domenica 16 Novembre 2025
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L’inganno alimentare: come evitare le insidie delle etichette e i cibi che fanno male

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Le aziende bombardano i consumatori con slogan che promettono vantaggi nutrizionali e sulla salute, puntando su un’arma che si è rivelata assai efficace. Non fanno più tanto leva sul portafoglio promettendo prezzi più bassi, bensì puntano al cuore e alle emozioni, garantendo proprietà salutistiche miracolose. E su questo punto, è dimostrato, le persone sono disposte a spendere di più, purché faccia bene alla salute. E così fioccano i prodotti “senza grassi”, le acque “povere di sodio”, i cracker “integrali e leggeri” e via dicendo.
Peccato che dietro questi slogan si nascondano molto spesso me...

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USA, trattative per mezzo milione alle famiglie separate al confine

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L’amministrazione Biden sarebbe in trattativa per offrire 450mila dollari a persona, come forma di compensazione, alle famiglie di immigrati separati al confine durante l’amministrazione Trump, secondo quanto riportato dal Wall Street Journal (molto probabilmente, le cifre finali saranno diverse). Agenzie dedite al risolvere le cause intentate per conto dei genitori affermano che la separazione abbia inferto ai bambini un “trauma psicologico duraturo”. Durante l’amministrazione Trump, migliaia di bambini sono stati separati dalle famiglie dopo aver attraversato illegalmente il confine tra Messico e USA nel 2018. Molti di questi hanno riportato traumi psicologici e disturbi fisici tra cui ipotermia e malnutrizione. Fino ad ora sono stati identificati 5500 bambini separati dalle famiglie.

L’Italia prova a lanciarsi nella ricerca sulle intelligenze artificiali

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Stando alle indiscrezioni pubblicate sul sito Formiche.net, il Comitato interministeriale per la Transizione digitale sarebbe riuscito ad approvare la bozza finale che andrà a dettare la strategia italiana sulle Intelligenze Artificiali (IA). Un traguardo su cui si sta lavorando da almeno tre anni e che bisognava comunque risolvere in occasione del PNRR, ma che è anche stato accompagnato da dichiarazioni tanto barocche e vaghe da rendere difficoltoso il giudicare l’effettiva qualità del progetto.

Quello che ne emerge è un’Italia che pur avendo poco spazio di manovra si definisce trionfalmente come «una vibrante comunità di ricerca nell’IA», una definizione che si accattiva qualche brontolio da coloro che ogni giorno vivono le criticità proprie al mondo della ricerca nostrana: pochi mezzi, stipendi da fame e una strategia accademica non molto lungimirante. Tutte criticità che, a onor del vero, il Governo starebbe in qualche modo per affrontare, tuttavia i difetti sistemici sono tanto profondi e antichi che sarà difficile cambiare radicalmente rotta.

Se nei Paesi Membri si investe mediamente il 2,38% del Pil nella ricerca, in Italia siamo fermi al solo 1,45% con il risultato che, paradossalmente, ci siamo trovati a finanziare gli scienziati UE più dei nostri. Gli ottimi ricercatori del Bel Paese, poco sorprendentemente, si lanciano quindi nella controversa pratica della “fuga dei cervelli”, trovando poi lavoro all’estero. Come biasimarli: la paga oraria offerta dai tedeschi si aggira a €48, mentre da noi ci si arena a una media di €15, per di più con gender-gap di portate notevoli. Su 10 ricercatori, solo due sono donne.

Per appianare la situazione, il Governo vorrebbe impiegare 600 milioni di euro per finanziare i dottorati di ricerca nazionali, 600 milioni per sostenere i giovani ricercatori, 5 milioni all’anno per il programma “Rita Levi Montalcini” del Miur, 1,5 miliardi con cui foraggiare gli Istituti tecnici superiori, 430 milioni per creare nuove carriere nella Pubblica amministrazione e 3,2 miliardi di euro per realizzare corsi STEM, ovvero corsi che abbiano “ricadute applicative” nel campo scientifico-informatico.

