venerdì 21 Novembre 2025
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Miliardi di sussidi alla pesca stanno finanziando danni sociali ed ecologici

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I sussidi elargiti dalle prime dieci nazioni del settore ittico supportano industrie della pesca che non sarebbero redditizie senza un sostegno finanziario. In questo modo contribuiscono alla pesca eccessiva e a quella illegale, non dichiarata e non regolamentata. È quanto ha denunciato un nuovo rapporto supportato da Oceana, l’organizzazione statunitense per la conservazione degli oceani. Il documento, pubblicato dai ricercatori dell’Università della Columbia Britannica, ha esaminato con attenzione i sostegni economici rilasciati dai governi a favore del settore ittico. È emerso come, nel 2018, dieci Paesi – Cina, Giappone, Corea del Sud, Russia, Stati Uniti, Thailandia, Taiwan, Spagna, Indonesia e Norvegia – abbiano speso più di 15,3 miliardi di dollari innescando problematiche sociali, economiche ed ecologiche. Circa il 60% è stato speso per la pesca domestica, mentre il 35% per quella in acque straniere. Il restante 5%, invece, ha sostenuto le attività ittiche in alto mare, ovvero, in settori oceanici al di fuori della giurisdizione di qualsiasi nazione.

La Cina, con una spesa di circa 5,9 miliardi di dollari, è risultata essere il principale fornitore di sussidi alla pesca dannosi. Seguono Giappone con 2,1 e l’Unione europea con 2. In termini sociali, questi sostegni economici potrebbero portare a problemi di sicurezza alimentare in alcuni paesi meno sviluppati. Secondo il rapporto, infatti, le catture effettuate da pescherecci stranieri nelle acque degli Stati a basso reddito tendono a superare le sovvenzioni e le catture nazionali. In Sierra Leone, ad esempio, dove le persone dipendono dalla pesca per circa l’80% del loro fabbisogno giornaliero di proteine animali, i sussidi stranieri superano di dieci volte quelli dello Stato. Quel che ne risulta è che i pescatori esteri, impoverendo lo stock ittico del luogo, catturano il doppio del pesce rispetto a quelli locali. La mancanza di risorse per gestire e monitorare adeguatamente le attività di pesca condotte da flotte straniere – si legge nel rapporto – non fa altro che aggravare la situazione. Ciò, in definitiva, potrebbe determinare pratiche insostenibili e persino una pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata. In questo caso, inoltre, le conseguenze non sarebbero solo socioeconomiche, ma anche e soprattutto ecologiche.

Anziché favorire un’indispensabile transizione sostenibile del settore, i governi rischiano di peggiorare il già annoso problema del sovrasfruttamento degli stock ittici del Pianeta. Una pesca sostenibile, infatti, rispetta la naturale crescita delle popolazioni e non toglie più di quanto queste possano rigenerare autonomamente. «Tuttavia, tali sussidi – ha dichiarato a Mongabay il ricercatore Daniel Pauly – possono incoraggiare la pesca nelle aree in cui gli stock sono già stati esauriti e impedire qualsiasi tipo di recupero. Ad esempio – ha aggiunto – questi consentono a paesi come Cina, Giappone, Taiwan, Spagna e Francia di pescare in modo competitivo il tonno nel Pacifico, nonostante sia noto quanto la popolazione risulti in deficit numerico e presenti chiare difficoltà di recupero». Un meccanismo quindi, atto a favorire devastanti impatti ecologici nonché, come abbiamo visto, pericolosi rischi sociali. Per cambiarlo, prima di tutto – chiedono a gran voce gli autori del documento – è necessaria una trasparenza maggiore sull’entità e la destinazione di tali sussidi.

[di Simone Valeri]

Tutti uniti per il calcio, ok ci sta! Ma se diventassimo popolo anche per le cose importanti?

