venerdì 21 Novembre 2025
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Indonesia: scossa terremoto di magnitudo 6.2

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Una scossa sismica di magnitudo 6.2 si è verificata al largo delle coste dell’Indonesia alle 9.43 ora locale (le 2.43 in italia). Nello specifico, in base ai dati dell’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv) italiano e del servizio di monitoraggio geologico statunitense (Usgs), la scossa ha avuto ipocentro a circa 70 km di profondità ed epicentro nel nord del mare delle Molucche. Al momento, però, non sono stati segnalati danni a persone o cose e non è stato annunciato alcun pericolo di tsunami.

Golfo del Messico, enormi quantità di scarti tossici riversati in mare per estrarre petrolio

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Da un decennio a questa parte, l’estrazione di petrolio e gas nel Golfo del Messico ha interessato almeno 3.000 siti. 760 i casi di acidificazione di pozzi offshore e almeno 250 milioni i litri di rifiuti derivanti dalle operazioni e scaricati in mare. È quanto ha svelato il rapporto Toxic Water redatto dal Centro per la Diversità biologica. Questi scarti tossici, in particolare, derivano dal fracking – il processo di fratturazione idraulica sfruttato per facilitare l’estrazione degli idrocarburi – e dalle operazioni di stimolazione del giacimento mediante impiego di acidificanti. I prodotti chimici quali biocidi, polimeri e solventi, utilizzati in entrambi i casi e rinvenuti nelle acque del Golfo, sono associati a rischi significativi per la salute sia per l’uomo che per la fauna selvatica. Formaldeide, metanolo, naftalene, sono solo alcune delle sostanze cancerogene e mutagene provenienti dalle acque reflue rilasciate al largo delle coste federali di Alabama, Mississippi, Louisiana e Texas.

Dal 2010 ad oggi il governo degli Stati Uniti, solo nel Golfo del Messico, ha approvato quindi migliaia di estrazioni inquinanti, senza alcuna supervisione o revisione ambientale significativa. Anzi, l’Agenzia per la protezione dell’ambiente statunitense consente alle aziende di scaricare nel Golfo quantità illimitate di acque reflue di fracking. Considerando che ogni singola operazione genera oltre 80 mila litri di rifiuti, stiamo parlando di una vera e propria devastazione ecologica e sociale legittimata. Uno studio – cita il documento – ha ad esempio valutato la tossicità di 1.021 sostanze chimiche impiegate nella fratturazione idraulica ed ha evidenziato che per il 76% di queste mancano informazioni sugli effetti sulla salute umana e, per le restanti 240 sostanze, è stata dimostrata una tossicità riproduttiva nel 43% dei campioni, una tossicità per lo sviluppo nel 40% ed entrambe nel 17%. Ma le ripercussioni sulla salute umana, nonché i danni appurati per l’ecosistema e gli organismi acquatici, sono solo quelli più diretti. Queste tecniche estreme di estrazione di petrolio e gas danneggiano anche il turismo e la pesca, che creano circa 2,85 milioni di posti di lavoro: più di 10 volte le occupazioni create dall’industria dei combustibili fossili nel Golfo del Messico.

Non vi è dubbio che queste operazioni, alla luce degli impatti sociali, economici ed ecologici, andrebbero vietate o, come minimo, regolamentate. «Il fracking offshore – ha commentato Miyoko Sakashita, direttore del programma oceani presso il Centro – minaccia le comunità del Golfo e la fauna selvatica molto più di quanto il nostro governo abbia riconosciuto. Un decennio dopo il boom del settore, i suoi impatti sulla salute pubblica non sono ancora stati studiati adeguatamente. Il fallimento nel frenare questa importante fonte di inquinamento è inaccettabile». Infatti, se al settore dell’industria fossile, già di per sé responsabile a pieno titolo della crisi climatica, sommiamo l’inquinamento chimico e la devastazione ambientale collaterali, è evidente come una transizione energetica sia quanto mai impellente.