Bastano queste risorse per sostenere le narrazioni del Governo Draghi che vogliono l’Italia come avanguardia dell’IA nell’Europa? Si e no, a seconda del come si interpretano le parole dell’establishment. La sfera pubblica ha – e probabilmente continuerà ad avere – un ruolo marginale nel settore delle Intelligenze Artificiali, tuttavia quello privato è discretamente attivo, soprattutto se coinvolgiamo nell’equazione anche il ramo della robotica. Non deve quindi sorprendere che 13,38 miliardi della Transizione 4.0 saranno destinati a sostenere le imprese che svilupperanno le dinamiche di machine learning e i sistemi predittivi.

Bisogna dunque capire se l’Italia abbia intenzione di gettonare sullo Stato, rendere felici le aziende private o se voglia fare fronte comune con l’UE “prestando” i propri laureati d’eccellenza per lavorare a una causa condivisa, una causa utile a contrastare le strapotenze digitali di Cina e USA, ma anche ad attingere a un mercato stimato nella sola Italia sui €300 milioni.

[di Walter Ferri]

 

Facebook opta per il rebranding e diventa Meta

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Facebook avvia un’imponente operazione di rebranding e cambia il proprio nome in Meta. Anche il logo aziendale cambia, diventando un simbolo dell’infinito leggermente deformato. Zuckerberg intende così puntare il focus sulla frontiera digitale del metaverso, che offrirà nuove modalità di fruizione delle esperienze social. Il cambio di nome aiuterà di certo l’azienda ad allontanarsi dalle controversie e dalle accuse di diffusione di discorsi di odio e disinformazione. Il rebranding si applica solo alla società madre, non alle singole piattaforme, i cui nomi rimarranno Facebook, Instagram e Whatsapp.

Messico, i contadini battono la multinazionale Monsanto: no al mais OGM

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Al termine di una lunga battaglia Davide ha battuto Golia: un piccolo gruppo di attivisti e contadini messicani ha avuto ragione del colosso degli OGM Bayer-Monsanto, ottenendo dalla Corte Suprema del Messico la proroga del divieto alla coltura di semi di mais transgenici in tutto il territorio dello stato. Dopo otto anni di battaglia legale e decine di impugnazioni da parte dei colossi del settore, la Corte Suprema di Giustizia del Messico si è pronunciata per la prima volta sul contenzioso, respingendo all’unanimità tutti i ricorsi presentati da Monsanto ed altre grandi aziende del settore come Syngenta, PHI e Dow.

Il gruppo di attivisti protagonisti della lunga battaglia si chiama Demanda Colectiva en Defensa del Maíz Nativo. Il tutto ha avuto inizio nel 2013, con la presentazione di una petizione al governo contro l’uso del mais geneticamente modificato, facendo appello alla Costituzione del paese, la quale garantisce il diritto a vivere in un ambiente sano. Il gruppo, costituito per la maggior parte da agricoltori, associazioni ambientaliste e scienziati, ha portato avanti la causa, sostenendo che il mais OGM provoca l’impollinazione incrociata e mette in pericolo quello autoctono, alimento alla base della cucina messicana. 

La Corte Suprema ha quindi ordinato un’ingiunzione cautelare, al fine di impedire alle aziende di piantare mais da laboratorio fino a quando non sarebbe stata presa una decisione definitiva. In questi otto anni, durante cui l’ingiunzione è rimasta in vigore, alcune società – tra cui la Bayer-Monsanto – hanno presentato dozzine di ricorsi, ma invano. I legali degli attivisti, infatti, hanno tenuto duro fino a oggi uscendone vincenti, in quanto i Ministri della Corte hanno ratificato la misura cautelare per mantenere la sospensione della semina di mais OGM. Decisione conforme al decreto presidenziale risalente al dicembre 2020, il quale ha ordinato la revoca delle autorizzazioni per l’uso di granella di mais transgenico negli alimenti entro e non oltre il 31 gennaio 2024.   

[di Eugenia Greco]

Rifiuti speciali, l’Italia continua a non avere idea di come gestirli

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In Italia il progressivo aumento della quantità di rifiuti speciali, ossia quelli prodotti dalle attività economiche, non ha portato alla presenza di nuovi impianti in grado di gestirli: è quanto sottolineato da un rapporto della società indipendente Ref ricerche. Nel 2019 la produzione di rifiuti speciali a livello nazionale ha raggiunto quasi 154 milioni di tonnellate, in crescita del 7% sul 2018 e del 16% rispetto al 2015, per far fronte ai quali l’Italia si è affidata a 10.839 impianti per la gestione dei rifiuti speciali, un numero «in leggera diminuzione rispetto agli 11.209 del 2017 e ai 11.087 del 2016».

