mercoledì 19 Novembre 2025
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È stata scoperta l’isola più a nord del pianeta Terra

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È stata recentemente scoperta un’isola che potrebbe essere ufficialmente riconosciuta come quella più a nord del pianeta: il ritrovamento è avvenuto durante una spedizione nel nord della Groenlandia effettuata da alcuni studiosi, tra cui ricercatori dell’Università di Copenaghen. Proprio sul sito web dell’Ateneo danese, infatti, si legge che la scoperta di quella che «risulta essere l’isola più settentrionale della Terra» è avvenuta in realtà casualmente: gli scienziati si erano diretti in elicottero in Groenlandia con tutt’altro scopo, ovvero sia quello di «raccogliere campioni dalla remota ed estrema periferia settentrionale», e sono rimasti increduli quando hanno capito di trovarsi su un’isola dove nessuno aveva mai messo piede. Nello specifico, essi pensavano di essere sull’isola di Oodaaq, che rappresenta il punto più settentrionale della Groenlandia ed uno dei punti più a Nord del pianeta. Tuttavia si sono poi resi conto del fatto che, in verità, si trovavano su una nuova isola ancora più a nord rispetto ad essa.

Il capo della missione in Groenlandia, Morten Rasch, ha spiegato che i ricercatori hanno iniziato a dubitare del fatto che si trovassero sull’isola di Oodaaq in seguito alla pubblicazione sui social, da parte sua, di foto e coordinate dell’isola. Diversi “cacciatori di isole americani”, ossia coloro che ricercano isole sconosciute, hanno capito che ciò che fino a quel momento i ricercatori pensavano fosse probabilmente errato, e gli hanno quindi consigliato di contattare l’Università tecnica della Danimarca (DTU).  Così, ha affermato il capo della spedizione, «insieme a DTU ci siamo resi conto che il mio GPS aveva sbagliato, portandoci a credere che fossimo su Oodaaq, mentre in effetti avevamo appena scoperto una nuova isola più a nord».

Detto ciò, l’isola appena scoperta si trova esattamente a 780 metri a nord di Oodaaq, è larga circa 30 metri, lunga 60 e sorge a 3-4 metri sul livello del mare. Essa è costituita da fango del fondale marino, terra e rocce lasciate dai ghiacciai.  Secondo Morten Rasch, però, probabilmente essa rientra in una categoria nota come “isolotti di breve durata” e, per questo, «nessuno sa per quanto tempo rimarrà». C’è, tuttavia, anche chi ritiene l’opposto: Rene Forsberg, professore e capo della geodinamica presso l’Istituto spaziale nazionale danese, sostiene infatti che la nuova terra «risponda ai criteri di un’isola».

[di Raffaele De Luca]

Come i profitti delle banche europee vanno nei paradisi fiscali

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Secondo quanto emerso dall’analisi pubblicata da Eu Tax Observatory (laboratorio indipendente di ricerca che ha sede nella Paris School of Economics) le banche europee – col fine di risparmiare sulle tasse – continuano a utilizzare in maniera significativa i paradisi fiscali per contabilizzare i loro profitti. Anche se è aumentata l’attenzione – tanto nel dibattito pubblico quanto nel mondo politico – rispetto a questi temi, gli istituti di credito non hanno ancora ridotto la loro presenza in Paesi a fiscalità agevolata. Il report pubblicato da Eu Vax Observatory (“Have European baks left tax havens? Evience from country-by-country data”) documenta quindi le attività delle banche europee nei paradisi fiscali e come quest’ultima si sia evoluta a partire dal 2014 fino a oggi.

Per ottenere trasparenza il più possibile, dal 2014 è stato reso obbligatorio il rendiconto finanziario (il documento in cui si attestano tutti i flussi di cassa avvenuti in un determinato periodo) Paese per Paese; nonostante la misura adottata sette anni fa, dal report sopracitato si apprende che le 36 banche prese in analisi – le quali sono tenute, appunto, a rendere pubblici i risultati delle loro attività Pese per Pese –  hanno registrato circa il 14 per cento (dato rimasto pressoché stabile dal 2014 al 2020) dei loro profitti complessivi nei paradisi fiscali. Quindi, i principali istituti di credito europei hanno spostato un corrispettivo di circa 20 miliardi di euro in territori che possano permettere benefici fiscali. Eu Tax Observatory ha quindi esaminato le operazioni condotte dalla maggiori banche europee in 17 diversi paesi; tra questi emergono Bermuda, Panama, Isole Vergini britanniche e Isole Cayman, che hanno una tassazione pari a zero.