[di Simone Valeri]

L’UE, sotto pressione estera, cede sulla privacy digitale

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social media like

L’Unione Europea si fregia da sempre del titolo di baluardo nella difesa della privacy dei propri cittadini, una narrazione certamente fondata su fatti concreti, ma che si trova frequentemente a imbattersi in contrattempi di diversa natura. L’ultimo dosso affrontato dalla Commissione UE è stato quello del decidere come tutelare la riservatezza degli europei senza dover cedere alla lotta contro la circolazione del materiale pedopornografico; la soluzione approvata martedì è lungi dall’essere soddisfacente.

La questione presa in analisi è elementare: molti social si stanno muovendo verso la crittografia dei messaggi inviati dai propri utenti, un procedimento che contribuisce a tutelare la riservatezza delle parti coinvolte, ma che rende anche più complesso l’intercettarne il contenuto, cosa che a sua volta crea un terreno fertile per diverse pratiche illegali.

Per ovviare a questa criticità, le Big Tech si sono sempre “offerte” di supervisionare in via automatica i contenuti presenti sui propri portali, scandagliando con algoritmi la vita delle persone pur di identificare quei tratti che rimandano al terrorismo e alla pedopornografia. Alle autorità preposte vengono dunque consegnati quei pacchetti di dati che un’intelligenza artificiale reputa compromettenti, così che poi stia ai vari Governi il portare avanti i dovuti controlli.

Difficile dire quante di queste segnalazioni si dimostrino effettivamente attendibili, tuttavia molti sospettano che la generosità delle aziende digitali sia solamente una copertura con cui continuare indisturbate a infliltrarsi nell’esistenza dei rispettivi iscritti. Una pratica che, almeno su carta, sarebbe resa in ogni caso illegale dalla General Data Protection Regulation (GDPR) europea.

Nella realtà dei fatti, martedì l’UE ha garantito alle Big Tech una deroga triennale con cui circumnavigare goffamente la legge, una deroga che è stata votata in un clima di vero e proprio “ricatto morale” e per la cui approvazione l’Europa ha subito le pressioni di Regno Unito, Canada e Stati Uniti. Le ditte digitali – perlopiù statunitensi – potranno dunque continuare a immergersi nella privacy dei cittadini europei, indisturbate.

Una vera e propria manna dal cielo per realtà quali Facebook, la quale aveva deliberatamente sospeso i suoi filtri antipedofilia in segno di protesta ben prima che le autorità potessero imporre quel giro di vite che non si è mai effettivamente concretizzato. La stessa Facebook che in passato era stata accusata di muoversi contro la pedofilia solamente quando gli era economicamente conveniente.

I promotori della risoluzione promettono ora che verrà presto redatto un documento contenente i binari guida con cui garantire che il meccanismo di sorveglianza di massa si muova “in equilibrio con la tutela dei diritti”. Un’accortezza che sarebbe stato il caso di concretizzare a monte del voto e che comunque non manca di riconoscere alle aziende private un ruolo da leoni in quello che invece dovrebbe essere il campo di lavoro delle Intelligence europee.

[di Walter Ferri]

Un teschio scoperto in Cina suggerisce l’esistenza di un’antica specie umana sconosciuta

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Si chiama “Uomo Drago” e potrebbe essere l’antenato più prossimo dell’uomo mai scoperto prima. Le ricerche sono in corso e stanno analizzando un teschio scoperto in Cina quasi un secolo fa, il quale potrebbe appartenere a una specie imparentata con l’homo sapiens, ma rimasta sconosciuta fino ad oggi. Una scoperta che potrebbe rimettere in discussione la storia evolutiva dell’Homo Sapiens.

