mercoledì 5 Novembre 2025
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Romania: nominato un nuovo premier

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Il neo-eletto presidente romeno Nicusor Dan ha nominato il leader del Partito Liberale, di centrodestra, Ilie Bolojan primo ministro della Romania. L’annuncio arriva in un periodo di stallo per il Paese, appena uscito dalle turbolenti elezioni presidenziali che hanno accentuato la divisione in Romania. Il governo di Bolojan, la cui composizione non è ancora stata annunciata, chiederà la fiducia la prossima settimana. Esso dovrebbe godere dell’appoggio di diverse forze politiche, che, secondo quanto comunicano i media, si sarebbero accordate di cambiare la guida del governo prima della fine della legislatura, ruotando di volta in volta i partiti al vertice.

Matariki: reportage dal Capodanno Maori in Nuova Zelanda

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Monte Mauao, Nuova Zelanda – Prima dell’alba, il sentiero che sale il monte – luogo sacro per i Māori, il popolo originario della Nuova Zelanda – si riempie di torce, lanterne e telefoni. Una processione contemporanea, a metà tra una veglia spirituale e un’escursione domenicale. Mauao non nasce in mezzo ad altre montagne, ma svetta solitario in una penisola pianeggiante. Come un bernoccolo. Un promontorio improvviso, quasi fuori posto, che nonostante i soli 232 metri cattura lo sguardo e l’immaginazione.

Una leggenda tribale, difatti, narra che Mauao, un tempo, era una giovane collinetta innamorata di una montagna già promessa ad altri. Disperata, chiese ai patupaiarehe – spiriti soprannaturali delle colline – di portarla fino al mare per lasciarsi morire. Mentre la trasportavano, l’alba li colse: e poiché questi spiriti temono la luce del sole, la abbandonarono. Così la collina fu pietrificata per sempre nel punto in cui si trova oggi. È questa la storia che spiegherebbe la sua presenza isolata da altri rilievi e la celebrazione che si svolgerà a breve sulla sua cima.

Alle cinque e mezza del mattino, sui suoi versanti, le prime genti già arrancano e borbottano: chi per l’emozione, chi per il freddo dell’inverno australe, chi solo perché non ha dormito abbastanza. Alcuni sembrano cercare qualcosa, altri scattano selfie nel buio. È l’alba del nuovo anno Māori, ma a tratti sembra solo un raduno da weekend, con più giacche tecniche e torce frontali che consapevolezza del sacro.

Dove finisce la terra e comincia il mito

Il cielo, però, non sbaglia. Come ogni anno, a cavallo tra giugno e luglio, fa capolino Matariki, il gruppo stellare conosciuto come Pleiadi, che nel calendario lunare māori segna l’inizio di un nuovo ciclo. Quest’anno cade il 20 giugno, ma essendo legato all’osservazione astronomica, Matariki non ha una data fissa: la sua celebrazione varia di anno in anno, a seconda del momento esatto in cui le stelle tornano visibili all’alba. È il cielo, non l’orologio, a decidere quando è tempo di ricominciare.

Secondo la mitologia, Matariki è composta da sette o nove stelle, a seconda delle tradizioni tramandate dalle diverse tribù. Ognuna di esse custodisce un significato profondo, legato alla terra, all’acqua, al nutrimento, al ricordo degli antenati. La leggenda racconta di sorelle celesti che solcano il cielo insieme: nella versione più diffusa, Matariki è la madre, seguita dalle sue otto figlie, ognuna con il compito di vegliare sul mondo naturale e su quello spirituale. Si tratta di un gruppo di stelle noto anche come Pleiadi, visibile in tutto il mondo, situato nella spalla della costellazione del Toro. Una costellazione che in Europa passa quasi inosservata, ma che qui accende cerimonie, preghiere e nuove promesse.

Dal 2022, dopo anni di lotte e pressioni culturali, il governo neozelandese l’ha finalmente riconosciuta come festività nazionale. Ma molti ancora non ne comprendono davvero il senso. O peggio: non gli importa affatto. Presto lo capisco anch’io: tra il buio e il fiato corto della salita, qualcuno mi urta cercando di superarmi in fretta. Non c’è rispetto né scuse, solo il ritmo di chi vuole arrivare in cima prima degli altri, come se ci fosse un premio. Capisco che non tutti sono qui per lo stesso motivo. Per alcuni è Matariki, per altri è solo un’altra escursione a sfondo culturale.

