venerdì 21 Novembre 2025
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Firenze: 422 lavoratori della Gkn licenziati via mail occupano la fabbrica

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Sono in presidio continuo i lavoratori della fabbrica della Gkn situata a Campi Bisenzio (Firenze): si tratta di una multinazionale britannica che si occupa di componenti destinate al settore automobilistico, dalla quale nella notte tra giovedì e venerdì sono stati licenziati senza preavviso via mail tutti i 422 dipendenti, ossia 4 dirigenti, 16 quadri, 67 impiegati e 335 operai. Perciò i lavoratori, con le rsu ed i sindacati, hanno aperto nella giornata di venerdì un’assemblea permanente all’interno dello stabilimento ed oggi timbreranno ugualmente il cartellino in segno di protesta.

Per quanto concerne le motivazioni di questi licenziamenti, Gkn ha affermato che le previsioni di fatturato dello stabilimento del comune fiorentino per il 2025 si attestino a circa 71 milioni di euro, una cifra inferiore di circa il 48% rispetto al fatturato del 2019. Ed a causa della contrazione dei volumi del comparto automobilistico, ha spiegato l’azienda, la prospettiva è quella di una non sostenibilità della fabbrica, motivo per cui si è deciso di chiuderla. Inoltre, va sottolineato anche il fatto che si tratti di esuberi strutturali, dato che secondo l’azienda non vi sarebbero le condizioni per ricorrere ad ammortizzatori sociali.

Motivazioni che però non sembrano convincere i lavoratori: in tal senso Massimo Barbetti, Delegato Fiom Cgil Firenze Gkn, ha affermato che «questa non è un’azienda che non ha lavoro, abbiamo lavorato, abbiamo fatto straordinari anche nei mesi scorsi e da almeno un anno nessuno è in cassa integrazione. Dunque non c’è alcuna ragione affinché questo sito chiuda, se non una speculazione di tipo finanziario».

Detto ciò, sono state numerose dall’annuncio dei licenziamenti le manifestazioni di vicinanza e le parole di solidarietà espresse nei confronti dei lavoratori di Gkn, ma senza dubbio le più importanti sono quelle che due giorni fa ha pronunciato il ministro del Lavoro Andrea Orlando. «Il Mise si sta muovendo per verificare le condizioni in cui è avvenuto l’episodio, ma si tratta di modalità che non possono essere accettate e su cui bisogna trovare tutti gli elementi per scongiurarle», ha affermato. Ed in tal senso proprio nella giornata di oggi si apprende della convocazione per giovedì alle ore 14:00 al Mise di un tavolo per affrontare il problema dei licenziamenti dei lavoratori Gkn. Ad esso parteciperanno ministero del Lavoro, le organizzazioni sindacali, i rappresentanti di Gkn Firenze, Gkn Automotive e Melrose (fondo di investimento proprietario della Gkn), la Regione Toscana e il Sindaco di Firenze.

[di Raffaele De Luca]

Ora lo dice anche Crisanti: “Noi pensiamo che coi vaccini si risolva tutto, ma non è così”

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«Noi pensiamo che coi vaccini si risolva tutto, ma non è così. Per un virus che cambia come questo basare tutto su di essi a mio avviso non avrà l’effetto sperato, perché non abbiamo la capacità di aggiornare i vaccini alle varianti alla velocità con cui il SARS-CoV-2 muta». Parole dette niente meno che da Andrea Crisanti, direttore del Dipartimento di Microbiologia dell’Università di Padova, uno degli esperti che solitamente riempiono i salotti dei talk show televisivi a tema Covid, già consulente tecnico della regione Veneto durante il periodo più critico della prima ondata.