Nello specifico, nel 2019 quasi 164,5 milioni di tonnellate sono state gestite in Italia (una quantità maggiore di quelle prodotte per ragioni insite nel ciclo gestionale). Precisamente 132,8 milioni di tonnellate rientrano nelle attività di recupero (81%) mentre 31,6 milioni di tonnellate in quelle di smaltimento (19%), per le quali «i volumi recuperati sono 16,3 milioni di tonnellate (54%) mentre lo smaltimento si attesta al 46% essendo destinati ad esso 14 milioni di tonnellate di rifiuti».

A tali valori però bisogna aggiungere i rifiuti speciali derivanti dal trattamento dei rifiuti urbani: il 52% degli 11,6 milioni di essi viene smaltito in discarica, a fronte del solo 16% avviato a recupero di materia. Per questo nel complesso «è possibile individuare un insieme di 20 milioni di tonnellate di rifiuti speciali da rifiuti avviati a smaltimento ed altresì è evidente che lo smaltimento in discarica riveste ancora un peso preponderante quale forma di gestione dei rifiuti da rifiuti». In tal senso, si deve ricorrere allo smaltimento solo quando esso rappresenti l’unica opzione viabile, e bisogna dunque «implementare un’adeguata dotazione infrastrutturale di impiantistica di trattamento finale che consenta il passaggio verso forme di gestione preferibili in termini di economia circolare». La necessità in pratica è quella di valorizzare scarti che altrimenti finirebbero in discarica e non determinerebbero nessun beneficio a livello ambientale.

Analizzando il saldo della bilancia commerciale dei rifiuti speciali in termini di differenze import/export si nota che il bilancio complessivo a livello nazionale chiude in positivo di 3,1 milioni di tonnellate, con un import pari a 7,1 milioni e un export pari a 3,9 milioni. Bisogna però contestualizzare tali dati: innanzitutto i 3,9 milioni di tonnellate di rifiuti esportati nel 2019 sono maggiori rispetto ai 3,1 che venivano esportati nel 2016. Il saldo attivo deriva quasi esclusivamente da sole due regioni, ossia la Lombardia ed il Friuli-Venezia Giulia, ed infatti i 10.839 impianti sopracitati sono situati in larga parte al Nord. Gli stoccaggi nell’ultimo quinquennio sono cresciuti, il che è sinonimo delle difficoltà nei trattamenti finali rilevate in diverse aree del nostro Paese.

È per tutti questi motivi che, conclude il report, nel nostro Paese «il saldo tra la produzione di rifiuti speciali da avviare a recupero energetico ed a smaltimento e la capacità di gestione di tale ammontare è negativo per oltre 2,4 milioni di tonnellate».

[di Raffaele De Luca]

La Francia scappa dal Mali: doveva sconfiggere il terrorismo, gli attentati sono quintuplicati

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Guinean Special Forces soldiers conduct weapons range training for both close quarters rifle and sniper skills during FLINTLOCK 20 in Nouakchott, Mauritania, February 17, 2020. Flintlock is an annual, integrated military and law enforcement exercise that has strengthened key partner-nation forces throughout North and West Africa since 2005. Flintlock is U.S Africa Command’s premier and largest annual Special Operations Forces exercise. (U.S. Navy photo by Mass Communication Specialist 2nd Class Evan Parker)

La Francia ha iniziato a ritirare le truppe dalle sue basi situate nelle zone più a nord del Mali, nella regione africana del Sahel, arrivate lì nel 2013 per portare avanti l’operazione “Barkhane” finalizzata a combattere il terrorismo jihadista. Le sedi di Kidal, Tessalit e Timbuktu saranno chiuse entro la fine dell’anno e riconsegnate all’esercito maliano. Al momento le 5.100 truppe francesi sul territorio saranno ridotte a 3.000. Il Mali ha forti legami storici con la Francia in quanto sua ex colonia. Infatti, proprio nella zona del Sahel, la Francia, come potenza occidentale, detiene un grosso controllo.

