sabato 6 Settembre 2025
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Il Ghana caccia le aziende straniere dalle miniere d’oro e avvia la nazionalizzazione

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Il Ghana ha cacciato le aziende straniere dal suo mercato dell’oro, ordinando di cessare la compravendita e l’esportazione del metallo prezioso entro la fine di aprile e revocando le licenze di esportazione in vigore fino ad ora, sia alle compagnie straniere che a quelle locali. Contemporaneamente, la nazione maggiore produttrice di oro del continente africano ha istituito un nuovo unico ente statale autorizzato ad acquistare, vendere, certificare e esportare oro artigianale, chiamato GoldBot. Secondo quanto dichiarato dalla nuova autorità statale, gli stranieri e le società estere potranno presentare domanda solo «per acquistare o ritirare oro direttamente dal GoldBod». L’obiettivo è quello di trarre maggiori benefici dalle vendite di oro, mantenere la stabilità della valuta nazionale e contrastare il contrabbando. Come ha spiegato il ministro delle Finanze del Ghana, Cassiel Ato Forson, il precedente «sistema frammentato, non coordinato e non regolamentato ha portato a un diffuso contrabbando di oro e ha privato lo Stato di valuta estera di cui aveva tanto bisogno». Il nuovo ente statale permetterà di abbandonare un sistema in cui sia le compagnie locali che quelle straniere potevano acquistare l’oro senza rispettare le norme approvate.

Nel 2024, le esportazioni di oro della nazione africana sono cresciute del 53,2%, raggiungendo gli 11,64 miliardi di dollari, di cui quasi 5 miliardi provenienti da attività minerarie legali su piccola scala. Inoltre, il valore dell’oro sta rapidamente salendo a causa della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina che ha spinto gli investitori a comprare il metallo prezioso per mettersi al riparo dall’incertezza economica e geopolitica: venerdì scorso, il prezzo del metallo giallo ha superato per la prima volta i 3.200 dollari l’oncia. Una circostanza che permetterà al Ghana di ottenere ulteriori profitti dalla gestione esclusiva del suo mercato dell’oro. Inoltre, il nuovo programma sull’oro del Ghana mira a conseguire la rigida certificazione della London Bullion Market Association, che vieta alle raffinerie di maneggiare oro proveniente da fonti che contribuiscono ad abusi dei diritti umani, conflitti, criminalità o degrado ambientale.

Rispetto alla questione ambientale, già nell’ottobre del 2024 il governo ghanese aveva revocato una legge che consentiva l’estrazione mineraria nelle riserve forestali, dopo le proteste dei cittadini. La norma, risalente al novembre 2022, consentiva l’estrazione nelle riserve forestali e, secondo la popolazione, stava ampliando la pratica del galamsey, consistente nell’estrazione mineraria illegale su piccola scala. I manifestanti, guidati dal gruppo che rappresenta tutti i sindacati del Ghana, avevano quindi minacciato un blocco nazionale e richiesto il ritiro della dibattuta norma, ottenendo rapidamente l’ascolto del governo, guidato fino allo scorso anno da Nana Akufo-Addo, che aveva accolto parte delle richieste. Oggi, nonostante il cambio di governo dopo le elezioni di dicembre, vinte da John Dramani Mahama, la nuova amministrazione continua a mantenere un occhio di riguardo per la questione ambientale.