Due 4×4 messe a disposizione dal Comune raggiungono la vetta, trasportando gli anziani delle comunità. Nessuna ostentazione. Solo un modo semplice e dignitoso per permettere anche a chi non ha più gambe forti di essere presente. Io sono in piedi poco distante, li osservo sedersi su sedie di plastica sistemate alla bell’e meglio. Parlano in inglese e commentano con sarcasmo l’affluenza: «Una volta, prima del Covid, non c’era tutta questa gente… ora sembra un concerto», dice uno. Ridono, ma non troppo. È chiaro che non tutto è gradito.

In cima ci attende l’Ātea-ā-Rangi, la pietra sacra che funziona come una bussola stellare, progettata secondo la tradizione navigazionale māori, usata per orientarsi grazie alla posizione delle stelle.

La cerimonia comincia. Si chiama Matariki Maumaharatanga, il rituale del ricordo. Jack Thatcher – navigatore, educatore, ostinato difensore delle tradizioni – prende la parola. Lo fa quasi esclusivamente in te reo Māori, la lingua polinesiana tradizionale di qui, oggi riconosciuta come una delle lingue ufficiali della Nuova Zelanda. Dopo decenni di repressione coloniale – in cui parlarla era vietato – te reo Māori è oggi oggetto di una forte rinascita culturale e identitaria. Ancora pochissimi neozelandesi oggi la sanno parlare; ecco che, soprattutto durante eventi come questo parlare Māori si trasforma in un atto di resistenza culturale. Chi non la parla, non può intendere. Chi capisce, si commuove.

Jack racconta, in una delle poche frasi tradotte, che quella pietra sacra non doveva neppure esserci. Il comune aveva dato un secco “no”. Allora lui l’ha messa lo stesso, ma ai piedi del Monte sacro. Poi il comune, forse attratto dall’idea di attrarre nuovi turisti, ha ceduto. Oggi quella pietra è al centro del cerchio, in cima a Mauao. Nessun simbolo più adatto.

Dopo alcuni canti e preghiere, uno ad uno, si fa la fila per sussurrare i nomi dei propri morti alla pietra di pounamu, una giada verde tipica della Nuova Zelanda. È un momento potente, eppure fragile. Intorno, qualcuno ride, qualcuno scrolla TikTok. Il sacro e il futile si sfiorano. Ma il cielo, testardo, continua a splendere.

Una festa, due mondi

All’alba, la festa scende a valle. Le strade si riempiono di eventi, bambini, camioncini di street food che vendono hāngī – il piatto tipico Māori cotto sotto terra fra le pietre roventi. Si celebra, si mangia, si chiacchiera. E si dimentica in fretta.

Un uomo di origine inglese, mi dice che non ha ben chiaro che cosa sia Matariki. «Non è la mia cultura», mi dice, sorseggiando caffè come fosse la cosa più naturale del mondo. Lo rispetto. Ma intanto mi domando cosa significhi colonizzare un Paese e ignorarne l’anima. Per molti Pākehā – i neozelandesi bianchi – Matariki è solo un altro giorno di vacanza. Un’occasione per uscire, bere qualcosa. Un tempo per non lavorare, non per ricordare. E così, la festa che dovrebbe unire, a volte rivela solo la distanza.

Un giovane Māori, invece, mi racconta del nonno che lo portava lontano dalle luci della città, sulle isole che affacciano la Baia del Plenty, dove il buio era ancora abbastanza profondo da svelare l’universo intero. Là, in silenzio, osservavano le stelle sorgere all’orizzonte, senza altro suono che quello del respiro. «All’epoca non c’erano turisti con fotocamere o telefoni a filmare tutto», dice con un sorriso tagliente, più rassegnato che nostalgico. Gli credo. Anch’io ho una reflex nello zaino pronta a scattare, ma scelgo di non sguainarla. È il motivo per il quale, a questo scritto, non seguirà alcuna fotografia. Certi riti vanno vissuti e rispettati, senza filtri, senza click.