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Ancora una volta l’Italia si è stretta attorno alla propria nazionale di calcio. Le immagini delle piazze durante la finale degli Europei, vinta contro l’Inghilterra, ci restituiscono le scene di migliaia di connazionali festanti, per una volta strappati a vite sempre più orientate al privato per una nottata di dimensione collettiva. Tutto molto bello, sul serio. I facili moralismi dei bastian contrari a tutti i costi che bacchettano l’incongruenza del celebrare una squadra di milionari viziati non hanno senso. Piaccia o meno, il calcio è sport nazionale ed è normale, legittimo e anche bello che una nazione si riversi in strada a celebrarne il successo. E poi, dopotutto, non si capisce per quale ragione scatenarsi nella festa per una occasione ludica dovrebbe impedire ad una persona di essere anche conscia e impegnata sulle cose importanti. La storia è piena di grandi personaggi, che hanno lottato in prima persona per cambiare le cose e che erano anche ferventi tifosi.

Una volta, dopo la vittoria dei mondiali di calcio del 1982, un cronista chiese al presidente Pertini – uno che la lotta per i suoi ideali, prima come partigiano e poi in tempo di pace, non l’ha certo mai mancata – se i festeggiamenti non fossero una esagerazione che rischiava di far dimenticare agli italiani i problemi reali. Il presidente si arrabbiò, affermando: «ma ci dovrà pur essere una sosta dalle preoccupazioni. Sarebbe come andare a dire a chi è felice alla domenica “ma cos’hai da essere felice che domani sarà lunedì?”. Oggi pensiamo alla domenica, il lunedì lo affronteremo a suo tempo». È giusto, e se tanti la loro “domenica” vogliono passarla gioendo o soffrendo per il calcio non si capisce cosa ci sia da obiettare.

Tuttavia non si può non notare come gli italiani sembrino aver perso ormai ogni altra possibile dimensione collettiva se non legata a qualche cosa di ludico. Si scende in strada per il calcio, ma per tutto il resto – al massimo – c’è un post di protesta su Facebook? È questa la cosa che non ha senso. Così si rischia di diventare sempre più un popolo di professionisti della lamentela, che ha dimenticato come scendere uniti in piazza possa servire anche per cambiare le cose o per pretendere misure politiche che non vadano contro gli interessi collettivi. Una nazione che, in definitiva, accetta ogni cosa pensando non ci sia nulla che si possa fare: governi non eletti a ripetizione, l’introduzione di misure che erodono i diritti sul lavoro, limitazioni alle libertà personali senza precedenti.

Eppure non è così. In Francia, ad esempio, la determinazione popolare nelle proteste contro la nuova legge sulla sicurezza che impediva ai cittadini di filmare le forze dell’ordine ha portato alla sua modifica e sempre in Francia – popolo che in quanto a fermezza nel difendere i propri diritti andrebbe preso ad esempio – i vari governi da anni non riescono a far passare una riforma delle pensioni molto più timida di quella “lacrime e sangue” varata nel 2011 in Italia dalla ministra Fornero, perché ogni volta che ci provano si trovano centinaia di migliaia di francesi in piazza e scioperi in tutti i posti di lavoro. Anche in Spagna, dopo le proteste seguite all’arresto per reati di opinione del rapper Pablo Hasél, il governo si è dovuto impegnare a rivedere le norme contro la libertà di espressione. In Italia, pure, non mancano gli esempi: poche settimane fa i portuali di Ravenna sono riusciti a fermare i carichi d’armi che salpavano verso Israele, mentre in Val di Susa, da oltre vent’anni, la determinazione e l’unità dei cittadini impedisce la costruzione del Tav. Insomma, celebriamo pure i successi nello sport, ma ricordiamo che se utilizzassimo una frazione della stessa determinazione per cercare di cambiare le cose che non vanno avremmo molto più spesso delle buone ragioni per festeggiare, magari anche per cose che contano davvero.

 

Haiti dopo l’uccisione del presidente è nel caos, diversi indizi portano verso gli Usa

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All’alba di mercoledì 7 luglio, un commando di mercenari ha fatto irruzione a casa del Presidente haitiano, Jovenel Moïse, 53 anni, crivellandolo fatalmente di colpi sotto gli occhi della moglie, ferita a sua volta, e del figlio. Si è trattata di una spedizione omicida portata avanti da una rete straniera composta da almeno 28 persone, perlopiù ex soldati colombiani che hanno raggiunto la nazione passando dalla Repubblica Dominicana e muovendosi adoperando delle Nissan Patrol nuove di zecca e prive di targa.