Sul piano economico e della nazionalizzazione delle risorse, invece, diverse nazioni africane hanno cominciato negli ultimi anni a estromettere dalle loro miniere d’oro le multinazionali straniere per dirottare i profitti a beneficio dello sviluppo nazionale e non di società estere. Nell’agosto del 2024 era stato il Burkina Faso a concludere un accordo del valore di 80 milioni di dollari per nazionalizzare le miniere d’oro di Boungou e Wahgnion, precedentemente appartenenti a una società privata. Lo scorso gennaio, invece, il governo del Mali aveva sequestrato all’azienda di estrazione mineraria Barrick Gold, la seconda più importante al mondo, le scorte del metallo prezioso estratte dal complesso minerario di Loulo-Gounkoto. La società era stata accusata di non aver rispettato i termini di un accordo siglato con il governo, finalizzato a raggiungere una più equa redistribuzione delle ricchezze derivanti dallo sfruttamento delle risorse minerarie del Paese. I Paesi africani si stanno così muovendo sempre di più nella direzione della tutela delle loro ricchezze naturali: nazionalizzare le miniere d’oro significa, infatti, riportare le risorse minerarie e i relativi rendimenti nelle mani dello Stato, garantendo che i profitti derivanti dall’estrazione rimangano nel Paese. Anche il Ghana sembra avere intrapreso questo percorso, in nome della difesa degli interessi nazionali e del benessere della popolazione locale e contro lo sfruttamento selvaggio delle multinazionali straniere. La difesa delle risorse nazionali tramite le nazionalizzazioni rientra in un più ampio contesto di lotta per l’indipendenza e la sovranità che accomuna diversi Paesi africani, soprattutto nell’area del Sahel, per decenni soggiogati dalle politiche imperialiste di diversi Stati occidentali.

I quasi duemila lavoratori del gruppo Beko non saranno licenziati

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Alla fine, le cinque fabbriche italiane di Beko – ex Whirlpool – situate in provincia di Siena, Varese, Ancona, Ascoli Piceno e Caserta non saranno chiuse, ma riconvertite e ridimensionate. L’azienda aveva annunciato a novembre di voler licenziare più di 1.900 dipendenti nel nostro Paese. La decisione iniziale di chiudere gli stabilimenti aveva suscitato una forte opposizione da sindacati e governo. Il ministero delle Imprese aveva minacciato di attivare il golden power, lo strumento governativo per condizionare le operazioni sulle imprese strategiche, e di annullare la cessione, spingendo l’azienda a rivedere il piano industriale. Ora, in seguito alla firma di un accordo con il ministero, c’è la certezza che la multinazionale trasferirà parte della produzione in Egitto, Romania e Turchia per ridurre i costi, mantenendo però in Italia design, sviluppo e produzioni di alta gamma.

L’accordo tra ministero delle Imprese e del Made in Italy e Beko è stato siglato ieri, martedì 15 aprile. La firma, si legge nel comunicato dell’esecutivo, giunge dopo l’approvazione dei lavoratori degli stabilimenti Beko in Italia, che hanno dato il via libera a un testo preliminare definito da azienda, organizzazioni sindacali e Mimit con un referendum che ha ottenuto il consenso dell’88% dei votanti. L’accordo prevede l’avviamento da parte di Beko di un Piano da 300 milioni di investimenti da destinare alla tutela occupazionale e all’ammodernamento degli impianti. Per ciò che concerne il piano esuberi, comunica il governo, l’accordo «prevede l’assenza di licenziamenti collettivi e l’impegno dell’azienda a non adottare atti unilaterali». Gli esuberi passeranno dalle 1.935 unità previste a novembre a circa 950 e avverranno sotto forma di uscite volontarie e incentivate. L’esecutivo, inoltre, «si impegna a tutelare l’occupazione per l’intera durata del piano, garantendo l’utilizzo degli ammortizzatori sociali disponibili e, se necessario, attivando strumenti aggiuntivi previsti da futuri interventi normativi in fase di definizione». Non risulta ancora chiaro l’ammontare dell’impegno finanziario che si assumerà il governo italiano.

Per quanto riguarda i siti di produzione, invece, «tutti gli stabilimenti rimarranno operativi». Il ministro delle Imprese Adolfo Urso ha spiegato che lo stabilimento di Varese ospiterà le produzioni da incasso per refrigerazione e cottura e sarà dotato di un nuovo forno; ad Ancona «sorgerà l’hub europeo per i piani cottura a gas, radianti e a induzione»; ad Ascoli Piceno la produzione rimarrà invariata ed entro tre mesi verrà definita una nuova linea di fascia alta; lo stabilimento nel casertano, invece, «si conferma hub per la gestione di ricambi e accessori e inizierà a operare anche per le altre aziende del gruppo». Lo stabilimento di Siena, il più colpito dalla crisi, vedrà interrotta la produzione ma «sarà avviato a un percorso di reindustrializzazione», da concordare con altre aziende entro il 2027. In attesa della conversione dello stabilimento, i lavoratori che rimarranno (in totale sono 299) saranno messi in cassa integrazione.