Nell’intervista, rilasciata a Radio Cusano Campus, Crisanti specifica il motivo per il quale la vaccinazione non sarà a suo avviso risolutiva: «Per riformulare il vaccino ci vogliono un paio di mesi e mezzo anno per distribuirlo, nel frattempo il virus ha galoppato. Una cosa è vaccinare centinaia di migliaia di persone all’anno per l’influenza, altra cosa è vaccinare ogni anno decine di milioni di persone». Insomma, secondo Crisanti, il successo della campagna vaccinale in atto non comporterà la sconfitta del virus, il quale nel frattempo avrà con buone probabilità continuato ad evolversi in nuove forme sempre più adatte ad aggirare i sieri attualmente in commercio fino a renderli sempre meno efficaci.

Parole che dovrebbero quanto meno aprire un dibattito, anche perché rappresentano la riformulazione all’interno del confronto mainstream di dubbi da tempo espressi nella comunità scientifica. Settimane fa venne non solo emarginato dalla discussione pubblica ma addirittura ridicolizzato sui sedicenti siti di fact-checking il dott. Pierluigi Garavelli, primario di Malattie Infettive dell’Ospedale Maggiore della Carità di Novara, che disse cose molto simili, affermando che fosse un grande rischio vaccinare durante il picco epidemico e che la strategia di contrasto al virus avrebbe dovuto basarsi innanzitutto su comportamenti responsabili e cure domiciliari «assolutamente disponibili e valide».

Le opinioni espresse ora anche da Crisanti, tra l’altro, sono le stesse di uno studio scientifico pubblicato su Plos Biology nel 2015, dal quale era emerso che i virus possono diventare più aggressivi e pericolosi quando si usano vaccini “imperfetti”, ovvero che prevengono la malattia ma non la trasmissione del virus ad altri individui. I ricercatori statunitensi e britannici avevano analizzato vari tipi di vaccini, concludendo che quelli che funzionano perfettamente, come i vaccini contro vaiolo, polio, orecchioni, rosolia e morbillo, sono capaci di prevenire la malattia ed anche la trasmissione del virus, mentre quelli imperfetti consentono al virus di sopravvivere, circolare ed evolvere verso forme più aggressive.

La raccolta fondi è finita, la vera sfida ha inizio: L’Indipendente è qui per restare

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Era il 12 aprile quando ci presentavamo ai lettori con una sfida un po’ pazza: costruire da zero un nuovo giornale online onesto, senza filtri, coraggioso, ancorato ai fatti, senza padroni politici o economici. Per farlo avevamo bisogno che più lettori possibili ci supportassero ed avevamo attivato una campagna di sottoscrizioni con l’obiettivo di raccogliere 25.000 euro in tre mesi per dare vita al nostro sogno. Tre mesi sono passati e la campagna di crowfunding si è conclusa ieri sera. Il risultato? Di euro ne abbiamo raccolti 69.895, grazie a 1.859 sottoscrittori.

È un risultato incredibile che ha superato ogni nostra aspettativa. Per prima cosa vogliamo ringraziare tutti voi che ci avete dato fiducia, mettendo mano al portafogli o parlando di noi con colleghi e amici. Nel panorama attuale di totale e giustificata sfiducia verso i media quella che abbiamo costruito è una vera impresa che testimonia quanto sia avvertita da tanti la necessità di un giornale realmente senza padroni, quindi libero di raccontare semplicemente le cose per come stanno.

Naturalmente questo successo per noi è anche una grande responsabilità. Siamo nati per restare e vogliamo costruire un giornale capace di crescere passo dopo passo, facendo il nostro meglio ogni giorno per offrire sempre più contenuti e di sempre maggiore qualità. Crediamo (speriamo) di essere riusciti già a dare un segnale in questi primi mesi del nostro lavoro e della nostra linea. Continueremo a seguirla. I fondi raccolti ci hanno permesso di allestire una piccola redazione (per ora online) e di iniziare nuovi progetti dei quali vedrete i frutti già nei prossimi giorni.