Ma questi otto anni di lotta anti-jihadista non hanno portato i risultati sperati. Ancora vaste aree del territorio del Mali sfuggono al controllo delle autorità locali e le proteste continuano a farsi sentire. Hamidou Cissé, appartenente al gruppo “Patriots of Mali” ha detto che bisogna voltare pagina, perché “Dopo che sono arrivati [i francesi], abbiamo pensato che avremmo avuto la pace. Ma se si ritirano oggi, tra sei mesi o un anno, soffriremo, ma è meglio soffrire che restare nelle loro mani per sempre”.

All’epoca fu il ministro Hollande ad annunciare la notizia della collaborazione tra Francia e Mali, sostenendo che “Le truppe francesi si uniscono alla lotta del Mali contro gli elementi terroristici islamisti”. L’intenzione inizialmente dichiarata era quella di schierare le truppe francesi in Mali, insieme all’esercito locale, per contrastare l’avanzata delle forze islamiste che si dirigevano verso sud. Molti, invece, hanno sostenuto e continuano a sostenere che l’obiettivo dell’intervento francese fosse proteggere più da vicino gli interessi economici francesi nella regione del Sahel e dell’Africa occidentale. Perché? Probabilmente perché ci sono pochi risultati concreti ed effettivi sul territorio, e in otto anni la situazione della sicurezza nel paese non ha fatto altro che peggiorare, giorno dopo giorno.

Dati alla mano, gli attacchi terroristici nel Sahel sono quintuplicati dal 2016. Oltre alle vittime civili, sono aumentati notevolmente gli attacchi ai militari e alle forze internazionali. Secondo il Global Terrorism Index 2019 paesi come il Mali e il Niger sono ancora tra i primi 10 stati maggiormente colpiti dal terrorismo in Africa. Durante l’ultimo trimestre del 2019, quasi 200 soldati, tra cui 100 nigerini e oltre 90 maliani, sono stati uccisi dagli estremisti. L’esercito francese ha perso in totale più di 50 uomini.

Il problema di fondo è che non è possibile intervenire in “missioni di pace” senza effettivamente conoscere il territorio, le sue caratteristiche e la storia presente e passata. Ad esempio, mentre la Francia si impegnava a combattere il terrorismo, la crisi nella regione si è trasformata in un conflitto etnico interno. Nello specifico, nella regione di Mopti c’è conflitto tra Fulani e Dogon, così come tra Bambara e Fulani. A Timbuctù e Gao c’è un conflitto tra i Tuareg e gli Arabi da un lato, e tra i Tuareg e i Songhai dall’altro.

E ancora. La Francia è stata inoltre accusata da molti maliani di proteggere e sostenere gruppi separatisti armati a Kidal, a nord del Mali. Spieghiamo meglio. Durante il suo intervento l’esercito francese, aiutato da altri eserciti africani, ha cacciato da Kidal i jihadisti legati ad Al-Qaeda, ma non ha fatto niente per liberare il territorio dai 50.000 abitanti tuareg che la occupano ingiustamente.

Dall’altra parte il crescente interesse della Russia nella regione ha attirato l’attenzione di governo ed abitanti, speranzosi di trovare soluzioni alternative. Le truppe russe sarebbero sufficienti a rimpiazzare immediatamente quelle francesi. Al momento pare che l’opinione pubblica del Mali favorisca l’arrivo dei russi, soprattutto per tentare di far fronte alla precaria situazione politica del Paese. Dopo il colpo di stato dei mesi scorsi, a luglio il nuovo presidente del governo di transizione, il colonnello Assimi Goïta, è stato vittima di un tentato omicidio alla Grande Moschea di Bamako.

Cosa si prospetta per il Mali?

Le scelte, se possiamo definirle tali, sono due. Stabilire un nuovo accordo di cooperazione con la Russia, ad esempio, ritenuta più adatta a gestire la situazione, addestrando l’esercito locale e fornendo protezione. Oppure trattare con i jihadisti, mossa totalmente esclusa dalla Francia.