Alla fine, resta la sensazione di aver sfiorato qualcosa che non ci appartiene del tutto. Un sapere antico che resiste, malgrado il folklore, l’ipocrisia istituzionale e le mode da cartolina. Le stelle, almeno loro, continuano a tornare. E noi, che ancora non sappiamo bene se ascoltarle o fotografarle, forse possiamo almeno imparare a fermarci. Matariki non chiede applausi. Chiede silenzio. Ma qui, anche quello ormai è diventato un lusso.

Ancora bombardamenti tra Israele e Iran

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Siamo entrati nell’ottavo giorno consecutivo di bombardamenti tra Israele e Iran. Oggi Israele ha reiterato i bombardamenti sugli obiettivi nucleari iraniani, prendendo di mira la casa di uno scienziato della Repubblica Islamica a Teheran e la città di Ahwaz, situata a 70 chilometri da uno stabilimento; ancora ignoti danni e feriti. L’Iran, invece, ha lanciato un bombardamento sul porto di Haifa, Be’er Sheva, Tel Aviv e Gerusalemme, ferendo 17 persone. Intanto a Ginevra è iniziato il vertice fra diplomatici iraniani e occidentali, a cui partecipano il ministro degli Esteri iraniano e quelli di Regno Unito, Francia e Germania, nonché l’Alta Rappresentante per gli Affari Esteri dell’UE.

Bologna, 10mila operai bloccano la Tangenziale: col dl-Sicurezza fioccano le denunce

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A Bologna diecimila operai sono scesi in piazza, facendo irruzione sulla Tangenziale. Il serpentone ha percorso un chilometro e mezzo prima di abbandonare l’autostrada e dirigersi al Parco Nord, per assistere al comizio congiunto dei sindacati confederali — CGIL, UIL e CISL — che nella giornata odierna hanno mobilitato i metalmeccanici per chiedere il rinnovo dei contratti nazionali, scaduti da oltre un anno. In una nota, la Questura di Bologna ha affermato che il corteo non ha seguito il percorso concordato, aggiungendo che “i dimostranti verranno denunciati penalmente, anche alla luce della recente normativa introdotta dal Decreto Sicurezza in materia di blocchi stradali”. Soltanto poche settimane fa i metalmeccanici erano scesi in piazza, insieme ad altri segmenti della società civile, per protestare contro l’approvazione della stretta repressiva voluta dal governo Meloni. Adesso rischiano fino a due anni di reclusione.

Questa mattina a Bologna, al presidio convocato dalle sigle confederali, si sono presentate 10mila tute blu. Il corteo partito dal Parco Nord ha percorso un tratto di via Stalingrado prima di imboccare la rampa della Tangenziale, all’ingresso 7. Gli operai hanno così invaso le corsie, bloccando il traffico per circa un’ora, prima di tornare al Parco Nord. La polizia ha scortato il serpentone senza cariche o respingimenti con l’uso della forza. Una scelta — scrive la Questura di Bologna — volta a “scongiurare il verificarsi di ulteriori situazioni di pericolo”. Da Piazza Galileo Galilei fanno sapere che i manifestanti saranno comunque denunciati per l’iniziativa sulla Tangenziale (azione che, secondo gli organizzatori, era stata invece preventivamente concordata con la Questura). Il nuovo decreto Sicurezza ha infatti reso il blocco stradale un reato e non più un illecito amministrativo. In caso di iniziativa individuale si rischia un mese di reclusione o una multa fino a 300 euro. Se il blocco è commesso invece da più persone — come avvenuto oggi a Bologna — la pena aumenta, arrivando fino a due anni di reclusione.

Lo sciopero nazionale in programma per oggi ha portato in strada decine di migliaia di persone in tutta Italia, tra manifestazioni, presidi e cortei. I sindacati di base — USB, Cobas e SGB — hanno indetto una mobilitazione generale di 24 ore, che ha colpito soprattutto il settore dei trasporti, tra ritardi e cancellazioni, con lo slogan: «Alzate i salari, abbassate le armi». Si sono registrati disagi in decine di città, tra cui Roma, dove un treno su quattro è stato cancellato. I centri dello sciopero indetto dai confederali, oltre a Bologna, sono stati Napoli e Mestre, che hanno ospitato i comizi dei leader sindacali e hanno visto scendere in piazza migliaia di metalmeccanici, uniti nella richiesta di aumenti salariali, riduzione dell’orario lavorativo e maggiore sicurezza.