Tante sono le novità in cantiere: dal prossimo mese gli abbonati, oltre alla nostra rassegna stampa quotidiana che già ricevono via mail ogni mattina, inizieranno a ricevere il “Monthly Report”, ovvero il nostro mensile con inchieste e contenuti esclusivi. Il primo numero si intitolerà “Post-pandemia. Il nuovo mondo in preparazione” e siamo certi che farà parlare e riflettere. Inoltre nuove rubriche del sito sono in allestimento e abbiamo intenzione di aumentare la frequenza con la quale vi proponiamo inchieste e reportage, capaci di far conoscere senza filtri la realtà di quanto accade in Italia e nel mondo. Un passo per volta, questo è quanto vogliamo riuscire a mettere in campo, mantenendo sempre la barra dritta sulla nostra linea, quella di pubblicare notizie importanti, verificate e senza filtri. Senza utilizzare titoli clickbait e con un’adesione totale alle fonti e alla loro verifica.

Senza dilungarci, perché vogliamo continuare a far parlare i fatti. Vi ringraziamo ancora tutti, uno per uno. E vi chiediamo di continuare non solo a sostenerci, ma anche ad essere lettori esigenti e critici, perché ci aiuterete a fare sempre meglio. Da oggi è possibile abbonarsi per ricevere i nostri contenuti extra oppure effettuare una donazione libera per sostenere il nostro lavoro direttamente sul sito.

La sfida è appena cominciata, siamo qui per restare!

Omicidio presidente Haiti: arrestato presunto organizzatore

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Un medico haitiano 63enne, Christian Emmanuel Sanon, è stato arrestato poiché si sospetta che egli sia la “mente” dell’omicidio del presidente Jovenal Moise, ucciso la settimana scorsa all’interno della sua abitazione da un commando. A riferirlo è stata la polizia di Haiti, la quale ha fatto sapere di ritenere che l’uomo avesse obiettivi politici ed ha aggiunto che lo scopo della missione fosse quello di arrestare Moise, ma «essa è poi cambiata». Sanon viveva negli Stati Uniti e di recente era tornato a Port au Prince, la capitale di Haiti, con l’obiettivo di diventare presidente.

Tra sogni, bombe, speranze e paura: vi racconto cosa significa vivere a Gaza

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Gaza City è una piccola città. 450.000 anime che abitano un’area sovrappopolata piena di vita e palazzi, in un’area grande meno di un terzo di Bologna. Una piccola città della quale in occidente sentite parlare solo quando l’aviazione israeliana ci bombarda, cosa che purtroppo accade abbastanza spesso. Io invece la abito tutti i giorni, e voglio raccontarvi cosa significa essere palestinesi di Gaza, perché non credo che i vostri media ve lo raccontino molto bene. Vi parlerò degli ultimi bombardamenti che tra il 10 e il 21 maggio hanno causato 250 morti tra cui 66 bambini. Perché credo che neppure questo vi sia stato raccontato bene, non fosse altro perché quando iniziano i bombardamenti i giornalisti fuggono da Gaza. Ma vi racconterò anche cosa significa vivere la vita di ogni giorno a Gaza. In particolare cosa significa – visto che è il mio caso – essere una giovane donna, madre e studentessa, palestinese di Gaza.

Come madre, mi preoccupo e temo per i miei figli, per i loro sogni e il loro futuro minacciato. Auguro loro un futuro inaspettato e di non vivere come me l’ansia psicologica, i problemi e la mancanza di libertà di movimento. Come ragazza, affronto la paura che i miei bisogni non siano soddisfatti a causa della mancanza di lavoro, della difficoltà di muovermi e di poter affrontare le esigenze quotidiane di base.
Come studentessa, sto affrontando i problemi della didattica a distanza dopo la pandemia, in una città dove la corrente manca per lunghe ore e la connessione va e viene.

I bombardamenti dal 10 al 21 maggio sulla Striscia di Gaza hanno distrutto 258 abitazioni e danneggiato 11 cliniche e 6 ospedali. [fonte Ufficio Onu per gli Affari Umanitari].