I fatti che hanno portato all’accordo risalgono all’anno scorso. Nella primavera del 2024, Beko Europe ha rilevato tutte le fabbriche di elettrodomestici della Whirlpool in Europa, avviando un processo di riorganizzazione della produzione su larga scala. L’azienda denunciava un calo nella vendita degli stabilimenti europei (tra cui quelli italiani) e scarsi livelli di produttività. Vista la parallela crescita del mercato asiatico, Beko ha pensato un piano industriale per delocalizzare la produzione in Egitto, Romania e Turchia, dove i costi della manodopera risultano più bassi. Nei mesi, ha annunciato la chiusura di fabbriche in tutta Europa, e, a novembre, è arrivato l’annuncio della chiusura degli stabilimenti italiani, che ha spinto il governo a intervenire in prima persona.

Somalia, al-Shabaab attacca una città strategica

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I miliziani del movimento islamista al-Shabaab, affiliato ad al-Qaeda, hanno attaccato Adan Yabaal, città della Somalia centrale. Adan Yabaal si trova a circa 245 chilometri a nord di Mogadiscio e viene utilizzata dall’esercito come base operativa per i raid contro i miliziani del gruppo. «Al-Shabaab ci ha attaccati da due direzioni. Sono in casa e i combattimenti sono ancora in corso», racconta una testimone all’agenzia di stampa Reuters. Nelle ultime settimane, al-Shabaab ha guadagnato terreno nella Somalia centrale, avvicinandosi sempre più alla capitale Mogadiscio.

Nei mari italiani sono sommerse decine di navi piene di rifiuti tossici

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Nell'unica fotografia disponibile e non sparita nel nulla, il volto tumefatto, con le palpebre e il naso gonfi, dovrebbero confermare che il capitano di fregata Natale De Grazia è morto per un attacco di cuore. L'ufficiale della Marina aveva 39 anni e stava indagando per conto della Procura di Reggio Calabria sui traffici di rifiuti nucleari e tossici nel Mar Mediterraneo. In particolare, indagava sulle cosiddette «navi a perdere», secondo la definizione di un indagato. Queste venivano riempite di fusti pieni di scorie e di veleni e, in seguito, affondate in qualche punto imprecisato in mezzo ...

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I bombardamenti israeliani a Gaza non risparmiano nemmeno gli ospedali da campo

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Dopo aver distrutto l’ultima struttura ospedaliera funzionante nel governatorato di Nord Gaza, Israele passa agli ospedali da campo. Ieri, un attacco dell’aviazione israeliana ha colpito il cancello di un ospedale da campo nel sud della Striscia, uccidendo un bambino e ferendo altre nove persone tra pazienti e membri del personale sanitario. In generale, gli attacchi continuano indiscriminatamente su tutta la Striscia: tra il tramonto di ieri e l’alba di oggi, Israele ha ucciso almeno 23 persone, bombardando edifici residenziali, tende e strutture adibite a ospitare i rifugiati. Nel frattempo, i negoziati per un cessate il fuoco sembrano in una fase di stallo. Il comitato delle Forze Islamiche e Nazionali palestinesi, coalizione che riunisce diverse sigle palestinesi, ha ribadito che non si può parlare di pace senza fornire la garanzia che Israele fermi le proprie aggressioni su Gaza, mentre Hamas ha annunciato che, in seguito a un attacco israeliano, ha perso contatto con l’ostaggio israelo-americano al centro delle trattative.