Sempre dal report si apprende che tra i primi dieci istituti di credito evasori, due sono italiani. Al secondo posto della lista si colloca infatti il Monte dei Paschi di Siena, con ben il 50 per cento dei profitti registrato nei paesi a fiscalità agevolata. Invece, al decimo posto si trova Intesa San Paolo che ha registrato nei paradisi fiscali il 10 per cento degli utili. Non solo, ma dallo studio di Eu Tax Observatory emerge che, addirittura, dal 2014 alcune banche abbiano aumentato la percentuale di utile registrata nei paradisi fiscali, piuttosto che diminuirla: anche in questo caso, c’è stato un incremento di un quinto da parte Monte dei Paschi di Siena e di un ottavo da parte della banca Intesa San Paolo.

[di Francesca Naima]

Green Pass: sì della Camera al decreto, ora passa al Senato

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La Camera ha approvato, con 259 voti a favore, 34 contrari e 2 astenuti, il decreto legge avente ad oggetto le norme sul Green Pass che, inoltre, proroga a fine anno lo stato di emergenza e rivede i parametri per il passaggio di colore delle regioni. Anche la Lega ha dato il via libera al decreto: i pochi deputati del partito presenti in Aula (45 su un totale di 132) hanno infatti votato a favore. Il testo dunque, la cui scadenza è fissata per il prossimo 21 settembre, passa adesso al Senato.

Rivelati i documenti sulla collaborazione Usa-Cina nel laboratorio di Wuhan

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I finanziamenti americani al laboratorio di virologia di Wuhan, gli esperimenti per "identificare ed alterare il coronavirus presente nei pipistrelli", le preoccupazioni espresse dagli stessi ideatori del progetto sui pericoli «di esposizione alla SARS o ad altri CoV, mentre si lavora in caverne con un’alta densità di pipistrelli sopra la testa». Questi i punti salienti che emergono dai primi documenti ufficiali rilasciati dalla testata di inchiesta The Intercept che sta portando alla luce oltre novecento pagine di informazioni ufficiali dal National Institutes of Health (NIH) - l'agenzia di r...

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Cdm: Green Pass per personale esterno scuole e università, obbligo vaccinale per personale Rsa

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È arrivato il via libera da parte del Consiglio dei ministri al decreto legge «per fronteggiare l’emergenza da Covid-19 in ambito scolastico, della formazione superiore e socio sanitario – assistenziale». Quest’ultimo, ha ad oggetto l’estensione dell’obbligo di munirsi del Green Pass al personale esterno della scuole e delle università. Per il personale, anche esterno, delle Rsa, è invece previsto «l’obbligo del vaccino, e non del Green Pass». Lo ha precisato al termine del Cdm il Ministro per le Pari Opportunità e la Famiglia, Elena Bonetti.

Brasile: Bolsonaro impedisce ai social network di rimuovere contenuti

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Questa settimana il presidente Jair Bolsonaro ha emesso le nuove regole – immediatamente applicabili – sui social media. Decisioni che limitano sensibilmente il modo in cui le aziende tecnologiche possono controllare i loro siti: Bolsonaro ha infatti temporaneamente vietato la rimozioni di determinati contenuti dai social, come alcune sue affermazioni, anche se violano le regole che vigono nelle aziende responsabili dei social network. Un modo poco democratico per controllare ciò che viene o non viene detto su Internet.

Nuove proteste in Val di Susa: lacrimogeni e idranti contro i No Tav

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Una nuova protesta notturna contro il Tav è andata in scena presso il cantiere di San Didero, dove i militanti hanno inscenato una “battitura”, ovvero un’azione di disturbo dei lavori che si basa sul battere oggetti di ferro e pentolame contro le cancellate di recinzione del cantiere. Come al solito non si è fatta attendere la dura reazione delle forze dell’ordine che presidiano notte e giorno i lavori, con uso di idranti per disperdere i manifestanti e lancio di lacrimogeni. «La polizia posta a difesa del fortino di San Didero reagisce all’ostinazione dei No Tav con un fitto lancio di lacrimogeni e bloccando addirittura la statale. Forse non hanno ancora capito che c’eravamo, ci siamo e ci saremo sempre» hanno scritto i No Tav nel comunicato. Prima di concludere il blitz di protesta gli attivisti hanno chiuso con una catena e un lucchetto il cancello di accesso al cantiere.

La costruzione del Tav sta entrando in un momento decisivo e c’è da scommettere che nelle prossime settimane se ne sentirà parlare anche sui media dominanti. È notizia di appena tre giorni fa che dall’Europa è arrivato un sollecito all’Italia per avanzare più rapidamente negli appalti per i lavori e nel loro svolgimento. E il viceministro alle Infrastrutture, Alessandro Morelli (Lega), ha dichiarato al Sole 24 Ore che «sono state risolte tutte le problematiche infrastrutturali e ora è diventato semplicemente un problema di ordine pubblico e su questo bisogna intervenire e non lasciare spazio ai violenti». Lasciando intendere come lo Stato intenda proseguire nella gestione del dissenso trattandolo appunto solo come un «problema di ordine pubblico» senza prendere in considerazione alcuna mediazione.

