venerdì 4 Luglio 2025
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Caso Almarsi, la Corte Penale Internazionale indaga sull’Italia

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La Corte Penale Internazionale ha aperto un’indagine sulla liberazione e il conseguente rimpatrio del torturatore capo della polizia giudiziaria libica, Osama Almasri Njeem, da parte dell’Italia. A dare la notizia è il portavoce della Corte, Fadi El Abdallah, che ha tuttavia specificato che «al momento non vi è alcun caso dinanzi alla CPI contro alcun funzionario italiano». El Abdallah ha spiegato che, di preciso, la Corte ha avviato le indagini preliminari sulla «questione della mancata osservanza da parte dello Stato di una richiesta di cooperazione per l’arresto e la consegna» di Almasri, precisando che l’Italia ha la facoltà di rilasciare le proprie osservazioni.

L’annuncio di El Abdallah è arrivato ieri, lunedì 10 febbraio, ma si parlava di un potenziale avvio delle indagini contro l’Italia da giorni. Il fascicolo aperto è ancora di natura preliminare, ma potrebbe portare a un deferimento di Roma all’organo direttivo della Corte o al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. L’avvio della procedura si basa su una possibile violazione dell’articolo 86 dello Statuto di Roma, con il quale venne istituita la Corte, che stabilisce che «gli Stati membri cooperano pienamente con la Corte nelle inchieste e nelle azioni giudiziarie che la stessa svolge per reati di sua competenza». Quando ciò non avviene, indica l’articolo 87, «la Corte può prenderne atto ed investire del caso l’Assemblea degli Stati membri o il Consiglio di sicurezza». La procedura risulta quasi automatica e si tratta di un processo volto a chiarire le responsabilità dello Stato membro, ma non le responsabilità individuali delle persone fisiche. Lo stesso El Abdallah ha precisato che, malgrado siano pervenute denunce contro rappresentanti del governo, per ora non è presente alcun caso davanti ai giudici della Corte. «Fino a quando la Camera preliminare non avrà esaminato la questione e non avrà preso una decisione», ha aggiunto El Abdallah, «la Corte non fornirà ulteriori commenti».

Almasri, soprannominato «il torturatore di Tripoli» dalle organizzazioni che investigano la situazione dei migranti in Libia, è stato arrestato il 19 gennaio a Torino dalle forze dell’ordine italiane su segnalazione dell’Interpol. Il generale è accusato di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, principalmente per quanto accade all’interno delle prigioni libiche – realtà messa nero su bianco dalle testimonianze di coloro che vi sono sopravvissuti, da anni a questa parte. Il 21 gennaio è stato scarcerato su decisione della Corte d’Appello, che ha motivato la sua liberazione parlando di una serie di procedure irregolari, che avrebbero a che vedere con la mancata comunicazione dell’imminente arresto al ministro della Giustizia Nordio, incaricato dei rapporti con la CPI. Nel corso della sua informativa al Parlamento, Nordio stesso ha parlato dei presunti errori procedurali avvenuti durante la cattura del ricercato, attribuendo inoltre alla CPI e al suo «gran pasticcio» con le carte parte della responsabilità del caso. La Corte non sembra avere intenzione di commentare i procedimenti giudiziari nazionali.

[di Dario Lucisano]

USA: emessi dazi del 25% su acciaio e alluminio da tutto il mondo

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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato l’ordine esecutivo per introdurre nuovi dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio provenienti da tutto il mondo. Il decreto introduce una tariffa del 25% su tutti i materiali importati e entrerà in vigore il 12 marzo. La misura servirebbe a incentivare la produzione statunitense, sfavorendo l’importazione dall’estero. La Commissione Europea ha criticato la scelta di Trump, minacciando ritorsioni: «Reagiremo per proteggere gli interessi delle aziende, dei lavoratori e dei consumatori europei da misure ingiustificate». In generale, la misura è stata criticata da diversi Paesi comunitari, che, prima della firma dell’ordine, avevano dichiarato che avrebbero introdotto tariffe sui prodotti statunitensi in risposta ai dazi.