I ricordi di Gaza

Il mondo che pretende ovunque democrazia ed alza la voce per essa diventa incomprensibilmente cieco, sordo e muto di fronte a quanto avviene in Palestina. Lo abbiamo visto durante tutte le operazioni militari condotte da Israele sul nostro territorio: nel 2008, nel 2012, nel 2014 e di nuovo nel 2021.

L’aggressione israeliana che ha preso di mira la Striscia di Gaza è durata undici giorni, senza che i suoi abitanti abbiano goduto di una sola ora di calma, sia durante il giorno che durante la notte. Non un’ora è passata senza il frastuono delle bombe, delle urla e delle ambulanze. 11 notti prive di sonno, trascorse nell’angoscia. 11 giorni durante i quali la macchina da guerra dell’occupazione ha commesso un crimine dopo l’altro, il più orribile dei quali è stato il massacro di Al Wahda Street, dove sono stati uccisi decine di civili che credevano di essere al sicuro nelle loro case.

Miliziani palestinesi del gruppo armato “Brigate al-Qassam”, durante il conflitto la resistenza palestinese ha ucciso 14 israeliani.

Non credo che chi è abituato a vivere nella pace possa immaginare cosa significhi vivere sotto i bombardamenti. L’attesa, la paura, l’angoscia che passa dal momento in cui viene lanciato l’avvertimento al momento – che può essere anche diverse ore dopo – in cui effettivamente il bombardamento avviene. Perché è così che avvengono gli attacchi israeliani: prima lanciano dei missili di avvertimento che segnalano alla popolazione l’obiettivo che intendono colpire. Chi abita vicino, se riesce a non farsi bloccare dal panico – e vi assicuro che e non è semplice – cerca di raccogliere l’essenziale ed allontanarsi il prima possibile verso un riparo di fortuna. Attendendo nell’angoscia che arrivino i veri missili a colpire l’obiettivo e sperando di trovare ancora la propria casa al ritorno. Tra i colpi di avvertimento e il bombardamento vero e proprio possono passare diverse ore. Chi ci bombarda conosce i meccanismi psicologici che si scatenano nell’attesa di un attacco annunciato, e li utilizza.

Un diffuso senso di panico

Cinque interminabili ore sono trascorse dai colpi di avvertimento alla distruzione della grande Torre Jawhara nel mezzo del quartiere Rimal. Il missile di avvertimento alle dieci di sera, ancora due missili di avvertimento due ore dopo, poi seguiti da quattro missili distruttivi che hanno scosso l’intero quartiere per dieci minuti, lasciando l’edificio sventrato seppur ancora in piedi.

Dal 2007 Gaza City è, come l’intera Striscia di Gaza, sotto il controllo del movimento Hamas. La città è amministrata da un consiglio comunale di 14 membri.

Alle prime ore dell’alba dell’ultimo giorno del mese di Ramadan, meno di quattro ore dopo il bombardamento della torre Al-Jawhara, la città è stata svegliata dalle esplosioni senza precedenti del bombardamento della zona di Jawazat, nel pieno centro di Gaza City. Per tutto il giorno – che per noi è un giorno speciale, perché è appunto l’ultimo del mese sacro del Ramadan e andrebbe trascorso preparando l’Eid, ovvero la festa della fine del digiuno – si sono susseguiti bombardamenti senza sosta. Fino al tardo pomeriggio, quando è stata colpita e distrutta la torre Al-Shorouk , quella che ospita media e giornalisti. Come si dice, la prima vittima di ogni guerra è sempre la verità e Israele ha colpito chi poteva raccontarla.

Le scuole distrutte o danneggiate durante i bombardamenti sono state 53 [fonte Ufficio Onu per gli Affari Umanitari].

Non sempre in guerra, ma mai in pace

Non mi interessava parlare della morte. Ne vedo troppa. Ma dovete sapere che dietro ognuno di questi attacchi che vi ho raccontato un po’ meccanicamente vi sono decine di vite spezzate, centinaia di feriti. E le vittime spesso sono bambini, colpiti mentre corrono e giocano troppo vicini agli obiettivi dell’esercito israeliano. Essere una madre a Gaza significa conoscere ogni possibile sfumatura dei sentimenti di terrore, ansia, confusione e panico.