Gli attacchi dell’esercito israeliano stanno coinvolgendo tutta la Striscia. Dal tramonto, a nord, Israele ha attaccato la struttura sanitaria di Al-Maamadani, uccidendo un bambino. Sempre a nord, gli attacchi si sono concentrati a Jabaliya e a Beit Lahia e hanno ucciso un numero ancora ignoto di persone. Nel centro della Striscia, gli attacchi notturni si sono concentrati su Gaza City, prevalentemente nei quartieri orientali della capitale. Qui, a partire dalle 18 di ieri, si sono verificati almeno 27 attacchi che hanno portato all’uccisione di 15 persone. In particolare, sono stati colpiti in modo massiccio i quartieri di Shuja’iyya e di Tuffah, bersagliando strade, appartamenti e tende per sfollati. A sud, oltre all’attacco presso l’ospedale da campo a Khan Younis, si sono verificati attacchi a Rafah e nella stessa Khan Younis che hanno ucciso rispettivamente 2 e 4 persone. Dall’alba di oggi, gli attacchi sono ricominciati con la stessa intensità. I bersagli principali sembrano essere sempre il governatorato di Nord Gaza e Gaza City. A Jabaliya, l’aviazione israeliana ha ucciso almeno 10 persone in seguito a un bombardamento su un edificio residenziale. A Gaza City, invece, sono state uccise almeno 3 persone, tra cui la fotogiornalista Fatima Hasoona.

Nel frattempo, i negoziati per il cessate il fuoco risultano fermi. Israele insiste nella presentazione del suo personale piano di pace, chiedendo a tutte le firme palestinesi di abbandonare le armi, cedere il controllo della Striscia al proprio esercito e portare avanti il piano di deportazione di Trump. Le organizzazioni palestinesi che rientrano nelle Forze Islamiche e Nazionali hanno sostanzialmente rifiutato qualsiasi proposta che preveda il disarmo senza ottenere in cambio la certezza che Israele cessi i suoi attacchi. Tra le firme palestinesi che rientrano nel comitato è presente anche Hamas, che tuttavia non si è ancora espressa in prima persona. Da stamattina, inoltre, pare che sia scomparso l’ostaggio israelo-americano Edan Alexander dopo che Israele ha lanciato un «attacco diretto» sul luogo in cui era trattenuto. Non sono ancora presenti aggiornamenti sul suo stato, e né Israele né gli Stati Uniti hanno ancora rilasciato dichiarazioni.

All’8 aprile, data dell’ultimo aggiornamento dell’ONU, Israele ha distrutto o danneggiato il 92% delle case, l’82% delle terre coltivabili, l’88,5% delle scuole e, in generale, il 69% di tutte le strutture della Striscia. In totale, dall’escalation del 7 ottobre, l’esercito israeliano ha ucciso direttamente oltre 51.000 persone, anche se il numero totale dei morti potrebbe superare le centinaia di migliaia, come sostenuto da un articolo della rivista scientifica The Lancet e da una lettera di medici volontari nella Striscia.

Alessandria: Solvay patteggia per la devastazione ambientale a Spinetta Marengo

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Una manifestazione di comitati e cittadini contro il silenzio delle istituzioni e le ricadute dello stabilimento produttivo Solvay a Spinetta Marengo

A Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria, Solvay sta riuscendo nel tentativo di non arrivare al processo per disastro ambientale colposo, negoziando patteggiamenti che metteranno tutto a tacere. L’ultimo di questi è giunto proprio dal Comune di Alessandria, capoluogo di provincia, che ha accettato il risacrimento di 100 mila euro proposto dalla multinazionale Syensqo (ex Solvay): considerato il numero di cittadini, si tratta di appena un euro ad abitante. Una cifra meno che irrisoria, a fronte del danno comportato dall’azienda, che per anni ha contaminato le acque della zona con i PFAS, sostanze chimiche in grado di accumularsi nell’organismo umano senza degradarsi e associate tumori, disturbi ormonali e patologie cardiovascolari. Il patteggiamento di Alessandria potrebbe ora spalancare le porte ad altri previsti e attesi, ovvero quelli della Regione Piemonte e del ministero dell’Ambiente.