Banca Europea per gli Investimenti: 1 miliardo all’Ucraina

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La Banca Europea per gli Investimenti (BEI), l’organo finanziario dell’Unione Europea, ha annunciato un nuovo finanziamento di 1 miliardo di euro a favore dell’Ucraina. La notizia è stata data ieri, lunedì 10 febbraio, dalla presidente della BEI, Nadia Calviño, apparsa in conferenza stampa assieme al presidente Zelensky. L’investimento destinerà 420 milioni di euro al settore pubblico ucraino per contribuire a ripristinare le infrastrutture critiche del Paese, tra cui energia, riscaldamento, approvvigionamento idrico, ospedali, scuole ed edilizia sociale. La BEI ha inoltre firmato un accordo per mobilitare quasi 500 milioni di euro in finanziamenti per le piccole e medie imprese in tutto il Paese. Altri 16,5 milioni – provenienti dalla Germania – andranno all’energia rinnovabile.

I cittadini nigeriani mandano a processo la Shell per devastazione ambientale

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Dopo una lunga lotta durata oltre dieci anni, le comunità nigeriane del Delta del Niger hanno finalmente ottenuto l'opportunità di portare Shell davanti alla giustizia. Il processo preliminare per le devastazioni ambientali causate dalle attività petrolifere della compagnia nel Delta del Niger, una delle regioni più colpite dal disastro ecologico, si terrà presso l'Alta Corte del Regno Unito dal 13 febbraio al 10 marzo 2025. 
La lotta ha unito gli agricoltori della zona di Ogale (che conta 40mila abitanti), situata sul delta del Niger e della zona di Bille, abitata perlopiù da pescatori (per u...

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Zelensky mette in palio le terre rare ucraine per non perdere gli aiuti militari

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Nel corso di un’intervista, il presidente ucraino Zelensky ha mostrato una mappa sulla quale erano raffigurate le risorse del proprio Paese. La sua è sembrata una risposta alle affermazioni del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il quale aveva lasciato intendere di concedere l’appoggio all’Ucraina in cambio delle terre rare delle quali il Paese dispone. Molte delle risorse ucraine (tra le quali petrolio, gas naturale, carbone e svariati metalli, per un valore stimati di 12 mila miliardi di dollari in materie prime) si trovano nell’est del Paese, dove prosegue l’avanzata russa. L’amministrazione Trump è pronta a passare all’incasso dell’offerta che Zelensky ha fatto nell’ottobre scorso, in piena campagna per le presidenziali USA, con il suo “piano per la vittoria” che proponeva anche l’apertura alle risorse naturali del suo Paese.

Secondo Zelensky, meno del 20% delle risorse minerarie dell’Ucraina sono sotto l’occupazione russa – ma la percentuale potrebbe essere più vicina al 40%. Il presidente ucraino ha fatto notare che Mosca potrebbe vendere quelle risorse a Iran e Corea del Nord. «Dobbiamo fermare Putin e proteggere ciò che abbiamo», ha dichiarato il Zelensky a Reuters. Nel proseguire l’intervista ha poi dichiarato che «gli americani ci hanno aiutato di più, quindi gli americani dovrebbero guadagnare di più. E dovrebbero avere questa priorità, e lo faranno. Vorrei anche parlarne con il presidente Trump». L’intenzione sembrerebbe dunque quella di stipulare un accordo commerciale con il presidente statunitense, con il quale dovrebbe avere un colloquio nei prossimi giorni – dopo che probabilmente ha già avuto luogo quello tra Trump e Putin.