La polizia locale ha ucciso tre sospetti in occasione di uno scontro a fuoco e ha fermato almeno diciassette persone, tutte colombiane se non fosse per la presenza di due statunitensi di origini haitiane, James Solages, 35, e Joseph Vincent, 55. In quello che viene identificato come il plotone di esecuzione figurano ex informatori dell’FBI e della DEA, nonché Manuel Antonio Grosso Guarín, 41, ex militare pluridecorato che è stato più volte coinvolto come operativo dall’Intelligence USA. Gli Stati Uniti hanno immediatamente notificato di aver rescisso ormai da tempo i legami con i presunti killer.

Le autorità in carica, le opposizioni e persino la malavita locale sono concordi nel denunciare l’atto criminale come una manovra politica, tuttavia risulta estremamente insidioso il decifrare quale sia la parte che vuole effettivamente trarre vantaggio da un simile risvolto, se le gang armate, uno dei diplomatici locali o i poteri esteri preoccupati per la direzione che stava prendendo il Governo haitiano.

Negli ultimi mesi, il Presidente era stato infatti accusato dall’opposizione di non aver alcuna intenzione di abbandonare la sua poltrona, accusa che certamente non è stata quietata dal fatto che Moïse, avendo sciolto il Parlamento, stesse governando a colpo di decreti e che vagliasse una riforma costituzionale che gli avrebbe permesso di rinnovare la sua candidatura anche alle prossime elezioni.

La guida del Paese sarebbe dovuta cadere in seno al Giudice della Corte Suprema, il quale, deceduto a causa del Covid-19, fa scivolare l’onere sul Primo Ministro ad interim Claude Joseph, il quale potrebbe insediarsi solamente una volta ottenuta la benedizione di quello stesso Parlamento che ormai non esiste più. A complicare la situazione è il fatto che Moïse avesse appena nominato un nuovo Primo Ministro, Ariel Henry, e che nel frattempo il claudicante Senato di Haiti abbia votato per promuovere il Senatore Joseph Lambert a Presidente transitorio.

Le potenti gang haitiane stanno inoltre scendendo in campo per denunciare quello che identificano come un colpo di Stato, ventilando la volontà di scomodare l’intera alleanza malavitosa – il G9 – per portare avanti una battaglia armata contro un nemico non meglio definito. Di fatto una “rivoluzione” che permetterà loro di estendere ulteriormente la loro già soverchiante influenza.

Claude Joseph, soggetto all’approvazione delle forze internazionali, si appella all’esercito degli Stati Uniti per ottenere una mano nel “preservare la pace” nel Paese, ma gli USA stanno reagendo alle spassionate richieste guadagnando tempo, così da “valutare” la situazione.

Uno dei motivi di questo temporeggiamento può essere attribuito al fatto che tra i corridoi del potere di Washington stiano girando i lobbisti sponsorizzati da Reginald Boulous, i quali spingono perché gli Stati Uniti appoggino Joseph Lambert e Ariel Henry, rispettivamente nei ruoli di Presidente e Primo Ministro

Politico oppositore di Moïse e imprenditore dal passato torbido, Boulous è ritenuto da molti haitiani il mandante dell’omicidio presidenziale. Certezze popolari macchiate dalla presenza di audaci illazioni, tuttavia l’uomo ha in passato assoldato James Solages per sfruttare le sue competenze militari e possiede per vie traverse una concessionaria Nissan, elementi che certamente sollevano qualche dubbio nei confronti della sua trasparenza.

[di Walter Ferri]

Francia: multa record da 500 mln di euro a Google

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L’autorità francese per la concorrenza ha inflitto a Google una multa da 500 milioni di euro. L’autorità contesta alla società statunitense di non aver negoziato «in buona fede» con gli editori della stampa per ciò che concerne l’applicazione dei cosiddetti diritti connessi. Non solo, Google dovrà «presentare un’offerta di remunerazione per l’attuale uso dei contenuti protetti» di agenzie di stampa ed editori se non vorrà subire ulteriori maxi-sanzioni. La società statunitense ha espresso delusione per il verdetto, ritenendo che la multa non consideri gli «sforzi messi in campo» per arrivare ad una soluzione ed ignori «la realtà di come funzionano le notizie sulle nostre piattaforme».

