custodire i dati dei propri clienti. Gli hacker sarebbero riusciti a copiare i dati su un cloud esterno, ma le modalità precise dell’esfiltrazione sono ancora oggetto di indagine. I dati sottratti comprendono nome, cognome, indirizzo email, numero di telefono e informazioni relative al profilo cliente. Nessun dato bancario, carta di credito o password è stato compromesso. Tuttavia, ATM ha evidenziato che il rischio principale è la perdita di riservatezza e l’uso non autorizzato delle informazioni, con possibili conseguenze in termini di phishing, tentativi di truffa o campagne di spam mirate. In risposta all’accaduto, ATM ha immediatamente chiesto a Mooney Servizi una reportistica aggiornata e dettagliata sulle contromisure adottate. Sono stati inoltre rafforzati i sistemi di sicurezza per l’accesso da parte di soggetti terzi e il data breach è stato regolarmente notificato al Garante per la Protezione dei Dati Personali e all’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale, come previsto dalla normativa.

Anche Mooney Servizi ha agito tempestivamente, fornendo informazioni ai clienti sulla violazione dei dati, isolando i propri sistemi per impedire ulteriori accessi non autorizzati e collaborando con le autorità competenti per limitare l’impatto dell’attacco. Nonostante l’immediata reazione, l’episodio ha riacceso il dibattito sulla fragilità delle infrastrutture digitali pubbliche e sulla necessità di criteri di sicurezza più stringenti quando si tratta di gestire dati sensibili dei cittadini. Le indagini tecniche sono in corso per definire l’esatta portata dell’attacco e per identificare i responsabili. Nel frattempo, sia ATM che le altre aziende coinvolte hanno invitato tutti gli utenti a prestare la massima attenzione a eventuali email sospette o richieste anomale di dati personali. Gli utenti dovrebbero infatti diffidare di comunicazioni che sembrano provenire da istituzioni ufficiali ma che potrebbero nascondere tentativi di frode.

Haiti, approvato fondo straordinario di 240 milioni contro le gang

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Il consiglio presidenziale di transizione di Haiti ha approvato quello che viene definito un «fondo di guerra» straordinario per affrontare la lotta alle bande armate. Il fondo è pari a 36 miliardi di gourdes, circa 241 milioni di euro, e servirà a rafforzare le forze di sicurezza, proteggere il confine, e sostenere i programmi di assistenza sociale. Haiti è ormai da anni  in mezzo a una profonda crisi tra violenze delle bande armate e instabilità politica. Nell’ultimo periodo, la violenza delle gang è cresciuta: queste hanno preso il controllo di gran parte della capitale e si stanno espandendo nelle aree vicine.

USA, no alla revoca dello status legale a 500mila migranti

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Una giudice federale degli Stati Uniti ha impedito a Trump di porre fine a un programma che consente ad alcuni migranti di entrare negli Stati Uniti nel Paese. La revoca del programma avrebbe fatto perdere lo status legale a circa 500.000 persone. Il programma in questione è stato pensato e introdotto nell’era Biden e consente l’ingresso per due anni a un massimo di 30.000 migranti al mese provenienti da Cuba, Haiti, Nicaragua e Venezuela.

La Thailandia è il 68esimo Stato al mondo a vietare le punizioni corporali sui minori

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In Thailandia non sarà più possibile punire i bambini con la violenza, né a casa né a scuola. Il Parlamento ha approvato una nuova legge che modifica l’articolo 1567 del Codice Civile e Commerciale e vieta ogni forma di punizione fisica e psicologica nei confronti dei minori. Con questa decisione, il Paese è diventato il 68esimo al mondo a introdurre un divieto totale di punizioni corporali in tutti i contesti: scuole, asili, famiglie, istituti di assistenza e centri per minori. È il secondo del sud-est asiatico a farlo, dopo le Filippine. La legge vieta non solo gesti violenti come schiaffi, ...

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