La cessione delle risorse ucraine ai Paesi occidentali era già stata annunciata nell’ottobre scorso, quando Zelensky presentò il suo “piano per la vittoria”. Tra i punti del piano per arrivare alla resa della Russia c’era infatti anche quello di aprire la porta alle materie prime presenti in Ucraina, stimate in 12 mila miliardi di dollari tra petrolio, gas naturale, carbone, terre rare, uranio, titanio, litio, grafite e altro ancora. Oleksii Sobolev, vice-ministro dell’Economia, in occasione del Forum di Davos svoltosi a metà del mese scorso, aveva descritto uno sforzo di ricostruzione di 500 miliardi di dollari che pagherebbe dividendi sia strategici che finanziari agli investitori occidentali. In quell’occasione spiegò che il suo governo stava lavorando a accordi con Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia su progetti relativi allo sfruttamento delle risorse naturali. Proprio dalla Germania, che sarebbe esclusa da questo quartetto, sono arrivate parole contrarie alla contrattazione e al condizionamento degli aiuti, i quali andrebbero dati senza condizione. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha criticato gli Stati Uniti, definendo la proposta di Trump come «molto egoista ed egocentrica».

Con la chiusura di USAID da parte di Trump è arrivato un segnale e un colpo all’Ucraina. L’agenzia statunitense, nel 2023, ha donato a Kiev più di 14 miliardi di dollari, rappresentando il 90% dei finanziamenti ai media del Paese. Zelensky sembra ora oscillare tra accordi commerciali in cambio di un appoggio militare – che sente vacillare – per la vittoria sulla Russia e la possibilità di un dialogo per un accordo di pace, cercando così una qualche via d’uscita dall’impasse in cui si trova al momento.

[di Michele Manfrin]

Hamas: “violazioni israeliane; ritardato il rilascio degli ostaggi”

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Abu Obeida, portavoce delle brigate di Al-Qassam, il braccio armato del movimento palestinese Hamas, ha rilasciato un comunicato in cui annuncia che, viste le continue violazioni della tregua da parte di Israele, la consegna dei prigionieri il cui rilascio era previsto sabato prossimo sarà rinviata «fino a nuovo avviso». Dall’entrata in vigore dell’accordo, comunica Abu Obeida, Israele «ha ostacolato il ritorno degli sfollati nel nord», ha preso di mira civili e ha impedito l’entrata di aiuti. Intanto, da Israele iniziano a levarsi le prime controaccuse: il ministro della Difesa, Israel Katz, ha dichiarato che la decisione di ritardare la consegna degli ostaggi costituisce una violazione del cessate il fuoco.

Oltre 200 mila persone hanno chiesto il divieto dell’aspartame in tutta Europa

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Più di 200.000 cittadini europei hanno firmato una petizione per chiedere il divieto dell’aspartame, edulcorante artificiale presente in migliaia di prodotti alimentari. L’iniziativa, lanciata in occasione del World Cancer Day da Yuka, dalla Lega francese contro il Cancro e dall’ONG foodwatch, si rivolge alla Commissione europea e ai governi nazionali, chiedendo l’applicazione del principio di precauzione. L’aspartame è stato infatti classificato dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) come possibile cancerogeno per gli esseri umani, sulla base di evidenze limitate che lo collegano a tumori del fegato e ad altri rischi per la salute. Sebbene le autorità sanitarie europee e internazionali non abbiano ancora modificato la dose giornaliera accettabile (ADI) dell’aspartame, la crescente pressione pubblica e i dubbi scientifici stanno sollevando interrogativi sulla sua sicurezza.