Essere una madre a Gaza significa anche conoscere la gioia delle piccole cose. Ad esempio la gioia di un bambino che balla di felicità perché dopo otto ore è tornata la luce o perché, dopo aver vinto la paura, gli permetti di scendere di nuovo in strada a giocare con la palla. Molti dei diritti più semplici, quelli che si chiamano diritti umani inalienabili, a Gaza non sono certi.

Il 99,28% dei bambini di Gaza soffre problemi psicologici dovuti ai traumi di guerra. I sintomi piu’ comuni sono: ansia, depressione, paura del buio, euneresi notturna, aggressivitá [fonte: studio condotto dalla ONG CISS – Cooperazione Internazionale Sud Sud].
A Gaza non siamo sempre in guerra, ma non siamo mai veramente in pace. Non è possibile quando la libertà delle cose più semplici ti è negata, quando tante persone sono state uccise, menomate, o sono rimaste senza casa. Quando, in definitiva, la tua patria vive sotto un’occupazione che dura da tanti anni.

I diritti di base negati: acqua, cibo, salute

A Gaza sono poche le cose che funzionano. Il sistema sanitario pubblico ad esempio è in gravi difficoltà. I governi di Israele e dell’Egitto che bloccano l’arrivo dei materiali, l’Autorità Palestinese in Cisgiordania che ha ridotto le spese sanitarie ed è dilaniata da conflitti interni, ed anche Hamas. Tutti hanno un parte di colpa. Le Nazioni Unite forniscono assistenza operando in 22 strutture sanitarie, ma un certo numero di sono state danneggiate o distrutte nei precedenti conflitti con Israele. I pazienti di Gaza che richiedono cure specialistiche devono recarsi negli ospedali della Cisgiordania o di Gerusalemme Est, ma per farlo devono prima ottenere l’approvazione dell’Autorità Palestinese per le loro domande e poi l’approvazione del governo israeliano per i permessi di uscita. Una burocrazia che costa molte vite. Nel 2019, il tasso di approvazione delle richieste dei pazienti di lasciare la Striscia di Gaza è stato del 65%. Significa che più di una persona su tre è stata lasciata senza cure.

Nella striscia di Gaza 70.000 persone vivono di pesca. Un’attività fortemente limitata dalle imposizioni della marina israeliana che impedisce ai pescherecci di recarsi al largo.

Se vogliamo invece parlare dell’alimentazione, nella Striscia di Gaza funziona così. Più di un milione di persone sono state classificate affette “da moderata o grave insicurezza alimentare“, secondo le Nazioni Unite. Solitamente arrivano aiuti umanitari che permettono a tutti di mangiare quanto serve, i valichi di frontiera sono aperti al passaggio dei convogli per gli aiuti, ma quando ci sono i bombardamenti le consegne sono talvolta interrotte.
Inoltre le restrizioni israeliane all’accesso ai terreni agricoli e alla pesca hanno ridotto la quantità di cibo che i gazawi possono produrre da soli. Ogni giorno i nostri pescatori rischiano di essere colpiti dalla marina militare israeliana se si avvicinano troppo al limite di sei miglia marittime che gli è stato concesso.

La maggior parte della popolazione di Gaza soffre di una carenza d’acqua, quella del rubinetto è salata, inquinata e inadatta a essere bevuta. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stabilito un requisito minimo giornaliero di 100 litri d’acqua per persona per coprire le necessità di bere, lavarsi, cucinare e fare il bagno. Il consumo medio a Gaza è di circa 88 litri. I servizi igienici sono un altro problema. Anche se il 78% delle famiglie sono collegate alle reti fognarie pubbliche, gli impianti di trattamento sono sovraccarichi. Secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, più di 100 milioni di litri di liquami grezzi e parzialmente trattati si riversano ogni giorno nel mare.