9 Paesi UE chiedono il boicottaggio delle colonie israeliane illegali: Italia muta

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Nove Paesi membri dell’Unione Europea hanno chiesto alla Commissione UE di elaborare proposte legislative per interrompere il commercio con gli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati. Il documento, indirizzato all’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione, Kaja Kallas, è stato firmato dai ministri degli Esteri di Belgio, Finlandia, Irlanda, Lussemburgo, Polonia, Portogallo, Slovenia, Spagna e Svezia. L’iniziativa fa riferimento a un parere consultivo emesso nel luglio 2024 dalla Corte internazionale di giustizia, secondo cui l’occupazione israeliana e la costruzione di insediamenti nei territori palestinesi violano il diritto internazionale. Ancora una volta tra i firmatari non risulta l’Italia, che con il governo Meloni si conferma alleata di ferro di Israele in Europa.

La posizione dei nove Paesi riflette una crescente pressione affinché le politiche commerciali dell’UE siano coerenti con il diritto internazionale e i diritti umani. Nel testo della lettera, i nove ministri degli Esteri scrivono: «Non abbiamo visto alcuna proposta per avviare discussioni su come interrompere in modo efficace il commercio di beni e servizi con gli insediamenti illegali». Per questo, aggiungono, è necessario che «la Commissione europea sviluppi proposte di misure concrete per garantire il rispetto da parte dell’Unione degli obblighi individuati dalla Corte». Il ministro degli Esteri belga, Maxime Prévot, promotore dell’iniziativa, ha evidenziato come la Corte abbia indicato chiaramente che i Paesi debbano astenersi da qualsiasi attività economica che possa rafforzare l’illegalità della situazione nei territori occupati. Su X, Prévot ha dichiarato: «Il rispetto del diritto internazionale è una responsabilità condivisa. In un ordine internazionale basato su regole, la chiarezza giuridica deve guidare le scelte politiche. Un approccio europeo unito può contribuire a garantire che le nostre politiche riflettano i nostri valori».

Il tema sarà discusso lunedì prossimo al Consiglio Affari Esteri a Bruxelles, dove i ministri valuteranno anche la revisione dell’accordo di associazione UE-Israele, avviata alla luce della crisi a Gaza. Secondo quanto dichiarato da un portavoce della Commissione durante un briefing, «la revisione è stata ed è ancora in corso» e sarà «il prossimo Consiglio la sede opportuna per discuterne». Attualmente, l’Unione Europea è il principale partner commerciale di Israele, con un volume di scambi pari a 42,6 miliardi di euro nel 2023. Tuttavia, non è chiaro quanta parte di questo commercio coinvolga beni e servizi provenienti dagli insediamenti. La proposta dei nove Stati punta dunque anche a fare chiarezza su questo aspetto e a impedire che i fondi europei sostengano indirettamente l’occupazione israeliana.

Il documento su cui si basa questa iniziativa è il parere espresso dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG), che nel luglio dello scorso anno ha stabilito che gli insediamenti israeliani in Palestina violano il diritto internazionale. Il parere della Corte, che non è vincolante – come invece lo sono le risoluzioni ONU al riguardo, che hanno già determinato che l’occupazione israeliana è illegale -, era giunto in seguito una richiesta avanzata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 30 dicembre 2022, che aveva chiesto alla Corte di esprimersi in merito alle «conseguenze legali della continua violazione da parte di Israele del diritto all’autodeterminazione palestinese, dalla prolungata occupazione, insediamento e annessione dei Territori Palestinesi occupati dal 1967», inclusa Gerusalemme, e dell’adozione, da parte di Tel Aviv, di «leggi e misure discriminatorie» e in che modo tali pratiche «influiscono sullo status giuridico dell’occupazione e quali sono le conseguenze giuridiche che ne derivano per tutti gli Stati e le Nazioni Unite».

