domenica 16 Novembre 2025
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Ancora un fine settimana di cortei contro il green pass in tutta Italia: le immagini

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Anche nell’ultimo fine settimana decine di migliaia di persone hanno manifestato contro il certificato verde in tutta Italia. Da nord a sud moltissime città italiane sono state attraversate da proteste, spesso molto partecipate, che come spesso accade non hanno goduto di alcuna copertura mediatica, eccezion fatta per qualche giornale locale. Eppure, la piccola e non esaustiva raccolta di video indipendenti da noi effettuata, dimostra che l’entità delle proteste non si stia affievolendo, nonostante in certe piazze si sia arrivati al quindicesimo sabato consecutivo di proteste. Di seguito i video raccolti da alcune delle proteste italiane.

A Genova si è tenuto il quindicesimo sabato di protesta consecutivo. Il corteo guidato dai portuali è partito da piazza Matteotti sfilando per via San Lorenzo. Presente anche una delegazione di portuali triestini.

Non si placano le manifestazioni di protesta a Trieste. Mercoledì sono tornati in piazza i portuali, mentre Giovedì 28 ottobre si è tenuto un corteo, molto partecipato, lungo le vie della città.

Anche a Udine la manifestazione di questo fine settimana ha avuto dimensioni notevoli, cinquemila partecipanti secondo gli organizzatori, che hanno scandito cori non solo contro il passaporto sanitario, ma contro le politiche del governo Draghi.

A Milano migliaia di persone di sono ritrovate in piazza Duomo, e poi una buona parte di queste si è spostata sotto la sede della Rai per chiedere una informazione migliore sul tema della gestione pandemica.

Iniziative in molte città della Toscana. Da Pisa, a Livorno, a Siena si è protestato contro l’obbligo di green pass. Naturalmente è scesa nuovamente in strada anche Firenze, dove un corteo molto nutrito ha attraversato le vie del centro.

Da nord a sud, le proteste hanno interessato tutta la penisola. Centinaia di persone si sono ritrovate anche a Foggia, sabato sera, in un corteo pacifico partito da piazza Cavour ed diretto in piazza Cesare Battisti.

[la redazione]

Australia e Thailandia riaprono i confini dopo 18 mesi

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Per la prima volta da marzo 2020 Australia e Thailandia hanno allentato le restrizioni alle frontiere internazionali. In Thailandia è permesso accedere senza obbligo di quarantena a turisti vaccinati di più di 60 Paesi, dopo che il blocco è costato al settore 3 milioni di posti di lavoro e all’incirca 50 miliardi di dollari l’anno. In Australia alcuni Stati hanno riaperto le loro frontiere senza l’obbligo di quarantena o di permesso speciale ed è previsto un piano per riaprire lentamente a turisti e lavoratori internazionali. Le due nazioni avevano adottato alcune delle restrizioni più severe per contrastare la diffusione del Covid.

Polonia: ok del Parlamento a muro anti-migranti al confine bielorusso

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La costruzione di un muro al confine con la Bielorussia volto ad arginare l’arrivo dei migranti ha ricevuto il via libera da parte del Parlamento della Polonia. Esso si estenderà per oltre 100 chilometri lungo la frontiera orientale dell’Unione europea e costerà circa 353 milioni di euro. Per iniziare la sua costruzione c’è tuttavia bisogno dell’ok del presidente polacco Andrzej Duda, il quale però aveva già annunciato che avrebbe firmato la legge non appena fosse stata approvata dal Parlamento.

Cime Bianche, l’ultimo paradiso incontaminato delle Alpi è sotto assedio

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Un progetto avente ad oggetto la realizzazione di un nuovo collegamento funiviario potrebbe mettere in pericolo il Vallone delle Cime Bianche, che si estende per una lunghezza di circa 10 chilometri nel Comune di Ayas (Valle d’Aosta) e rappresenta «l’ultimo esteso spazio integro del versante Sud del massiccio del Monte Rosa». A denunciarlo sono diverse associazioni ambientaliste – tra cui il Comitato Ripartire dalle Cime Bianche, il Wwf e Mountain Wilderness – che in una missiva inviata recentemente al Ministero della Transizione Ecologica hanno chiesto a quest’ultimo di «attivarsi a difesa del patrimonio naturale nazionale ed europeo» nonché di «evitare un ulteriore colpevole dispendio di fondi pubblici». In tal senso, ricordano le associazioni, sono in corso «attività propedeutiche per costruire un collegamento funiviario tra i comprensori sciistici del Monterosa Ski e di Cervinia-Zermat», i quali confinano con il Vallone.