Scene di vita e di svago sulla spiaggia di Gaza.

Anche a Gaza la vita è bella

Ad ogni modo non vi voglio parlare solo di cose brutte. A Gaza la vita è bella. Forse siamo troppi, nel senso che siamo una delle zone più sovrappopolate del pianeta e lo spazio per ognuno non è tanto. Ma noi gazawi siamo in gran parte giovani: il 65% della popolazione ha meno di 25 anni, e facciamo del nostro meglio per migliorare le cose. A Gaza ci sono tante associazioni nate dal basso che cercano di rendere la città un posto migliore, con l’arte, la fotografia, la musica, l’aiuto verso gli altri. A Gaza ci sono anche molti luoghi ricreativi dove passare il tempo in modo positivo, dei cinema e dei ristoranti niente male. E poi a Gaza c’è anche il mare, e a noi piace andare al mare. Guardandolo si può vedere l’orizzonte e si può provare a ripulire l’anima dai pensieri bui. Ah dimenticavo, il nostro mare è lo stesso di voi italiani: il mare Mediterraneo. Noi sentiamo molto il fatto di essere un popolo del Mediterraneo e ci sentiamo legati a tutti gli altri popoli mediterranei, e voi?

[di Deema Jad]

G20 Venezia: i manifestanti cercano di irrompere nella zona rossa

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Prosegue la giornata di proteste contro il G20 dei ministri dell’economia e dei banchieri centrali a Venezia. Dal corteo principale uno spezzone si è staccato cercando di raggiungere e violare la zona rossa imposta a protezione del meeting globale, ma è stato fermato dalla carica della polizia. Secondo quanto riferito dal media di movimento Global Project si contano diversi feriti e un manifestante è stato fermato.

Respingimenti illegali: una sentenza inchioda l’Austria

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Il ventunenne marocchino Ayoub N. era stato respinto “a catena” dall’Austria alla Slovenia alla Croazia, fino a finire in Bosnia e Herzegovina, e aveva denunciato questo trattamento. Un tribunale regionale austriaco ha riconosciuto la legittimità della sua denuncia: non solo ha affermato il suo diritto a vedere esaminata la propria richiesta d’asilo, ma ha anche sottolineato che i respingimenti cosiddetti a catena (“chain pushbacks” in inglese) sono ormai diventati uno strumento regolare della guardia di frontiera. Si tratta di una posizione forte che mette in luce un problema che negli ultimi anni è diventato endemico in Europa.

Ayoub è stato respinto illegalmente nel settembre 2020. Si trovava con altre sette persone in prossimità del confine austro-sloveno e, nonostante avesse richiesto l’asilo, era stato rincorso appositamente per essere deportato. A lui e ai suoi compagni era stato negato il cibo. Erano stati derisi e umiliati, costretti a spogliarsi ed inginocchiarsi. Questi episodi non sono affatto rari. Come riportato nel report di Protecting Rights at Borders, pubblicato ad aprile del 2021, sono migliaia i casi di di respingimenti illegali, spesso molto violenti, cui sono sottoposti sia adulti che minori.

Qualche mese fa, il tribunale di Roma aveva emesso una sentenza simile, dichiarando l’illegalità dei respingimenti a catena tipici della rotta balcanica. Stavolta, la sentenza è stata emessa in un momento molto particolare: la Slovenia, uno dei principali attori coinvolti nelle violenze della rotta balcanica, sta stanziando ulteriori fondi per la difesa dei propri confini. Secondo le stime di Border Violence, il paese avrebbe respinto illegalmente più di 26.000 persone negli ultimi tre anni. Nella maggior parte dei casi si tratta di persone che provengono da paesi come la Siria, la Somalia e l’Iraq. Ma la Slovenia non è sola: anzi, spesso è l’Italia il primo tassello di queste catene di respingimenti.