Il fossile è stato trovato per caso, nel 1933, da un operaio che stava lavorando nel cantiere di un ponte vicino alla città di Harbin. Nonostante l’uomo avesse capito subito si trattasse di qualcosa di scientificamente rilevante, non ha chiamato le autorità giapponesi che all’epoca occupavano la Cina nord-orientale, ma lo ha nascosto in un pozzo, mantenendo il segreto per decenni. Solo prima di morire, nel 2018, l’operaio ha raccontato del teschio ritrovato anni e anni fa ai propri familiari, indicando loro dove trovarlo. Una volta recuperato, la famiglia ha donato il fossile ad un’università di Shijiazhuang, nella provincia dell’Hebei, dando la possibilità ai ricercatori di iniziare le analisi per la ricostruzione della sua storia.

Secondo quanto emerso, il teschio era di un uomo adulto con un cervello molto grande, arcate sopracciliari marcate e occhi incavati, appartenente ad una specie sconosciuta di ominidi vissuta tra i 146mila e i 309mila anni fa, un periodo in cui coesistevano altri nostri antenati, come l’Homo erectus, l’Homo naledi nel Sudafrica o l’Homo floresiensis in Indonesia. Allo stesso periodo risalgono anche i fossili più antichi finora ritrovati di Homo sapiens. L’Homo longi (Uomo Drago) – soprannominato così in ricordo del luogo del ritrovamento nei pressi del “Fiume del drago nero” (Amur) -, sarebbe stato alto e con caratteristiche facciali simili a quelle della nostra specie. Secondo i ricercatori, sarebbe lui e non il Neanderthal – nel periodo di convivenza con l’Homo sapiens ci furono diversi incroci, tanto che parte del materiale genetico degli umani moderni risale proprio all’Homo neanderthalensis – a essere la specie più vicina alla nostra prima della loro estinzione. Il dibattito è aperto.

[di Eugenia Greco]

Bangladesh: incendio in una fabbrica, almeno 43 morti

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Sono almeno 43 le persone che hanno perso la vita in seguito ad un incendio scoppiato in una fabbrica a Rupganj, città del Bangladesh non lontana dalla capitale Dacca. A riferirlo è stata la Polizia, la quale ha comunicato che l’incendio, verificatosi nella giornata di ieri, era ancora in corso questa mattina. Inoltre, ha anche aggiunto che alcuni lavoratori hanno dovuto saltare dalle finestre per salvarsi e molti di loro risultano al momento dispersi. Non è chiaro però quante persone ci fossero nell’edificio al momento dell’incidente e si teme che il bilancio possa aggravarsi.

Variante Delta, Pfizer annuncia la richiesta di approvazione per la terza dose

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La società farmaceutica statunitense Pfizer e l’azienda tedesca di biotecnologia e biofarmaceutica BioNTech, hanno annunciato che nelle prossime settimane chiederanno alle autorità regolatorie l’autorizzazione per la terza dose del vaccino anti Covid. La decisione è stata presa in seguito ai dati iniziali emersi dalla sperimentazione clinica, definiti incoraggianti dalle aziende. Questi ultimi, «dimostrano che una dose di richiamo somministrata 6 mesi dopo la seconda iniezione abbia un profilo di tollerabilità consistente» e che sia in grado di garantire un livello di anticorpi contro il ceppo originario e contro la variante Beta (ex sudafricana) da 5 a 10 volte superiore rispetto a quello assicurato dalle prime due dosi. Inoltre, Pfizer e BioNTech sostengono che la terza dose aumenterà i titoli anticorpali anche nei confronti della variante Delta e che «stanno conducendo studi preclinici e test clinici per confermare questa ipotesi».

Nei giorni scorsi, infatti, il Ministero della Salute israeliano ha diffuso alcuni dati dai quali si è appreso che il vaccino Pfizer, con cui sono stati immunizzati in massa i cittadini, sia molto meno efficace nei confronti della variante Delta. Ed a tal proposito le aziende affermano che questi dati dimostrino che l’efficacia del siero «sia diminuita sei mesi dopo la vaccinazione» e perciò ritengono che una terza dose possa essere necessaria entro 6-12 mesi dal completamento del ciclo vaccinale.