Tutto ciò «nonostante il riconosciuto e inestimabile valore del Vallone»: buona parte dello stesso infatti è «ricompresa nell’area Natura 2000 ZPS/ZSC». In pratica, il Vallone è «sottoposto al regime normativo previsto per le Zone Speciali di Conservazione (ZSC) e per le Zone di protezione speciale (ZPS), che prevedono un sistema di massima tutela naturalistica da parte delle norme europee ed italiane». Tale tutela viene riservata proprio poiché esso «presenta nel suo insieme una straordinaria varietà e stratificazione di ricchezze naturalistiche, paesaggistiche, storico-culturali e archeologiche, che lo rendono unico nel suo genere».

Ad ogni modo non si tratta della prima volta che le associazioni ambientaliste di schierano contro tale progetto, difatti la lettera fa seguito alla diffida inoltrata il 5 dicembre 2020 dalle stesse, a cui tuttavia né la Regione Autonoma Valle d’Aosta né la società Monterosa SpA (che ha proposto il progetto) hanno ritenuto di dare riscontro. Tramite la diffida infatti era stato chiesto motivatamente di «non dare corso a qualsiasi attività di progettazione che riguardasse la realizzazione di impianti di risalita e piste da sci in area Natura 2000», ma la Monterosa SpA, in accordo con la Regione, nel mese di maggio 2021 ha comunque «affidato un incarico per l’effettuazione di studi preliminari di fattibilità degli impianti». Tale incarico però secondo le associazioni sarebbe appunto illegittimo avendo ad oggetto un «collegamento impiantistico in un’area facente parte della rete europea Natura 2000», il che è «espressamente vietato dalla legge».

A tutto ciò si aggiunga che, secondo quanto affermato dal coordinatore del Comitato ripartire dalle Cime Bianche Marcello Dondeynaz, «le località di Cervnia-Zerman e del Monte Rosa sono sufficientemente grandi e attrezzate e la creazione del collegamento servirebbe solo per motivi di marketing, per poter dire di aver creato uno dei comprensori più grandi al mondo». In tal senso, ha aggiunto Dondeynaz, «se l’impianto funzionerà solo da collegamento non porterà ricchezza alla Val d’Ayas, che rischia di diventare unicamente una via di transito per i turisti diretti a Cervinia».

[di Raffaele De Luca]

G20: partito il corteo di protesta a Roma

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Migliaia di persone sono scese in piazza a Roma per protestare contro il G20. I manifestanti sono partiti in corteo da piazzale Ostiense ed arriveranno fino a Bocca della Verità. Tra loro vi sono molti giovani, nonché rappresentanti dei sindacati di base ed attivisti dei movimenti sociali e dei comitati. «Voi la malattia, noi la cura», «Voi il G20, noi il futuro», «Stop ai brevetti, vaccino diritto globale»: sono questi alcuni degli striscioni esposti al corteo, il quale è sorvegliato dalle forze dell’ordine che stanno presidiando l’area con blindati e camionette.

Tornare alla canapa per un futuro più sostenibile non è fantascienza

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Siamo nell’antropocene. Ormai non vi è più ombra di dubbio. L’impronta ecologica umana si è fatta così invadente da definire una nuova era geologica. Detta così potrebbe sembrare una lode, ma in realtà abbiamo ben poco di cui vantarci. Crisi climatica e devastazione ambientale sono realtà sotto gli occhi di tutti. Ma se sfruttassimo quella lungimiranza che, se non altro, caratterizza la nostra specie, potremmo ancora cambiare le carte in tavola. Ad esempio, volendo riassumere l’impatto umano sul pianeta in tre macro problematiche – emissioni di carbonio, inquinamento e deforestazione – beh, la canapa avrebbe almeno una soluzione per ognuna di queste. Andiamo per ordine.