Entrare in un paese per richiedere l’asilo è un diritto fondamentale, come lo è vedere esaminata la propria richiesta e ricevere un processo. Ultimamente, il fenomeno dilagante dei respingimenti illegali e violenti sta iniziando a ricevere un po’ di attenzione a livello internazionale. In molti chiedono l’abolizione della guardia di frontiera e costiera dell’UE Frontex, che sostiene le violenze della polizia locale. In Austria è stato creato un numero apposito da alcuni attivisti, che i migranti possono usare nel caso di respingimento illegale. Che la questione abbia raggiunto un tribunale è però un passo avanti particolarmente importante.

 [di Anita Ishaq]

G20: Venezia blindata vive da giorni in ostaggio dei grandi dell’economia

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Una Venezia blindata, militarizzata e con gli spostamenti controllati e ridotti al minimo sta accogliendo il G20 dell’economia. L’intera area dell’Arsenale, 48 ettari all’estremità orientale del centro storico, è stata trasformata in “zona rossa”. Qui i ministri dell’Economia e i direttori delle banche centrali dei 20 paesi più industrializzati tengono i loro meeting protetti da ogni possibile manifestazione di dissenso.

Già nei giorni scorsi sono stati installati cancelli per bloccare calle e vie d’accesso ai non addetti ai lavori. Inoltre, c’è stato un forte aumento della presenza delle forze dell’ordine, e motoscafi ed elicotteri stanno monitorando la situazione. È anche stata vietata la navigazione e sono stati bloccati i vaporetti in alcuni canali. Oltre a questo, come previsto da un’ordinanza del Comune sono state sospese dal primo fino all’11 luglio le concessioni degli spazi acquei di 12 rii e canali e sono stati forniti, ai soggetti a cui è stata sospesa la concessione acquea, dei posti barca presso le darsene ubicate nell’isola della Certosa e nella Marina di Sant’Elena. Infine, ad ogni partenza o arrivo dei componenti del G20 viene impedito l’accesso al transito acqueo: su alcuni giornali locali infatti si legge che mercoledì mattina si era formato un «cordone di barche ferme tra l’Accademia e Ca’ Rezzonico».

I cittadini si sfogano sui social: «Sembra di essere in un regime dittatoriale», afferma un utente, mentre un altro si lamenta per «un elicottero che ronza per ore e ore sopra la testa». Inoltre, vi sono anche testimonianze di quanto riportato da alcune testate, ossia il fatto che residenti e frontisti devono munirsi di un pass per potersi muovere nella zona rossa. Ma le proteste non sono solo virtuali: nella giornata di oggi vi sarà una mobilitazione contro il meeting, con un presidio di attivisti che si riunirà in riva delle Zattere dietro lo slogan «Noi siamo una marea, voi solo (G)20!».

[di Raffaele De Luca]

Honduras: 5 arresti per linciaggio e uccisione dell’italiano Giorgio Scanu

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Almeno 5 persone sono state arrestate dalla polizia dell’Honduras in quanto sospettate di aver preso parte al linciaggio e all’uccisione dell’italiano Giorgio Scanu. Esso, verificatosi giovedì scorso a Santa Ana de Yusquare, nel sud del Paese centroamericano, ha coinvolto circa 600 persone armate di machete, bastoni e pietre, che accusavano l’italiano di aver pestato a morte un anziano vicino di casa. A comunicare gli arresti in questione è stato il governo di Tegucigalpa, il quale nella giornata di oggi ha fatto sapere che gli arrestati sono stati prelevati ieri dalla polizia.

Le voci degli animali, i segnali dei satelliti, i versi dei poeti

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Ho sempre presente un’espressione di Jurij Lotman, grande semiologo e studioso della letteratura russa, quando invitava a tenere aperti i recettori dell’ascolto. Il mondo, scriveva Lotman, è una semiosfera, è pervaso di segnali: le voci degli animali, i segnali dei satelliti, i versi dei poeti. Forse questa gamma di input ci sollecita a considerare le tre grandi fonti dell’informazione: la natura, la scienza, l’arte. Di conseguenza, i settori cruciali sarebbero l’ambiente, la tecnologia, la comunicazione: se vogliamo dirlo alla greca l’òikos, la techné, il logos.