[di Gloria Ferrari]

Dal carcere i leader Forza Nuova accusano Lamorgese e polizia: guidati all’assalto della CGIL

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L’assalto del 9 ottobre alla sede della CGIL a Roma potrebbe essere stato concordato con la polizia: è quanto emerge dagli interrogatori degli arrestati per l’ormai noto blitz alla sede del sindacato, riportati dal Tg La7. Un dettaglio che, se confermato, genererebbe non pochi dubbi sulla gestione dell’ordine pubblico e dunque sull’operato del ministero dell’Interno guidato da Luciana Lamorgese. Secondo quanto spiegato dal leader di Forza Nuova Giuliano Castellino, infatti, dopo la decisione di dirigersi verso la sede della CGIL, l’ex Nar (Nuclei armati rivoluzionari) Luigi Aronica sarebbe stato mandato a «parlare con i funzionari della Digos e della Questura in piazza» che avrebbero autorizzato «il corteo da Piazza del Popolo fin sotto il palazzo della CGIL».

Una versione praticamente confermata dallo stesso Luigi Aronica, il quale si è soffermato sulla trattativa con le forze dell’ordine ed ha riportato le parole che sarebbero state pronunciate dai membri della Digos in seguito alla proposta: «Parliamo con i nostri dirigenti e vi facciamo sapere, torna tra mezz’ora». Una volta passato tale lasso di tempo sarebbe dunque arrivato il via libera, con le forze dell’ordine che secondo Aronica avrebbero affermato: «L’ok è arrivato, adesso ci mettiamo d’accordo per il tragitto ed andiamo su». Non solo: Aronica ha anche dichiarato che alla testa del corteo ci sarebbero stati proprio i dirigenti di polizia, i quali «dicevano dove andare».

I nomi degli individui con cui ha parlato, Aronica però non li ha fatti per «una questione morale ed etica». Tuttavia, grazie all’insistenza del giudice nei confronti dei vari arrestati uno dei nomi è uscito fuori: tale «dottor Silvestri», ovvero sia «uno dei massimi responsabili della Digos di Roma». Ad ogni modo, ha precisato Aronica, «non è che si trattasse solo del dottor Silvestri, in quanto era accompagnato da tutta una serie di altri dirigenti non essendo un colloquio avvenuto in una stanza con un gruppo limitato di persone».

Insomma si tratta di affermazioni che, seppur da verificare, forniscono nuovi elementi per valutare la gestione dell’ordine pubblico attuata quel giorno. A tal proposito, vi è oltretutto il dubbio che la Questura fosse a conoscenza della partecipazione di Castellino alla manifestazione già prima dello svolgersi della stessa. Il leader di Forza Nuova ha infatti scritto una lettera all’agenzia di stampa Adnkronos in cui si è difeso dalle accuse ed ha inoltre sostenuto di aver fatto sapere alla Questura che si sarebbe recato in piazza a Roma quel giorno. «Non avevo nessun braccialetto, né Daspo per le piazze o divieti specifici. La mia sorveglianza speciale mi imponeva di comunicare alla Questura la mia partecipazione a manifestazioni autorizzate. Cosa che ho sempre fatto tramite pec, anche sabato 9 ottobre».

[di Raffaele De Luca]

Referendum cannabis: depositate in Cassazione 630mila firme

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Nella giornata di oggi sono state depositate in Cassazione le oltre 630.000 firme per il referendum sulla cannabis. Dopo il conteggio delle stesse – raccolte in poco più di un mese – i quesiti passeranno al vaglio della Consulta e, se ammissibili, sarà fissata la data del referendum. «Le sottoscrizioni sono arrivate dalle grandi città ma anche dai piccoli comuni, un’omogeneità che sottolinea la portata e l’interesse del tema», ha affermato il presidente del comitato promotore, Marco Perduca. Con un Parlamento «immobile sui diritti, l’arma referendaria è l’unico mezzo con cui i cittadini possono far sentire la loro voce», ha inoltre aggiunto Perduca.

Pensioni, la riforma Draghi non è altro che il ritorno alla Fornero (ma non si può dire)

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L’ennesima riforma del sistema pensionistico è approdata al consiglio dei ministri, pronta ad essere approvata in tempi record e sostanzialmente senza opposizione, come ormai di costume da quando Mario Draghi siede sulla poltrona di presidente del Consiglio. Ieri l’ex capo della BCE si è guadagnato anche l’apertura di credito dei sindacati confederali. Cgil, Cisl e Uil si sono fatti bastare una riforma diluita su più anni e la promessa di “riparlarne” il prossimo anno per rinunciare ad ogni forma di mobilitazione di protesta del mondo del lavoro. Ma la linea tracciata da Mario Draghi è molto chiara e incontrovertibile: in massimo quattro anni si tornerà alla legge Fornero, in pensione non prima dei 67 anni. Piaccia o meno, si preferisce avere lavoratori sempre più vecchi, limitando l’entrata dei giovani, pur di far quadrare i conti e rispettare l’austerità di bilancio.