Vaccini Covid: dal nuovo report dell’Aifa emergono 76mila sospette reazioni avverse

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L’Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco) ha recentemente pubblicato il nuovo (il sesto) Rapporto di Farmacovigilanza sui Vaccini Covid-19, il quale ha ad oggetto tutte le sospette reazioni avverse ai 4 sieri in uso segnalate dagli italiani dal 27 dicembre 2020 al 26 giugno 2021. Dal documento si apprende che, su un totale di oltre 49 milioni di dosi somministrate, sono state effettuate 76.206 segnalazioni: si tratta di 154 eventi avversi ogni 100.000 dosi. Come riportato nei precedenti rapporti, «la reazione si è verificata nella maggior parte dei casi (80% circa) nella stessa giornata della vaccinazione o il giorno seguente e solo più raramente l’evento si è verificato oltre le 48 ore successive». L’età media delle persone che hanno avuto un sospetto evento avverso è di 49 anni: il tasso di segnalazione è maggiore nelle fasce di età comprese tra i 20 ed i 60 anni, mentre è minore in quelle più avanzate.

Inoltre, nonostante una somministrazione del vaccino pressoché identica nelle donne e negli uomini (54% delle dosi somministrate nel sesso femminile e del 46% nel sesso maschile), il 73% delle segnalazioni riguardano le donne ed il 26% gli uomini, indipendentemente dal vaccino e dalla dose somministrata. L’1% mancante, invece, è determinato dal fatto che il sesso non è stato riportato appunto nell’1% delle segnalazioni. Quella della prevalenza femminile nelle segnalazioni, si sottolinea all’interno del rapporto, è una tendenza osservabile anche negli altri Paesi europei.

Per quanto riguarda poi il modo in cui ciascun vaccino contribuisce al numero delle segnalazioni, al primo posto vi è quello Pfizer/BioNTech, causa del 69% delle stesse. Va detto però che tale primato è legato al fatto che si tratta del siero finora più utilizzato nella campagna vaccinale (70,6% del totale dosi somministrate). Ad esso segue il vaccino AstraZeneca (17,3% del totale delle dosi effettuate) da cui dipendono il 24,7% delle segnalazioni, il vaccino Moderna (9,6% del totale delle dosi somministrare) con il 5,2% delle segnalazioni e, infine, quello della Johnson & Johnson (2,5% delle dosi somministrate), causa del 1,1% delle segnalazioni.

Detto ciò, l’87,9% degli eventi avversi segnalati non sono gravi e riguardano sintomi come: dolore in sede di iniezione, febbre, stanchezza e dolori muscolari. Gli eventi gravi, invece, rappresentano l’11,9% del totale, una percentuale maggiore rispetto a quella riportata in tutti i report precedenti. Inoltre, «il 46% di tutte le segnalazioni gravi valutate è correlabile alla vaccinazione, il 33% è indeterminato, il 19% è non correlabile e il 2% inclassificabile». Il 60% di questi eventi si è risolto con la guarigione o un miglioramento già al momento della segnalazione mentre il 24% dei soggetti risultano non guariti in quel momento.

Andando nello specifico, poi, si nota che tra le reazioni avverse gravi sono stati segnalati anche problemi cardiaci legati ai vaccini ad mRna (Pfizer e Moderna): 55 casi di pericardite (età media 52,6 anni) e 14 casi di miocardite (età media 32,3 anni) segnalati per il vaccino Pfizer, mentre 9 di pericardite (età media 51 anni) e 5 di miocardite (età media 29 anni) per il Moderna. Si tratta di un problema già sottolineato dal Centers for disease control and prevention (Cdc), l’agenzia federale di controllo sulla sanità pubblica degli Stati Uniti.

Per quanto riguarda i casi fatali, invece, sono 423 le segnalazioni che «riportano l’esito decesso» con un tasso dello 0,85 ogni 100mila dosi somministrate, in leggera flessione rispetto ai rapporti precedenti. Il 51,5% dei casi riguarda donne, il 48% uomini mentre lo 0,5% non riporta questo dato. L’età media è di 77 anni, in 244 casi il decesso è stato registrato dopo la prima dose ed in 127 dopo la seconda.