Emissioni di carbonio

Inutile ribadire quanto ogni attività umana – da quella industriale a quella più quotidiana – sia in qualche modo responsabile dell’emissione di gas serra. Le parti per milione di anidride carbonica in atmosfera ogni anno raggiungono un nuovo picco, portandosi dietro riscaldamento globale e relativa crisi climatica. Se però la canapa (Cannabis sativa) tornasse a dominare almeno qualche settore produttivo, le cose potrebbero già migliorare. Pensiamo alla produzione tessile che, allo stato attuale, genera ben 1,7 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno. Sebbene non siano la scelta più sostenibile, oggi, sono però il cotone e diverse fibre sintetiche ad avere l’egemonia sul comparto della moda. La produzione di una tonnellata di fibra di cotone emette 6 kg di anidride carbonica, ma se lo stesso quantitativo di fibra venisse dalla canapa, l’atmosfera riceverebbe il 33% in meno di CO2. Ma non solo. Si userebbe appena un quarto dell’acqua richiesta dal cotone per ottenere un prodotto finito più resistente e durevole, nonché meno energivoro: lavare dei capi in canapa richiede infatti lavaggi più brevi e a temperature più basse.
Passiamo al settore edile. Anche qui la canapa si è rivelata una buona alleata. Il settore delle costruzioni si stima che sia responsabile di circa il 38% delle emissioni globali di CO2 legate all’energia. Motivo per cui la cosiddetta bioedilizia sta tentando di diffondersi a macchia d’olio. In termini di efficienza energetica, se utilizzata come ‘rivestimento’ – scriveva l’Enea in relazione ad un loro progetto – «la canapa migliora l’isolamento termico, attenuando di circa il 30% il flusso termico, ossia la quantità di calore che passa attraverso un materiale in un dato momento, e diminuendo del 20% la trasmittanza termica, vale a dire la facilità con cui un materiale si lascia attraversare dal calore». Ma c’è di più. Rispetto ai materiali convenzionali, se miscelata con la calce per farne direttamente dei mattoni, mostra un ciclo di vita decisamente a minor impatto. Ciò è dovuto, principalmente, al sequestro attivo del carbonio da parte della pianta di canapa durante la sua fase di crescita. Considerando che, in Italia, i consumi energetici nelle abitazioni sono responsabili del 45% delle emissioni di carbonio, se si utilizzasse la canapa nel settore edile, avremmo case più sostenibili e, sotto diversi aspetti, anche più confortevoli.

La canapa contro l’inquinamento

Aria, acqua e suolo: non c’è comparto terrestre che non sia stato alterato dalle attività antropiche. L’inquinamento oramai ha così tante sfumature da perderne il conto. Anche qui, però, se si desse più spazio alla canapa le cose potrebbero migliorare sensibilmente. Tra gli inquinanti più temibili, ad esempio, si annoverano pesticidi e fertilizzanti ampiamente impiegati nell’agricoltura moderna La canapa, dal canto suo, richiede un quantitativo di nutrienti aggiuntivo irrisorio e nessun agrofarmaco. Se prendesse quindi il posto di molte colture, l’agricoltura contribuirebbe decisamente meno al cambiamento climatico. Dalla farina alla birra, passando per i sostituti della carne e le barrette energetiche: secondo una recente revisione della letteratura scientifica, la canapa potrebbe già espandersi di diritto nel settore alimentare globale. Inoltre coltivare canapa, non solo sarebbe utile a prevenire certe forme di inquinamento, potrebbe addirittura ‘curare’ il terreno. Secondo diversi studi, la cannabis sativa è infatti in grado di tollerare i metalli pesanti: attraverso varie strategie fisiologiche, la pianta è infatti capace di accumularne grandi quantità nei propri tessuti, rimuovendoli dal terreno. Il che la rende un candidato ideale per la fitodepurazione. Chiaro che in questo caso non si potrebbero utilizzare le stesse piante da destinare al consumo umano, ma i potenziali utilizzi in campo industriale sono enormi: dalla bonifica dei suoli alla depurazione delle acque reflue, fino all’abbattimento degli inquinanti nel percolato di discarica.