Così, il processo contro contro Solvay (Syensqo) ad Alessandria, nell’ambito del quale le istituzioni pubbliche, i comitati e le associazioni ambientaliste si erano dichiarate parti civili, non vedrà probabilmente mai la luce. Il primo a patteggiare era stato il Comune di Montecastello: come spiegato dal giornalista e attivista Lino Balza nell’ambito dell’inchiesta de L’Indipendente, il Comune ha accettato circa 100 mila euro di risarcimento, nonostante fosse stato accertato il danno da inquinamento eccessivo da PFAS che ha comportato la chiusura del proprio acquedotto. La settimana scorsa, anche il Comune di Alessandria ha accettato una proposta di risarcimento da parte della multinazionale Syensqo (ex Solvay), pari anch’esso a 100 mila euro – l’equivalente di un euro ad abitante. Il processo per disastro ambientale colposo vedeva tra gli imputati gli ex direttori dello stabilimento di Spinetta, Stefano Bigini e Andrea Diotto. Come riporta Rete Ambientalista, il Sindaco di Alessandria, Giorgio Abonante, ha dichiarato che tale cifra sarà utilizzata per il «monitoraggio ambientale del Comune» e per far «fronte ai lavori straordinari che interesseranno i cimiteri cittadini».

L’accordo stipulato tra il Comune di Alessandria e Solvay ha un peso differente rispetto a quello realizzato con il Comune di Montecastello (274 abitanti), in quanto Alessandria è capoluogo di provincia e gode senz’altro di maggiore peso politico. E se l’istituzione pubblica più vicina al cittadino si arrende allo strapotere della multinazionale, il rischio è che questo possa costituire un apripista per la Regione Piemonte e il ministero dell’Ambiente, enti più grandi ma anche più lontani dalla cittadinanza. Contattato telefonicamente da L’Indipendente, Balza ha riferito che la notizia del patteggiamento tra Solvay e Regione Piemonte potrebbe arrivare tra non molto e che la cifra (irrisoria anch’essa) dovrebbe aggirarsi sui 500.000 euro.

A fronte di ciò, tuttavia, rimane il fatto che l’emergenza eco-sanitaria non avrà fine – e, probabilmente, rimarrà anche senza colpevoli, grazie al potere della multinazionale. Un potere che, spiega Balza, può arrivare a rompere anche il fronte di protesta. Le associazioni Medicina Democratica, WWF e ProNatura non avrebbero infatti rifiutato pubblicamente il patteggiamento offerto da Solvay ai comitati e alle associazioni ambientaliste che nel procedimento giudiziario si sono dichiarate parte civile, come invece fatto da Movimento di lotta per la salute Maccacaro, Greenpeace, Legambiente, ComitatoStopSolvay, Anemos, e Vivere in Fraschetta. Nel frattempo, sottolinea Blaza, Ilhham Kadri, Presidente di Syensqo (ex Solvay), avrebbe ricevuto 27,5 milioni di euro in bonus negli ultimi due anni, in attesa di quello da 7,5 milioni di euro che potrebbe ottenere ad inizio anno prossimo. Nel frattempo, l’ambiente viene devastato e le persone si ammalano e muoiono. E tutto continua come se niente fosse.

Perù, ex presidente condannato a 15 anni di carcere

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L’ex presidente del Perù, Ollanta Humala, è stato condannato a 15 anni di carcere con l’accusa di corruzione. In particolare, Humala è accusato di aver ricevuto fondi illeciti dall’impresa edile brasiliana Odebrecht durante la campagna elettorale del 2011, che lo vide vincitore. Humala è stato presidente del Paese tra il 2011 e il 2016 ed è il leader del Partito Nazionalista Peruviano. Anche la moglie, Nadine Heredia, è stata condannata a 15 anni con l’accusa di riciclaggio. Odebrecht è la maggiore compagnia edile del Sud America e lo scandalo giudiziario ha coinvolto altri Paesi del continente, tra cui Argentina, Venezuela e Colombia.

PFAS, qualcosa si muove: l’Unione Europea li limita a cominciare dai giocattoli

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L’Unione europea sembra essere finalmente prossima a dotarsi di nuove regole che garantiranno l’assenza di sostanze tossiche PFAS nei giocattoli prodotti o importati. Il Consiglio e il Parlamento europei hanno infatti siglato un accordo politico sulla base di una precedente proposta della Commissione. Il nuovo regolamento, in attesa di approvazione formale, vieterà l’uso di sostanze nocive, come le sostanze perfluoroalchiliche e polifluoroalchiliche PFAS, ma anche degli interferenti endocrini e dei bisfenoli, nei giocattoli dell’UE. Tutti i prodotti disporranno di un passaporto digitale per impedire l’ingresso sul mercato, anche online, di giocattoli non sicuri in questo senso. Si tratta di una prima mossa, ancora limitata, che avviene dopo anni di inazione, con le lobby della plastica che hanno bloccato ogni azione contro le sostanze dannose.