I promotori della petizione, lanciata in 11 Paesi europei (Italia compresa) chiedono di applicare il principio di precauzione, cardine della regolamentazione europea in materia di sicurezza alimentare. Al momento, infatti, non esistono prove definitive che stabiliscano un nesso di causalità tra il consumo di aspartame e lo sviluppo di tumori, ma vi sono evidenze limitate che giustificano un atteggiamento prudenziale. L’aspartame è presente in oltre 2.500 prodotti venduti in tutta Europa, inclusi marchi di largo consumo come Coca-Cola Zero, Pepsi Max, le bevande energetiche Powerade, le gomme da masticare Vivident e Vigorsol, i latti fermentati Nestlé e Aldi e le patatine Lay’s. La sua diffusione è capillare, al punto che un’indagine di YouGov commissionata da foodwatch ha rivelato che il 40% degli europei consuma regolarmente alimenti e bevande contenenti questo additivo. Secondo Philippe Bergerot, presidente della Lega francese contro il Cancro, non esiste alcuna giustificazione per continuare a esporre milioni di persone a un potenziale rischio oncologico evitabile. «L’OMS e numerosi studi scientifici hanno già messo in evidenza questo pericolo, non si potrà dire che non eravamo informati: chiediamo ai nostri decisori politici di assumersi le proprie responsabilità e vietare questo additivo», ha dichiarato. Un messaggio rafforzato da Camille Dorioz, direttore delle campagne di foodwatch Francia, che ha sottolineato come l’alert dell’OMS rappresenti un chiaro segnale che le istituzioni non possono ignorare.

La classificazione della IARC si basa su tre grandi studi osservazionali che hanno riscontrato un’associazione tra l’aspartame e il carcinoma epatocellulare, una forma di tumore al fegato, oltre a studi su animali che suggeriscono possibili effetti cancerogeni. La IARC non stabilisce soglie di consumo sicure, né quantifica il livello di pericolosità di una sostanza rispetto ad altre. Il Comitato congiunto FAO-OMS sugli additivi alimentari (JECFA) ha mantenuto invariata la dose giornaliera accettabile di aspartame, ritenendo che il consumo abituale resti ben al di sotto della soglia di rischio. Tuttavia, mentre l’industria alimentare difende il suo utilizzo come alternativa a basso contenuto calorico allo zucchero. I consumatori chiedono maggiore trasparenza e protezione dai rischi potenziali, sostenendo che l’assenza di prove certe sulla sicurezza dell’aspartame dovrebbe indurre le istituzioni europee a vietarlo per tutelare la salute pubblica.

[di Stefano Baudino]

Romania, si dimette il presidente Iohannis

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Il presidente della Romania, Klaus Iohannis, ha annunciato le sue dimissioni. Lo hanno riferito i media del Paese, dopo che il parlamento aveva avviato la procedura per un referendum popolare finalizzato a sospenderlo. Il mandato era in scadenza il 21 dicembre scorso, ma era stato prorogato ad interim in seguito al caos delle elezioni presidenziali di fine anno, con l’annullamento del primo turno svoltosi il 24 novembre da parte della Corte Costituzionale. Le nuove elezioni presidenziali sono state fissate dal governo romeno per il prossimo 4 maggio. A questo punto, le dimissioni di rendono vano il referendum.

Per ripristinare la natura del Pianeta basterebbe una frazione minima del PIL globale

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Per ripristinare la natura in almeno 115 nazioni del mondo basterebbe una cifra compresa tra lo 0,04 e lo 0,27% del PIL mondiale, per dieci anni. La stima è contenuta nel primo studio completo sui costi del ripristino dei territori nel mondo, pubblicato sulla rivista specializzata Land Degradation and Development. A fronte di un sacrificio sostanzialmente irrisorio da parte di tutti i Paesi del mondo, quindi, si potrebbe porre rimedio a un problema che affligge oltre un terzo della popolazione mondiale, con ripesanti cadute in termini sociali, economici e ambientali sulla vita di tutti.

Secondo le stime delle Nazioni Unite, circa il 40% dei territori nel mondo è degradato (ovvero a ridotta produttività biologica o economica), con ricadute su almeno tre miliardi di persone in termini di sicurezza e stabilità. Tra le principali cause vi sono pratiche agricole non sostenibili, deforestazione, estrazione mineraria e urbanizzazione incontrollata. Questa tendenza si potrebbe invertire con interventi mirati a seconda delle specifiche del luogo. Tra questi, si contano pratiche quali la riforestazione, la conservazione del suolo e la protezione dei processi naturali, ma anche la piantumazione di vegetazione nativa e la creazione di aree protette. Azioni di questo tipo contribuiscono a migliorare la fertilità del terreno, aumentare la ritenzione idrica e prevenire il degrado del territorio, con il conseguente arricchimento della biodiversità e ripristino degli ecosistemi. I terreni sani, inoltre, sono in grado di assorbire l’anidride carbonica: di fatto, quasi l’80% del carbonio immagazzinato nei sistemi terrestri si trova nel suolo.