Ad ogni modo, ci si chiede perché anziché sviluppare un nuovo vaccino maggiormente efficace, le aziende vogliano semplicemente aumentare le dosi di quello attuale, nei confronti del quale stanno emergendo varie criticità. In realtà, però, quella di sviluppare un altro siero è una possibilità presa in considerazione da Pfizer e BioNTech: infatti, mentre da un lato esse spingono per la terza dose, dall’altro affermano di voler «rimanere vigili» e di star anche «sviluppando una versione aggiornata del vaccino che prende di mira l’intera proteina spike della variante Delta». Un controsenso, sintomo di come sia probabile che neppure i ricercatori della multinazionale abbiano ben chiaro come sia meglio procedere. L’unica cosa evidente, per ora, appare la determinazione della Pfizer ad assicurarsi la vendita di almeno un altro giro di vaccini ai paesi del mondo. Tuttavia, non è detto che ciò avverrà: secondo quanto riportato dai media statunitensi, le autorità sanitarie degli Usa ritengono che al momento gli americani che hanno già ricevuto due dosi non debbano sottoporsi ad una terza somministrazione.

Detto ciò, vanno ricordate anche le parole pronunciate a tal proposito dal Ceo di Pfizer, Albert Bourla, il quale ha aggiunto che «ogni persona senza immunità offre al virus l’opportunità di diffondersi e continuare a mutare», motivo per cui «rimane una priorità assoluta vaccinare quante più persone possibile il più rapidamente possibile». Tuttavia, tali dichiarazioni contrastano con quanto sostenuto da Yaniv Erlich, scienziato israeliano-americano che nei giorni scorsi ha affermato che i dati diffusi dal Ministero della Salute di Israele «abbiano importanti conseguenze per l’immunità di gregge» ed implichino il fatto che «il virus possa evolversi ancora negli individui vaccinati».

[di Raffaele De Luca]

L’Italia allenta le restrizioni sulla vendita di armi verso Emirati Arabi e Arabia Saudita

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Il governo italiano ha rivisto le restrizioni alle esportazioni di armi verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, che erano state vietate per non alimentare il conflitto in Yemen. Una nota diffusa dalla Uama (l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento) alle aziende esportatrici di armamenti ha specificato che dal 30 giugno non è più necessaria la clausola end-user certificate (Euc) rafforzata, che era stata stabilita nel 2019 verso i due paesi del Golfo per evitare che le armi fossero utilizzate per alimentare il conflitto in Yemen. Una decisione facilmente ricollegabile al tentativo di riallacciare i rapporti con i ricchi Paesi del golfo che si erano deteriorati negli ultimi mesi.

La clausola Euc rafforzata imponeva alle aziende italiane impegnate nell’export di armi verso Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti di presentare alla Uama una certificazione nella quale gli acquirenti assicuravano che le armi in questione non sarebbero state utilizzate nel sanguinoso conflitto in Yemen, che dal 2015 ha causato oltre 10.000 morti e 3 milioni di sfollati. Con la modifica il divieto decadrà per le armi leggere, ma rimarrà in vigore per missili e bombe, in quanto queste esportazioni erano state oggetto di un ulteriore divieto stabilito da un passaggio parlamentare nello scorso gennaio, che rimane in vigore.

La mossa annunciata dalla Uama non è stata in alcun modo commentata dal governo né dal ministero degli Esteri. Tuttavia non è difficile ricollegarla ai recenti fatti che avevano colpito in particolare le relazioni tra Roma e Abu Dhabi. Il 2 luglio scorso gli Emirati Arabi avevano sfrattato i militari italiani dalla base di Al Minhad, utilizzata dal 2003. Infrastruttura utilizzata per trasferire uomini e materiali in Afghanistan, nonché come base per le missioni in Kuwait e in Iraq: decisione evidentemente collegata al divieto posto sull’export delle armi. Mentre ricollegabile alle tensioni tra i due paesi può essere anche il caso di Andrea Costantino, imprenditore milanese di 49 anni, recluso da tre mesi nel carcere di Abu Dhabi senza che sia stato formulato a suo carico alcun capo d’imputazione. Manovre che evidentemente hanno rapidamente spinto il governo Draghi verso più miti consigli.