Il vaccino con il più alto tasso di segnalazione di casi fatali è il Moderna (1,58 ogni 100.000 dosi), segue il Johnson&Johnson (1,15), l’AstraZeneca (0,84) ed il Pfizer (0,75). Tuttavia nel documento si ricorda che «il differente tasso di segnalazione di eventi con esito fatale è in larga parte dipendente dalla diversa popolazione target dei singoli vaccini e dalla diversa esposizione». Detto questo, per quanto riguarda il nesso tra vaccinazione e decesso, si sottolinea che «il 63,4% delle segnalazioni ad esito fatale presenta una valutazione di causalità con l’algoritmo OMS utilizzato per la vaccinovigilanza, in base al quale il 59,6% dei casi è non correlabile, il 33,6% indeterminato e il 4,2% inclassificabile per mancanza di informazioni necessarie. In sette casi (2,6% del totale), la causalità risulta correlabile».

Infine, nel rapporto vengono riportati anche i dati che riguardano la vaccinazione eterologa, ovvero il richiamo con un vaccino a mRNA per gli under 60 vaccinati in prima dose con AstraZeneca. La seconda dose è stata fatta nell’86% dei casi con il vaccino Pfizer/BioNTech e nel 14% con quello Moderna: sono state inserite 27 segnalazioni su un totale di 233.034 somministrazioni, con un tasso di segnalazione di 12 ogni 100.000 dosi effettuate. Dunque, si tratta di numeri più bassi rispetto a quelli totali, un risultato che potrebbe definirsi alquanto inaspettato dato che il mix vaccinale è stato approvato dall’Aifa sulla base di due ricerche scientifiche non attendibili.

[di Raffaele De Luca]

Bolivia: bus precipita in burrone, 34 morti

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Sono 34 le persone che hanno perso la vita e dieci quelle rimaste ferite a causa di un incidente avvenuto nel sudest della Bolivia: il pullman su cui viaggiavano le vittime è precipitato in un burrone di oltre 150 metri. Si tratta della peggior tragedia stradale dall’inizio dell’anno nel Paese, la quale nello specifico si è verificata all’alba nel dipartimento di Chuquisaca, sulla strada per la città di Sucre. La polizia ha annunciato un’indagine sulle cause dell’incidente.

Indonesia, la moratoria sull’olio di palma sta salvando le foreste pluviali

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L’Indonesia detiene un terzo delle foreste pluviali tropicali del mondo. Tesori da preservare, poiché habitat di uccelli, leopardi, rinoceronti, tigri, oranghi e tribù indigene. Per questo motivo, dal 2014, il presidente Joko Widodo, ha introdotto delle riforme atte a migliorare lo sfruttamento del terreno. Provvedimenti che hanno portato ad una rilevante diminuzione della deforestazione tanto che, nel 2020, il paese ha raggiunto un calo annuo del 75%. Non solo. L’Indonesia è sempre stato il più grande produttore di olio di palma, tanto da permettere a chiunque potesse di avviare una coltivazione. Tuttavia, di recente, una moratoria sui permessi riguardanti le piantagioni ne ha rallentato la produzione.

Un cambiamento radicale dopo i numerosi incendi che hanno raso al suolo vaste aree verdi indonesiane. Come nel 2015, quando sono stati dati alle fiamme oltre 2,6 milioni di ettari di foreste, torbiere e altri terreni, con emissioni di CO2 che si attestavano su una media di 15,95 milioni di tonnellate al giorno. Il tutto per le coltivazioni di palme da olio. Da qui, la presa di posizione del governo indonesiano, con l’introduzione di una moratoria sulla conversione di foreste primarie e terreni torbosi. Una strategia che, in concomitanza del calo dei prezzi dell’olio di palma, ha influito tantissimo sul rallentamento della deforestazione. Come indicato da un recentissimo studio, non ancora sottoposto a revisione paritaria, un calo dei prezzi dell’1% è correlato a una diminuzione dell’1,08% delle nuove piantagioni e a una diminuzione dello 0,68% della deforestazione. 