Ma arriviamo all’inquinamento per antonomasia, quello da plastica. L’impatto dei rifiuti plastici sull’ambiente è forse uno dei peggiori. E non solo perché è il più visibile. Anche qui, però, la canapa ha una soluzione. Un prodotto degradabile e sostenibile in termini produttivi: la bioplastica. Infatti, gli scarti della lavorazione delle fibre di canapa sono costituiti per quasi l’80% da cellulosa, materia prima necessaria alla produzione di plastica biologica. Tra le fibre naturali è poi quella in grado di garantire maggiore elasticità, e quindi resistenza, al prodotto finale. Dall’olio si possono ottenere resine acriliche simili al plexiglass, mentre dal fusto della pianta, il canapulo, attraverso un processo di fermentazione, si ottiene, con rese fino al 90%, l’acido lattico dal quale si produce il PLA, bioplastica molto usata nella stampa 3D.

La canapa contro la deforestazione

Oggi si disbosca per tanti motivi, troppi a dirla tutta. Coltivazione, allevamento, costruzione di edifici, sono solo alcune delle attività che si fanno spazio devastando le foreste del pianeta. Semplificando le ripercussioni ecologiche della deforestazione, oggi è possibile affermare che tanti meno alberi ci saranno, tanto minore sarà l’anidride carbonica assorbita dalla loro biomassa e quindi rimossa dall’atmosfera. La canapa, dal canto suo, cresce rapidamente, raggiungendo un’altezza di 4 metri in 100 giorni, è in grado di assorbire più anidride carbonica per ettaro rispetto a qualsiasi altra coltura commerciale e può essere coltivata su vasta scala anche su terreni impoveriti di nutrienti. C. sativa rappresenta quindi una delle soluzioni di conversione del carbonio più veloci e convenienti disponibili. Tuttavia, non sarebbe possibile – e tanto meno ecologico – rimboschire con sola canapa. Ma se questa venisse coltivata approfittando di ogni sua potenzialità è probabile che avremmo ecosistemi naturali meno frammentati. In questo senso, l’esempio forse più lampante è la possibilità di coltivarla su larga scala anche per ottenere mangime per animali da allevamento. Un’opportunità, da non molto presa in considerazione dall’Ue, che potrebbe fare la differenza. I semi di canapa, e altre parti della pianta, sono infatti materie prime altamente nutritive e facilmente utilizzabili in ambito zootecnico. D’altra parte, i mangimi attuali sono in larga parte ricavati oggi dalla soia, nientepopodimeno che la seconda causa globale di deforestazione.

Comunque, che la canapa potesse soddisfare le esigenze primarie e consumistiche della società senza gravare troppo sull’ambiente, lo si era intuito già da tempo. «Con la sua polpa si produrrà ogni qualità di carta e si è calcolato che diecimila acri (circa 4mila ettari) a canapa produrranno tanta carta quanto in media quarantamila acri (circa 16mila ettari) di foresta». È quanto si legge in un articolo della rivista Popular Mechanics datato 1938 e intitolato “Un nuovo raccolto da un miliardo di dollari”. Anche nel caso della produzione di carta, le conferme sulle potenzialità della canapa si sono infatti accumulate negli anni. Come quella di un recente studio pubblicato su Bioresources. Qui i ricercatori hanno messo a punto una tecnologia in grado di ottenere dalla canapa prodotti cartacei di uso quotidiano, altamente efficienti dal punto di vista energetico e per i quali non sono necessari processi chimici aggressivi.

Ciononostante, a colpi di proibizionismo, la canapa è stata troppo a lungo messa da parte. Ad oggi, seppur riconosciute le sue potenzialità, l’incertezza normativa non ne facilita una dovuta ripresa sul mercato. Qualcosa però si sta muovendo, e anche il pianeta Terra avrebbe molto da guadagnarci.

[di Simone Valeri]

Vaccini Covid: ok Fda a Pfizer per fascia d’età 5-11 anni

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La Food and Drug Administration (Fda), l’organo statunitense che regola i prodotti farmaceutici, ha autorizzato per l’uso di emergenza il vaccino anti Covid Pfizer-BioNTech nei confronti dei bambini dai 5 agli 11 anni. Il via libera ha ad oggetto una dose ridotta (10 microgrammi) rispetto a quella prevista per gli over 12 (30 microgrammi) e due iniezioni a distanza di tre settimane. I vaccini però non possono ancora essere somministrati: c’è infatti bisogno del semaforo verde dei Centers for Disease Control and Prevention (Cdc), i cui consulenti si riuniranno martedì.