Gli PFAS sono una vasta famiglia di composti chimici utilizzati per rendere più resistenti un’ampia gamma di prodotti industriali, quali tessuti impermeabili, padelle antiaderenti, imballaggi alimentari, schiume antincendio e cosmetici. La loro struttura chimica li rende estremamente stabili, il che significa che non si degradano facilmente nell’ambiente. Numerosi studi scientifici hanno poi collegato l’esposizione agli PFAS a patologie tumorali, disfunzioni endocrine, immunodeficienze e alterazioni nello sviluppo fetale. La contaminazione è ormai ampiamente diffusa e queste sostanze sono state rinvenute praticamente ovunque, acque potabili dell’UE comprese. Motivo per cui numerose associazioni ambientaliste e sanitarie chiedono da anni una messa al bando totale degli PFAS in tutti i settori. Secondo le organizzazioni, è ormai evidente che misure parziali, come il divieto nei soli giocattoli, non siano sufficienti a contrastare una minaccia così pervasiva e duratura. La prima nazione a muoversi in autonomia e in modo relativamente più incisivo è stata la Francia, che ha ufficialmente messo al bando tutti i tessuti e i cosmetici contenenti PFAS. La nuova normativa dà inoltre concreto seguito al principio “chi inquina paga”, introducendo per le aziende una tassa sugli scarichi idrici industriali.

Tuttavia, la necessaria e auspicata messa al bando totale è ancora lontana, complici le pressioni di diversi gruppi industriali, come rivelato dall’inchiesta giornalistica “Forever Lobbying Project”. L’indagine ha mostrato come le lobby dell’industria della chimica di sintesi abbiano esercitato un’influenza determinante nel rallentare qualsiasi proposta di divieto totale. Secondo l’indagine, in particolare, ci sarebbero state diverse pressioni sui funzionari europei e sulle campagne di pubbliche relazioni per minimizzare i rischi legati ai PFAS. Il team ha raccolto oltre 14.000 documenti, evidenziando una massiccia campagna di lobbying e disinformazione ben orchestrata. La società civile comunque è determinata ad ottenere la messa bando completa e rapida di tutte le sostanze PFAS in Europa. Senza un argine all’influenza delle lobby, il diritto alla salute rischia però di restare subordinato agli interessi dell’industria.

[di Simone Valeri]

Trump toglie i fondi ad Harvard perché rifiuta di allinearsi su dissenso e diritti

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Il Dipartimento dell’Istruzione degli Stati Uniti d’America ha tagliato i fondi all’Università di Harvard dopo che l’ateneo si è rifiutato di modificare le proprie politiche sui diritti degli studenti e l’autonomia dell’istituzione. A dare il via libera è stata la task force contro l’antisemitismo, che ieri, lunedì 14 aprile, ha rilasciato un comunicato in cui annuncia il congelamento di 2,2 miliardi di dollari in sovvenzioni pluriennali e di 60 milioni di dollari in contratti pluriennali con l’Università. A scatenare le frizioni è stata anche la richiesta di istituire una commissione esterna in linea con le politiche federali per «indagare» su tutti gli «atti di antisemitismo» verificatisi nell’istituto dal 7 ottobre 2023 a oggi, con la quale il rettore avrebbe dovuto collaborare fornendo informazioni personali sugli individui accusati. Tra le richieste, anche quella di rafforzare la governance di ateneo, centralizzandone i poteri, rispettando le linee governative e riducendo lo spazio di manovra a studenti, docenti e dipartimenti.

La richiesta di cambiare le politiche di ateneo è pervenuta al rettore dell’Università, Alan Michael Garber, lo scorso 11 aprile. Nella lettera, inoltrata dal Dipartimento dell’Istruzione, l’amministrazione statunitense avanza diverse richieste all’ateneo, minacciando di tagliare i finanziamenti federali. La prima è quella di attuare riforme alla governance e alla leadership dell’Università, nell’ottica di una forte centralizzazione. Il governo statunitense chiede ad Harvard di ridurre il potere di docenti di ruolo e non, studenti, facoltà, e ricercatori impegnati in cause attiviste, contrastando il decentramento dell’istituzione a favore dell’applicazione delle «modifiche indicate nella presente lettera», che si collocano in piena continuità con le politiche federali. Tra di esse, infatti, viene inclusa la cancellazione dei programmi di diversità e inclusione in ogni forma, anche per quanto riguarda le limitazioni al linguaggio d’odio.