Viviamo una fase, lunga quanto?, di assedio comunicativo, rischiamo di essere travolti da una informazione martellante, univoca che ci fa quasi temere di guardare con i nostri occhi l’orizzonte, cioè di possedere immaginazione, come se questa costituisse una colpa o contenesse una minaccia.

Norbert Wiener, fondatore della cibernetica, in un suo saggio dal titolo inequivocabile, The Human Use of Human Beings (1950; trad.it. Introduzione alla cibernetica, Boringhieri 1966) spiega che un messaggio, per essere efficace, “deve dire qualcosa di sostanzialmente diverso dal patrimonio di informazione già a disposizione della comunità”. In altri termini, le informazioni ripetute, a senso unico sono controproducenti, aumentano l’entropia, diminuiscono l’effetto informativo. Meno che mai le notizie volutamente contraddittorie che producono disorientamento, disgregazione. Occorre creatività, variazione, in campo comunicativo, ci vuole un’armonia musicale, non un identico, ossessivo rumore di fondo.

D’altra parte le tecnologie hanno una grande responsabilità, hanno portato a valutare il comportamento umano soltanto in base alla efficienza e al rendimento, come se tutti fossimo tenuti, in ogni caso, a dare risposte adeguate, senza margini di creatività o di errore.

Col rischio di finire come gli androidi di Phil Dick e di Blade Runner, privi di empatia, incapaci di emozioni, difficilmente in grado di rendersi conto dell’esistenza di un altro: “Fintantoché una creatura provava un po’ di gioia, la condizione di tutte le altre creature comprendeva un frammento di gioia” (Ph. K. Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, trad.it. Fanucci 2000).

Viviamo in una semiosfera immersa nell’interdipendenza, dove però senza esercitare l’ascolto, rischiamo di diventare pure macchine che registrano input senza poter dare risposte, oppure dando semplicemente segnali reattivi, scomposti, aggressivi, come accade nei social quando prevale il modello della predazione solitaria, quello presente nei robot umanoidi di cui scriveva Dick.

Dunque, ecco emergere la necessità di una socialità matura, modulata sia sulle esigenze personali, inter-individuali sia su quelle complessive della folla: “Nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto… Dovunque, l’uomo evita di essere toccato da ciò che gli è estraneo”. Parole profetiche, in apertura del poderoso trattato di Elias Canetti, Masse e potere, uscito nel 1960 (trad.it. Adelphi), dopo un trentennio di lavorazione. “Tutte le distanze che gli uomini hanno creato intorno a sé sono dettate dal timore di essere toccati”. Ma è paradossalmente la massa che ci può liberare, secondo Canetti, da questa paura. La festosità degli stadi, i raduni dei giovani in ore serali e notturne non sarebbero dunque infrazioni a prescrizioni. La massa si stringe così fitta, scrive Canetti, perché sente di appartenere ad un unico corpo: “Quanto gli uomini si serrano gli uni agli altri, tanto più sono certi di non avere paura l’uno dell’altro”. Ne deriva una condizione paradossale: la distanza sarebbe necessaria ma l’idea di massa è spontanea, preme per la vita più che per la sopravvivenza.

Questa dimensione di una socialità anonima, collettiva, rumorosa, come dotata di un’unica voce tumultuosa, deve poter convivere con l’altra dimensione, quella dell’ascolto, delle relazioni tra persone: l’urlo con la conversazione, il fracasso con il prestare attenzione, la gazzarra con la riservatezza. È in gioco una esigenza di circolarità: le voci degli animali, cioè gli input dell’ecosistema, i segnali dei satelliti, cioè le rilevazioni tecnologiche, e i versi dei poeti, cioè la fantasia creativa, devono alimentare tutti insieme la circolazione del senso, devono nutrire senza prevaricazioni le anime individuali e la sensibilità collettiva.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]