[di Eugenia Greco]

Iraq: incendio in ospedale, almeno 52 morti

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Almeno 52 persone sono morte ed altre 22 sono rimaste ferite a causa di un incendio scoppiato ieri sera in un reparto per pazienti Covid (dotato di 70 posti letto) dell’ospedale Al-Hussein di Nassiriya, in Iraq. Sono state le autorità locali a rendere nota la tragedia, in seguito alla quale il primo ministro Mustafa al-Kazimi ha convocato ministri e funzionari della sicurezza per analizzare i motivi e le conseguenze dell’incendio. Inoltre, il direttore dell’ospedale ed il capo della protezione civile della provincia di Dhi Qar, da cui dipende la città di Nassiriya, sono stati interrogati dalla polizia.

Russia: Ue proroga sanzioni economiche per destabilizzazione Ucraina

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Il Consiglio Ue ha deciso di prorogare di altri sei mesi, ossia fino al 31 gennaio 2022, le sanzioni in alcuni specifici settori economici della Russia a causa della destabilizzazione dell’Ucraina. Questa decisione arriva in seguito all’ultima valutazione dello stato di applicazione degli accordi di Minsk. In tal senso, le sanzioni economiche sono state introdotte nel luglio 2014, successivamente rafforzate nel settembre dello stesso anno e, nel mese di marzo 2015, il Consiglio Ue ha stabilito che la loro durata dovesse appunto essere legata alla completa attuazione degli accordi.

Il voto elettronico è insicuro e a rischio brogli, l’Italia ne avvia l’introduzione

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Il 9 luglio 2021, il Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e il Ministro per l’Innovazione Ecologica e la Transizione Digitale Vittorio Colao hanno adottato un decreto per la sperimentazione del voto elettronico.

Il decreto prevede una gradualità nella sperimentazione: ci sarà una fase iniziale di simulazione in cui il voto digitale sarà privo di valore legale e poi una seconda fase in cui il voto avverrà in un contesto elettorale e acquisirà valore legale. La sperimentazione interesserà almeno 7,5 milioni di italiani (3 milioni di fuorisede e 4,5 di residenti all’estero), che potranno votare digitalmente e a distanza. Probabilmente però toccherà molte più persone, perché chiunque si troverà al di fuori del proprio comune per ragioni di lavoro, studio o salute sarà autorizzato a votare a distanza.

Il decreto è partito dall’inizativa del Presidente degli Affari costituzionali della Camera Giuseppe Brescia (del Movimento 5 Stelle), che nel 2019 aveva istituito un fondo di un milione di euro per l’introduzione del voto elettronico.

Sono numerose le voci critiche. L’e-voting è considerato da molti una procedura inadeguata: falle nei sistemi, violazioni della privacy degli utenti, fino anche ad alterazioni dei dati elettorali elettronici sono solo alcune delle ragioni che hanno portato a denunce contro l’e-voting negli Stati Uniti, dove il sistema è in uso. Oltretutto, in Italia c’è un forte ‘digital divide’, che precluderebbe a molti questa risorsa e rinforzerebbe quindi disuguaglianze già esistenti. Per quanto si possa poi ribadire che il processo è ufficiale, trasparente e verificato, i sistemi elettronici sono esposti sia a problemi tecnici che a fenomeni maligni come l’hackeraggio.

Ma la principale ragione del diffuso scetticismo è l’estrema difficoltà a verificare e riconteggiare i voti ad elezioni fatte. I dati elettronici possono essere cancellati o perdersi, mentre è difficile che questo avvenga per delle schede cartacee. Gli unici sistemi di votazione elettronica sicura sembrerebbero essere quelli in cui è presente una qualche forma di supporto cartaceo (solitamente si tratta di una ricevuta che viene poi inserita in un’urna come avviene nelle elezioni tradizionali). Non è questo il caso del voto elettronico in corso di sperimentazione, che quindi è passibile di alterazioni.

In molti paesi europei, la votazione elettronica è già stata testata e accantonata, e a volte addirittura dichiarata incostituzionale, per via della sua insicurezza. Perché l’Italia non sta tenendo conto di queste esperienze e si sta avviando su una via complessa, estremamente cara e particolarmente fragile?

[di Anita Ishaq]