A tal proposito, il Dipartimento dell’Istruzione chiede di attuare riforme delle ammissioni e delle assunzioni basate sul merito, «dimostrandole attraverso cambiamenti strutturali e del personale». Tutti i dati relativi alle assunzioni e alle ammissioni, si legge nella lettera, «saranno condivisi con il governo federale e sottoposti a un audit completo da parte del governo federale durante il periodo di attuazione delle riforme, che durerà almeno fino alla fine del 2028». Stesso destino per le procedure di ammissione degli studenti internazionali. Il Dipartimento impone infine ad Harvard un drastico cambio nelle politiche studentesche, che va dal rafforzamento dei poteri della polizia d’ateneo e dall’eliminazione dei suoi vincoli operativi per consentirle di agire con maggiore prontezza, al monitoraggio dei gruppi studenteschi, fino al bando e all’espulsione di sigle e studenti coinvolti nelle mobilitazioni a favore dei diritti dei palestinesi. A tal proposito, avanza all’Università la richiesta di collaborare con una commissione esterna approvata dal governo per denunciare i casi di «antisemitismo», che verrebbero valutati dalla commissione stessa.

Le richieste dell’amministrazione Trump sono semplici: eliminare ogni forma di dissenso interno all’Università, adottare una profonda ristrutturazione dell’ateneo in linea con le politiche federali e ridurre l’autonomia dell’istituto, ponendolo sotto costante controllo da parte del governo. Il tutto, prendendo specificamente di mira le politiche di inclusione e l’attivismo per la Palestina. La risposta di Harvard è stata chiara: «L’Università non rinuncerà alla propria indipendenza né rinuncerà ai propri diritti costituzionali». Dopo aver ribadito il proprio impegno contro ogni forma di discriminazione, Harvard ha ricordato che non c’è alcun bisogno di implementare le misure contro l’antisemitismo, già revisionate l’anno scorso. Ha poi affermato che le richieste del governo si collocano in aperta violazione del Primo Emendamento degli USA, quello sulle libertà di cui la federazione si fa garante, tra cui, «come riconosciuto dalla Corte Suprema», l’autonomia delle università dal governo. Harvard, si legge nella lettera, «rimane aperta al dialogo su ciò che l’Università ha fatto e intende fare per migliorare l’esperienza di ogni membro della sua comunità». Tuttavia, continua, «non è disposta ad accettare richieste che vadano oltre l’autorità legittima di questa o di qualsiasi altra amministrazione».

L’attacco all’Università di Harvard non è il primo che viene lanciato dall’amministrazione Trump. Recentemente, il governo ha infatti tagliato i fondi anche alla Columbia University, giustificandolo con l’accusa rivolta all’Università di non aver contrastato adeguatamente episodi di antisemitismo all’interno del campus. Per tale motivo, è stato anche ordinato l’arresto di uno studente Mahmoud Khalil, identificato come il leader del movimento studentesco a sostegno della Palestina.

Piacenza, rivolta in carcere: 9 detenuti denunciati

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Stamane si è verificata una rivolta nel carcere di Piacenza. Il caos è scoppiato dopo che un detenuto è stato posto in isolamento in seguito ad alcuni comportamenti giudicati scorretti dalla penitenziaria. Un gruppo di detenuti ha dato fuoco a materassi e suppellettili di alcune celle, per poi barricarsi all’interno di una sezione. Sono intervenuti anche vigili del fuoco e 118. Nove detenuti sono stati denunciati. La situazione nell’istituto è da tempo critica: lo scorso anno si sono contati 98 scioperi della fame, 52 casi di abusi di farmaci e alcol, 31 risse e 150 episodi di aggressioni (verbali, minacce e oltraggi) nei confronti degli agenti.