Secondo una recente analisi, il ripristino della natura nelle 115 nazioni che si sono impegnate, tramite la firma di patti e trattati, a recuperare circa un miliardo di ettari di territori degradati entro i loro confini (un territorio complessivamente grande quanto il Canada) costerebbe tra i 311 e i 2,1 mila miliardi di dollari. Una cifra che a prima vista può sembrare enorme, ma che rapportata rappresenta appena una percentuale compresa tra lo 0,04% e lo 0,27% del PIL globale, suddiviso in dieci anni. I dati provengono dall’analisi dei dati della Banca Mondiale e di altri strumenti, quali il database Worldview of Conservation Approaches and Technologies (WOCAT), oltre che della letteratura accademica. Gli interventi per i 243 progetti di ripristino in tutto il mondo hanno costi estremamente variabili, che oscillano tra i 185 dollari all’ettaro per la gestione delle foreste agli oltre 3 mila per i sistemi silvopascolo.

I Paesi del Sud del Mondo sono quelli nei quali sono presenti la maggior parte dei progetti di ripristino: basti pensare che quasi la metà di questi si trova nell’Africa Subsahariana. Tuttavia, per porvi rimedio la regione sarebbe costretta a sborsare una cifra pari al 3,7% del PIL, un impegno economico difficilmente sostenibile per uno Stato. Soprattutto se si tiene conto del fatto che i costi per implementare progetti di questo genere hanno un impatto diretto sui proprietari terrieri, che potrebbero non poter utilizzare le proprie terre per l’agricoltura o altre attività economicamente redditizie. L’analisi realizzata, infatti, si concentra sui costi diretti per l’implementazione dei programmi di recupero, ma eslude i costi di opportunità (il mancato guadagno dei proprietari terrieri a fronte del mancato uso delle proprie terre per attività economicamente redditizie come l’agricoltura).

L’urgenza, quindi, spiegano gli autori della ricerca a Mongabay, è quella di trovare «meccanismi di condivisione dei costi tra i vari Paesi», oltre che di «implementare approcci di ripristino a basso costo», che evitino di fravare troppo sui membri di una certa comunità. Anche alla luce del fatto, sembra doveroso aggiungere, che spesso sono proprio le nazioni più ricche a sfruttare fino allo sfinimento i terreni dei Paesi più poveri in termini economici.

[di Valeria Casolaro]

Bollette: la fine del mercato tutelato ha provocato una stangata per le famiglie povere

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In seguito alla mancata proroga da parte del governo del servizio di maggior tutela, in un anno oltre 1,2 milioni di famiglie non vulnerabili sono passate al mercato libero dell’energia, registrando un’impennata delle tariffe energetiche. Nel dettaglio, le bollette sono state più alte dell’80% rispetto a quelle applicate nel Servizio a Tutele Graduali e del 44% rispetto a quelle del mercato tutelato, rimasto attivo per i clienti vulnerabili. Lo riferisce Assium, l’associazione degli utility manager, basandosi sugli ultimi dati di Arera (l’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente). Tradotto in termini di spesa, ciò significa che le tariffe annue sul mercato libero sono aumentate di 432 euro annui rispetto alle tutele graduali per i contratti a prezzo variabile e di 405 euro per il prezzo fisso. La scelta di liberalizzare i mercati dell’energia, dunque, ha comportato una stangata per le famiglie meno abbienti, nonostante i fautori della liberalizzazione dei mercati e la stessa Commissione europea sostengano che i prezzi nel mercato libero sono significativamente più bassi.