E che gli apparati dello Stato si preparino ad un’escalation dello scontro con i movimenti si intuisce chiaramente dalle ultime mosse intraprese: la mobilitazione di 10.000 agenti contro le proteste, lo stanziamento di 8 milioni di euro di fondi pubblici per l’attuazione di campagne di comunicazione in favore dell’opera, fino al pretesto della violazione delle norme anti-Covid utilizzato per colpire con centinaia di multe i militanti.

I costi finanziari e umani della “guerra al terrorismo” americana

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A 20 anni dall’attentato alle Torri Gemelle e al termine almeno formale della lunghissima guerra in Afghanistan, gli Stati Uniti sono uno dei paesi più militarizzati del mondo, con potentissimi effetti sia a livello domestico che a livello globale. I costi di questa militarizzazione sono inestimabili: il report State of Insecurity dell’Institute for policy studies ha cercato di ricavare dei numeri, almeno per quanto riguarda le spese. Tuttavia si tratta di costi non solo finanziari, ma anche civili, sociali e umani.

Come rivela il report, nel nome della sicurezza gli USA hanno investito in militarizzazione, sorveglianza e repressione un totale di circa 21 trilioni (miliardi di miliardi) di dollari negli ultimi 20 anni. Di questi, 16 trilioni sono andati direttamente all’esercito e 3 ai programmi per veterani, mentre 949 miliardi sono stati diretti all’istituto dell’Homeland Security e 732 alle autorità federali. Come riporta il documento, con una frazione minima di questa spesa, gli USA avrebbero potuto fornire vaccini gratuiti a tutto il terzo mondo, eliminare il debito universitario, creare 5 milioni di posti di lavoro e garantire asili nido gratuiti per 10 anni.

Per quanto riguarda le spese prettamente militari, 460 miliardi sono stati impiegati nei programmi per lo sviluppo di armi nucleari e 267 nell’aiuto militare a regimi stranieri. Le cifre, con qualche oscillazione, non hanno fatto che aumentare dagli anni ’70 in poi. Delle spese per l’Homeland Security, le somme più alte sono state destinate alle guardie di frontiera e costiere, per portare avanti un’azione di contrasto all’immigrazione irregolare. Anche in questo caso, una cifra in crescita costante.

Ovviamente, non tutti i costi della militarizzazione possono essere tradotti in dollari. Tra i più irreparabili ci sono le migliaia di morti che le guerre portate avanti dagli Stati Uniti in Africa e nel Medio Oriente hanno causato tra i civili.

Parliamo di almeno 22mila decessi, ma secondo le stime potrebbero raggiungere anche i 50mila. A fronte di queste cifre, rilasciate dall’organizzazione londinese Airwars, il governo americano ne dichiara poche decine. L’anno più sanguinoso, secondo il report, sarebbe stato il 2003, quando più di 5mila civili sono stati uccisi, quasi tutti in Iraq. Ma se consideriamo le stime (e non solo le morti certe), l’anno peggiore sarebbe stato il 2017, anno in cui potrebbero aver perso la vita quasi 20mila civili.

Contattate dal quotidiano inglese The Independent, le autorità statunitensi hanno però professato la massima trasparenza in materia, dichiarando che «nessun esercito sulla faccia della terra si impegna più dell’esercito americano per evitare decessi tra i civili.»

[di Anita Ishaq]

Marocco, legislative: il partito filo-islamista in grande svantaggio

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Marocco: il ministro dell’Interno Abdelouafi Laftit ha fatto sapere i risultati preliminari delle legislative di ieri, mercoledì 8 settembre. Da ciò che è emerso, sono stati i liberali ad avere la meglio sul PJD (Partito filo-islamista della giustizia e dello sviluppo), il partito che ora è al governo in Marocco. Il PJD è passato da 125 a 12 seggi, risultato di molto inferiore rispetto ai rivali, i partiti liberali NRI (Raggruppamento nazionale degli indipendenti) con 97 seggi, PAM (Partito Autenticità e Modernità) con 82 seggi e il Partito dell’Indipendenza, con 78 seggi.

Cannabis: adottato in Commissione Giustizia testo base per autoproduzione

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Il testo base sull’autoproduzione di cannabis è stato approvato in commissione Giustizia della Camera. Arriva così il passaggio necessario per la continuazione dell’iter legislativo: adesso, infatti, si passa alla fase degli emendamenti da presentare prima dell’adozione del testo finale da inviare alle camere. In tal senso, solo dopo l’eventuale approvazione alle Camere la legge diventerà realtà. Essa introdurrebbe, tra le altre cose, la depenalizzazione per la coltivazione domestica di non oltre 4 piante “femmine”, sanzioni minori per i fatti di lieve entità e maggiori per i casi più gravi. Le pene per i reati connessi a traffico e spaccio, infatti, aumenterebbero da 6 a 10 anni di detenzione.