Rimarrà una proroga per l’uscita anticipata per i lavori gravosi e per le donne, ma anche su questo l’esecutivo preannuncia una stretta. L’antifona è che “i tempi di vacche grasse sono finiti” e i soldi stanziati saranno a scalare: 600 milioni per il 2022, 450 nel 2023, 510 nel 2024. Le quote spariranno via via, ma al di là delle ipotesi che erano circolate su come abbandonarle (una progressione con quota 102, 103 e 104 nel triennio), per adesso dall’ultima cabina di regia è emerso che l’unico elemento certo è quota 102 per il 2022 (64 anni d’età per la pensione), poi da gennaio 2023 si riaprirà il tavolo coi sindacati.

Nel complesso certamente cambiano le cifre degli assegni, di un importo che però è variabile a seconda del livello di contributi e della relativa parte retributiva. Per molti l’importo minimo potrebbe anche variare di poco ma, come detto all’inizio, a preoccupare è la tendenza. La spesa per pensioni, con questa impostazione, è destinata a scendere sempre di più fino al 2050, arrivando dal 17% del Pil a una cifra tra il 13 e il 14%. E se un bilancio non si valuta solo per quanto è generoso, va però considerato che anche il reddito dei pensionati è importante ai fini dell’economia e il 36% di essi lo riceve sotto i mille euro. Calmierare la previdenza è sterile se non si incrementa l’occupazione, specie giovanile. Sostanzialmente di quelli che questi assegni di fatto dovranno pagarli. Sembra che ciò non preoccupi le sentinelle di Bruxelles, e neppure la stessa Elsa Fornero, la quale, ricordiamo, è attualmente consulente del governo e si è detta felice che le sue opinioni vengano di nuovo reputate importanti.

Matteo Salvini prova a fare finta di niente. Non può certo dire ai suoi elettori che il governo da lui appoggiato sta di fatto smontando Quota 100. Il governo su questo cerca di aiutarlo, e nessuno si sente di affermare quello che è ovvio, cioè che sta rientrando in campo la riforma Fornero. Troppo impopolare, per tutti. Il leader leghista in particolar modo prova a giocare con le parole, quota 102 non suona poi troppo dissimile da quota 100 e pare una via d’uscita dignitosa, poi l’anno prossimo ci si penserà.

Tornando alla riforma in sé, è vero che la questione delle pensioni non può essere affrontata se non la si guarda anche da una prospettiva macroeconomica. Le risorse a cui un anziano avrà diritto e l’età alla quale le otterrà influiscono su economia e bilancio, nonché indirettamente sui livelli di reddito e il tutto si lega alla demografia. La popolazione italiana è in costante invecchiamento e negli ultimi anni i redditi sono calati. Come fa notare in una interessante analisi l’economista e docente Felice Roberto Pizzuti, dal 1996 (anno della riforma Prodi in cui si passa al sistema contributivo) gli squilibri tra spese previdenziali e entrate previdenziali, al netto delle ritenute fiscali, sono stati sanati e già da 20 anni il saldo è attivo. Il rapporto tra spesa pensionistica e Pil avrà una curva discendente. Come pure la relazione tra salari e pensioni. Tradotto: non è affatto vero che l’ennesima stretta sulle pensioni è necessaria per i bilanci dell’Inps né per evitare che i giovani di oggi si trovino a ripagare i debiti provocati dalle pensioni dei sessantenni di oggi, i quali la loro pensione se la sono in verità ampiamente pagata attraverso i contributi versati. La nuova riforma delle pensioni nasconde semplicemente l’ennesima scelta in favore della austerità, figlia di una ideologia liberista che continua a raschiare il fondo del barile anziché fare leva su un rilancio della spesa e della crescita.

[di Giampiero Cinelli]