Secondo l’ultimo monitoraggio effettuato da Arera, infatti, i clienti del Servizio a Tutele Graduali hanno pagato l’elettricità 0,20 euro al kWh (kilowattora), pari a una bolletta media da 540 euro annui (con consumi pari a 2.700 kWh annui), e quelli del mercato tutelato 0,25 euro al kWh, con una bolletta da 675 euro. Parallelamente, invece, la tariffa media sul mercato libero è stata di 0,35 euro al kWh per i contratti a prezzo fisso, 0,36 euro al kWh per quelli a prezzo variabile, con una bolletta media annua pari rispettivamente a 945 e 972 euro. Il presidente di Assium, Federico Bevilacqua, ha spiegato che ciò è dovuto al fatto che gli utenti compiono scelte non convenienti per due ragioni: da un lato, il telemarketing selvaggio che, spesso, ricorrerebbe a pratiche scorrette, spingendo così una consistente fetta di consumatori a optare per offerte non vantaggiose; dall’altro, la scarsa conoscenza degli utenti circa le offerte degli operatori energetici. «Quando decidono di cambiare gestore, gli utenti dell’energia continuano a compiere scelte economicamente non convenienti che pesano come un macigno sulle bollette annue della luce», ha affermato.

Dopo che i governi precedenti erano riusciti a prorogare il regime di maggior tutela, il governo Meloni non lo ha rinnovato su pressione dell’Unione Europea e dal 31 dicembre 2023 ha posto fine al regime tutelato. In ossequio ai dogmi neoliberisti, infatti, la Commissione ritiene che la liberalizzazione dei mercati energetici sia un obiettivo da realizzare in fretta, tanto che esso rientra nei target che l’Italia stessa ha messo nero su bianco nel PNRR e che già il governo Draghi aveva previsto. L’obiettivo di liberalizzare i mercati energetici era stato incluso, infatti, nella terza rata per la quale Bruxelles, nell’ottobre 2023, aveva erogato 18,5 miliardi. A opporsi alla fine del mercato tutelato, oltre all’opposizione, era stata una parte della maggioranza rappresentata dalla Lega, ma l’Ue non si è mostrata disponibile a andare incontro al governo a causa delle divergenze di vedute. Una portavoce della Commissione ha spiegato che «La graduale eliminazione dei prezzi regolamentati dell’energia elettrica, che mira ad aumentare la concorrenza sul mercato, è una pietra miliare che fa parte del più ampio pacchetto di leggi sulla concorrenza incluso nel PNRR», aggiungendo che «i prezzi dell’elettricità sul mercato libero sono significativamente più bassi rispetto al mercato regolamentato, a vantaggio dei consumatori e delle imprese».

Le affermazioni della Commissione europea, però, sono state smentite dai fatti e agli aumenti delle bollette si aggiunge ora anche l’aumento dei prezzi del gas: la stessa Commissione, infatti, ha fatto sapere che i prezzi del gas di quest’anno saranno più alti rispetto al 2024 e arriveranno tra i 40 e i 50 euro al megawattora, a causa della fine delle forniture dalla Russia. Si dovrà attendere, dunque, il 26 febbraio, giorno in cui la Ue dovrebbe presentare il suo piano per contenere i costi dell’energia, per sapere come intendano agire le istituzioni comunitarie. Nel frattempo, dalla Borsa del gas di Amsterdam, il Ttf, è arrivata la conferma all’allarme di Bruxelles: la quotazione del metano è salita del 3,2%, arrivando a 55,05 euro al megawattora, il valore più alto dal 2023. Dall’inizio dell’anno si è registrato un aumento del prezzo del gas pari al 12,6%.

La volontà di liberalizzare i mercati energetici mostra l’impostazione liberista che permea l’Unione europea, ma le sue conseguenze mettono ben in luce le storture di questa impostazione economica che, lungi dal favorire la maggioranza della popolazione, permette la speculazione e l’arricchimento di poche aziende e di una ristretta cerchia economica.

[di Giorgia Audiello]