Nonostante le crescenti denunce da parte della società civile e il crollo di consenso verso Israele in tutta Europa – con la popolazione italiana tra quelle in assoluto più critiche secondo un recente sondaggio YouGov – il governo italiano continua così a distinguersi per la propria incondizionata fedeltà allo Stato ebraico. Precedentemente, Roma si era opposta alla revisione del trattato di associazione UE-Israele, chiesta da dieci Paesi europei dopo mesi di appelli e alla luce delle gravi violazioni commesse da Israele a Gaza, e aveva rinnovato in automatico il memorandum militare con Tel Aviv, nonostante i rilievi di costituzionalità sollevati da numerosi giuristi. Questo scollamento tra istituzioni e opinione pubblica è sempre più marcato: mentre il Parlamento italiano boccia sistematicamente ogni iniziativa per il riconoscimento dello Stato di Palestina, un’ampia fetta della popolazione esprime invece totale disapprovazione per le azioni dello Stato Ebraico in Medio Oriente.

Regno Unito: attivisti danneggiano due aerei

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Gli attivisti filo-palestinesi di Palestine Action hanno fatto irruzione in una base della Royal Air Force nell’Inghilterra centrale, danneggiando e imbrattando due aerei utilizzati per il rifornimento e il trasporto. La notizia arriva dalla stessa Palestine action che ha condiviso un video dell’azione sui propri canali social. Da quanto comunica il gruppo, due attivisti sono entrati nella base di Brize Norton, nell’Oxfordshire, imbrattando di vernice i motori degli aerei e danneggiandoli ulteriormente con dei piedi di porco. Qualche ora dopo, a Manchester, altri membri del gruppo hanno ricoperto di vernice le sedi dell’azienda tecnologica CDW e della compagnia assicurativa Allianz, che collaborano con l’azienda bellica israeliana Elbit.

Contro la guerra e il riarmo: domani due grandi cortei a Roma

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È confermato che a Roma, domani (sabato 21/6), a partire dalle ore 14, si terranno ben due cortei contro guerre e riarmo: uno partirà da Porta San Paolo e l’altro da Piazza Vittorio, con punti di arrivo ravvicinatissimi – Piazza del Colosseo e Fori Imperiali.

Questa settimana sono infatti fallite le trattative per arrivare a una piattaforma condivisa e a un corteo unico, nonostante l’impegno dei due gruppi promotori a raggiungere un’intesa sulle rivendicazioni principali, in particolare su quanto queste dovessero essere “essenziali” o “particolareggiate”.

Così, da San Paolo si marcerà «contro il riarmo» – quello voluto dalla Commissione Europea, punto e basta. Anche chi parte da Piazza Vittorio dirà «NO» alla spesa di 800 miliardi per gli strumenti di morte voluta dalla baronessa von der Leyen, ma con l’aggiunta di altri due altolà: «NO» alla richiesta della NATO di spendere il 5% del PIL in armamenti e «NO» alla permanenza dell’Italia nella NATO – punto che i promotori del primo corteo, invece, considerano divisivo.

Da San Paolo si marcerà «contro il genocidio», senza ulteriori specificazioni, mentre da Piazza Vittorio i manifestanti chiederanno – oltre alla condanna del genocidio perpetrato da Israele a Gaza e in Cisgiordania – di rompere le relazioni diplomatiche e militari tra l’Italia e Israele, di sostenere la Resistenza palestinese e di promuovere la campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) per penalizzare Israele economicamente.

Da San Paolo si marcerà contro l’autoritarismo, con un ovvio riferimento al cosiddetto «decreto sicurezza», recentemente trasformato in legge. Idem da Piazza Vittorio, ma con l’aggiunta della richiesta di abrogare non solo quella legge, ma anche tutte le altre norme anti-protesta e antisindacali, volute dall’attuale governo e da quelli precedenti: norme definite «guerra sporca contro i movimenti sociali».