 

 

Haiti: almeno 28 persone coinvolte in assassinio presidente Jovenel Moise

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Sono almeno 28 gli individui responsabili dell’assassinio del presidente di Haiti Jovenel Moise, avvenuto mercoledì scorso all’interno della sua abitazione. A renderlo noto è stata la polizia locale, la quale ha specificato che 26 di loro sono colombiani e 2 sono americani di origine haitiana. Inoltre 17 di essi, tra cui anche i due americani, sono stati arrestati, mentre 8, tutti di nazionalità colombiana, sono al momento ancora ricercati.

Commissione Europea: multa da 875 milioni a BMW e Volkswagen

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Le case automobilistiche tedesche BMW e Volkswagen sono state multate dalla Commissione europea per complessivi 875 milioni di euro, in quanto hanno violato la normativa comunitaria agendo «come un cartello sulla tecnologia delle emissioni per le auto diesel». Le case si erano accordate per rinviare l’immissione sul mercato di auto a minori emissioni, per evitare di dover spendere di più in ricerca e produzione. La BMW dovrà pagare 373 milioni di euro, Volkswagen 502 milioni. Del cartello faceva parte anche la casa Daimler, risparmiata dalla multa per aver rivelato l’esistenza dell’accordo.

Covid, al via la causa civile: 500 familiari delle vittime chiedono i danni

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Si è svolta questa mattina a Roma la prima udienza della causa intentata da 520 parenti di vittime del Covid contro il Governo, il ministero della Salute e la Regione Lombardia. Il team di avvocati che rappresenta i parenti ha presentato nei giorni scorsi un atto d’accusa di oltre 2000 pagine. La causa è stata intentata principalmente da parenti delle vittime della prima ondata nella bergamasca che imputano ai poteri pubblici l’assenza di un piano per fronteggiare la pandemia e le lentezze e le mancanze nell’affrontare l’emergenza. La battaglia delle famiglie, superato lo scoglio della prima udienza, si annuncia lunga e difficile.

La questione del piano pandemico

La mancata redazione di un piano pandemico da parte dell’Italia è nota da alcuni mesi. Il governo italiano nel febbraio 2020 avrebbe anche ingannato l’Organizzazione mondiale della sanità, fingendosi falsamente preparata ad affrontare una pandemia. Il Governo, il 4 febbraio 2020, aveva presentato alla Organizzazione mondiale della sanità (Oms) un documento di autovalutazione nel quale dichiarava che il nostro Paese rispettava il “livello 5”, ovvero al grado più alto di preparazione nell’affrontare una pandemia, che prevede che «il meccanismo di coordinamento degli interventi di emergenza del settore sanitario e il sistema di gestione degli incidenti collegato con un centro operativo di emergenza nazionale sono stati testati e aggiornati regolarmente». Un falso, visto che è stato poi appurato che l’ultimo aggiornamento del piano pandemico risaliva al 2006.

Le mancanze nell’individuazione dei casi

Ma la causa verte anche su altri elementi, puntando l’indice contro la gestione dei tamponi, non utilizzati per identificare i casi di coronavirus nel febbraio 2020 nonostante fossero già disponibili. In particolare sotto accusa è la circolare con la quale, il 27 gennaio 2020, il ministero della Salute stabilì che il tampone andava fatto solo ai casi sospetti collegabili a contatti e viaggi in Cina, andando a modificare la precedente circolare, emessa appena cinque giorni prima, che prevedeva il test anche per chi manifestasse «un decorso clinico insolito o inaspettato». In questo modo si sarebbe lasciato circolare il virus senza contromisure per quasi tutto il mese di febbraio. È in questo arco temporale, tra fine gennaio e fine febbraio 2020, che si gioca parte della partita: si fosse intervenuti prima – è quanto cercheranno di dimostrare in aula i legali delle vittime – la tragedia sarebbe stata circoscritta e molte vite sarebbero state salvate.