In pratica, i promotori del corteo da San Paolo hanno ricercato soprattutto una piattaforma inclusiva e quindi meno particolareggiata. Chi sono costoro? Dietro la sigla Stop Rearm Italia ci sono più di quattrocento associazioni e organizzazioni della società civile, come ARCI, Rete dei Numeri Pari e Rete No Bavaglio, con l’adesione esterna del M5S, di AVS e di una parte del PD.

Invece, tra i promotori del corteo che parte da Piazza Vittorio, riuniti dietro la sigla Disarmiamoli!, figurano diverse formazioni della “sinistra sinistra”, come Potere al Popolo, Unione Sindacale di Base, Patria Socialista, Rete dei Comunisti, Generazioni Future e ben tre associazioni di Palestinesi in Italia. Hanno preferito una piattaforma più specifica e politicamente più impegnativa.

«Infatti, essere generici fa perdere di vista le rivendicazioni che invece dobbiamo proclamare ad alta voce», dice Giorgio Cremaschi di Disarmiamoli!; «niente riarmo ma anche niente NATO, niente genocidio ma anche niente rapporti con Israele, basta con l’autoritarismo della legge sulla ‘‘Sicurezza’’ ma basta anche con le altre norme bavaglio!»

«Invece solo se ci muoviamo in modo convergente, in Italia e in Europa, possiamo farcela», ribatte Raffaela Bolini di Stop Rearm Italia; «solo insieme possiamo avere la forza che serve».

E per far capire quanto il riarmo sia inevitabilmente il preludio alla guerra, Bolini lancia la proposta di inscenare un die-in (la simulazione di una ecatombe) intorno al Colosseo: chiede ai manifestanti di portare un lenzuolo da stendere per terra e, a un segnale sonoro, di sdraiarvisi sopra, per rievocare i morti e la devastazione che le guerre causano tra tutti i contendenti.

Si prevede un’adesione massiccia ai due cortei che approderanno entrambi nel cuore della Roma antica. Infatti, Stop Rearm Italia e Disarmiamoli! hanno già annunciato decine di pullman in arrivo da tutta Italia – anzi, entrambe le formazioni hanno difficoltà a reperire abbastanza pullman, tante sono le richieste. «In fondo, l’esistenza di un doppio corteo può anche essere vista in positivo, come una bella incentivazione a partecipare, perché dà una possibilità di scelta alla gente,» dice Gianni Magini di Allerta Media, che seguirà in diretta l’evento. «Chi preferisce le rivendicazioni concrete di Disarmiamoli! può optare per Piazza Vittorio alle ore 14. Chi invece preferisce la piattaforma ‘‘inclusiva’’ di Stop Rearm Italia, può scegliere di partire da Porta San Paolo alla stessa ora.

Intanto, tutti quanti confluiranno, all’arrivo, nel medesimo cuore della Roma antica, un ravvicinamento che – ci auguriamo – possa proseguire nelle future iniziative dei due gruppi promotori.

Congo, crollo in una miniera di coltan: 12 morti

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Il crollo di una miniera di coltan nella provincia del Nord Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo orientale, ha provocato ieri la morte di almeno 12 persone. Lo hanno riferito oggi fonti della società civile, rendendo noto che decine di altre persone sono fuggite dalla miniera in seguito al crollo. Ancora non chiare le cause dell’incidente. Le piccole miniere artigianali attorno alla città di Rubaya producono circa un sesto della fornitura mondiale di coltan, un minerale metallico essenziale per la produzione di smartphone e altri dispositivi elettronici. I ribelli dell’M23 controllano la zona dalla metà del 2024.

Il Garante ha fatto richieste precise al governo per risolvere l’emergenza carceri

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I garanti dei detenuti hanno inoltrato diverse richieste al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per cambiare il modo in cui vengono trattati i carcerati e migliorarne le condizioni di detenzione. Le istanze sono sfociate dalla Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale, tenutasi a Roma nella giornata di mercoledì. Nello specifico, i garanti hanno chiesto che venga assicurato ai detenuti il diritto ad accedere ai colloqui intimi, che le celle vengano lasciate aperte durante il giorno, che venga garantita l’ora d’aria tutti i giorni evitando le ore di caldo cocente (tra le 13 e le 15) e, specialmente, l’indulto per 16mila persone attualmente ristrette in carcere per reati minori.

Attualmente i Garanti territoriali sono 93, nominati da Regioni, Province e Comuni. A guidare l’assemblea è stato il portavoce della Conferenza, il Garante campano Samuele Ciambriello, che ha introdotto i lavori dando la parola ai colleghi delle varie realtà locali. Al centro del confronto, le condizioni emergenziali degli istituti penitenziari e l’urgente necessità di provvedimenti strutturali e immediati. Un primo tema affrontato è stato quello dei colloqui intimi tra le persone detenute e i propri partner, previsti dalle recenti linee guida del Dap. Tuttavia, «ne è emerso un quadro desolante»: fatta eccezione per il carcere di Terni, da cui è scaturita la storica sentenza della Corte costituzionale n.10 del 26 gennaio 2024, nessun altro istituto ha garantito la possibilità di colloqui riservati. «Ci sono state quattro sentenze di magistrati di sorveglianza che hanno intimato di permettere subito incontri intimi», ha ricordato Ciambriello, ma in molti casi queste indicazioni sono rimaste lettera morta. I Garanti denunciano l’inutilità dell’attuale e complessa attività istruttoria prevista per autorizzare i colloqui, anche quando si tratta di partner storici. Per questo si preparano a chiedere una revisione delle linee guida del Dap, nella parte relativa a durata e modalità degli incontri affettivi. Il diritto alla vita affettiva, sostengono, è parte integrante del percorso rieducativo e il suo mancato riconoscimento contribuisce al degrado psicologico dei detenuti.

A preoccupare i Garanti è poi l’annosa questione dei suicidi in carcere, che nel solo 2024 hanno toccato numeri record. Con l’obiettivo di evitarne altri, i Garanti chiedono l’introduzione di una serie di misure: sospensione delle circolari che impongono la chiusura nelle celle per venti ore al giorno, apertura degli spazi detentivi durante il giorno e accesso all’aria anche dopo le 16, non solo dalle 13 alle 15, quando le temperature sono molto alte. Rispetto al tema del sovraffollamento, la Conferenza ha ribadito la necessità di una riduzione immediata della popolazione detenuta, stimata in almeno 16mila unità. «La via maestra resta quella di un provvedimento di clemenza che comprenda un indulto nella misura di due anni». Se l’indulto non fosse politicamente attuabile, i Garanti propongono una liberazione anticipata speciale.

La drammatica situazione nelle carceri italiane è stata delineata da un recente rapporto dell’associazione Antigone, che ha appurato come, a fronte di una capienza reale di 46.700 posti, al 30 aprile 2025 i detenuti sono 62.445, facendo registrare un tasso di sovraffollamento medio del 133%. Secondo il report, solo 36 istituti su 189 non sono sovraffollati, mentre in 58 il tasso supera il 150%. Il 2024 è stato l’anno peggiore di sempre per i suicidi in carcere, con 91 morti, mentre nei soli primi cinque mesi del 2025 se ne sono verificati 33. Anche le carceri minorili registrano criticità: 611 giovani detenuti, +54% in due anni. Il decreto Caivano ha favorito il trasferimento punitivo di neomaggiorenni negli istituti per adulti (189 casi nel 2024). Inoltre, Antigone ha denunciato gli effetti del decreto Sicurezza, che abolisce l’obbligo di rinviare la detenzione per madri con figli piccoli e introduce la possibilità di separarli.

Los Angeles, Corte d’Appello: Trump può schierare Guardia Nazionale

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La Corte d’Appello del Nono Circuito degli USA ha autorizzato Donald Trump a mantenere il controllo della Guardia Nazionale a Los Angeles, respingendo il ricorso del governatore Gavin Newsom. La decisione ribalta la precedente sentenza di un tribunale inferiore, legittimando l’intervento federale in occasione delle proteste contro le politiche migratorie, nonostante l’assenza di preavviso al governatore. I giudici hanno ritenuto «sufficienti» le prove fornite dall’amministrazione, citando i rischi per agenti e strutture federali. Newsom ha criticato il verdetto come un colpo alla sovranità statale, ma ha apprezzato il riconoscimento della necessità di controllo giudiziario sulle azioni presidenziali.