Per la prima volta un detenuto di Guantanamo racconta le torture della CIA

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Per la prima volta un detenuti di alto livello ha fornito un resoconto pubblico sulle sevizie subite dalla CIA durante gli anni della “guerra al terrorismo” statunitense. Majid Khan, prigioniero del centro di detenzione di Guantanamo Bay, ha reso un racconto dettagliato di quanto subito all’interno di una struttura clandestina della CIA all’interno di un tribunale statunitense. Le sevizie descritte riecheggiano in modo agghiacciante i racconti di altre vittime di tortura in tutto il mondo, rendendo sempre più evidente come il fenomeno sia complesso e difficile da circoscrivere, e quanto nemmeno i più democratici tra gli Stati Occidentali siano esenti da questi reati.

Khan è un detenuto di origini pakistane, recluso a Guantanamo perché affiliato di al-Quaeda, complice del bombardamento di un hotel a Giacarta e di altre attività terroristiche. Nel 2012 è stato accusato di cospirazione, omicidio e di aver fornito supporto materiale ai gruppi terroristici: la condanna iniziale, da 25 a 40 anni di reclusione, è stata notevolmente ridotta quando ha iniziato a collaborare fornendo importanti informazioni su al-Quaeda.

Khan racconta, tra le altre cose, di essere stati appeso nudo ad una trave per lunghi periodi, aver subito la tortura dell’annegamento ed essere spruzzato regolarmente con acqua gelata per essere tenuto sveglio per lunghi periodi. Per anni è stato selvaggiamente picchiato, stuprato e affamato. In una rapporto del 2014 della Commissione Intelligence del Senato degli Stati Uniti aveva accusato la CIA di essere andata ben oltre i propri limiti legali per ottenere informazioni durante gli interrogatori con i sospetti affiliati di al-Quaeda. Tuttavia mai prima d’ora era stato ascoltato pubblicamente un testimone di alto profilo come Khan. Le torture sono state perpetrate nonostante Khan abbia collaborato quasi da subito con i servizi segreti, fornendo dettagli di fondamentale importanza sulla rete terroristica di al-Quaeda.

Le torture descritte da Khan somigliano in maniera agghiacciante ai resoconti di altre decine di vittime in tutto il mondo. Nell’ottobre 2017 il Tribunale di Milano condanna Osman Matammud, aguzzino dei centri libici di Bani Walid e Sabrata, dopo aver ascoltato le testimonianze delle vittime che raccontano di aver subito pestaggi, stupri, di essere state “appesi a testa in giù con mani e piedi legati” e aver subito varie forme di torture con acqua ed elettricità. Solo pochi mesi prima, a luglio, l’Italia aveva approvato la sua prima legge contro la tortura. Ma non c’è bisogno di andare fino in Libia. I fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere vedevano la “tortura pluriaggravata” tra i reati contestati. E questo vale per quanto più volte riportato da Egitto, Cina, Corea del Nord e da moltissimi altri luoghi in tutto il mondo.

La retorica occidentale tende ad associare questi fatti agli stati autoritari, tendenzialmente associati con i Paesi del sud del mondo: probabilmente per questo la legislazione contro la tortura è arrivata molto tardi in molti Stati. Sempre più testimonianze raccontano con ferocia di un fenomeno globale, difficilmente arginabile entro confini di uno Stato o una certa forma politica. La Convenzione contro la tortura adottata dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1984 (ratificata dall’Italia nel 1989) stabilisce come tratto caratterizzante l’intenzionalità nel creare danno. Eppure sempre più studi mostrano come non si conoscano appieno i meccanismi che portino i soggetti a diventare dei torturatori, e come l’attribuzione di “comandi venuti dall’alto” non sia esatta né sufficiente a spiegarne la natura. “Ancora non sappiamo come qualcuno diventi questo“, scrivono Austin e Bocco in uno studio titolato Becoming a torturer, ma “la globalità della tortura significa che il fatto di ‘diventare torturatori’ non possa essere spiegato nei soli termini della formazione, dell’indottrinamento o del fatto che la tortura sia stata ordinata da una catena di comando all’interno di un ‘cattivo’ regime politico“.

Si tratta di una figura, quella del torturatore, che la società e le scienze sociali non sono ancora state in grado di concettualizzare adeguatamente. Tuttavia gli stati Occidentali non possono considerarsi esenti da tali fenomeni, né trattarli come episodi isolati.

[di Valeria Casolaro]

Moldavia, Ucraina fornisce gas per evitare crisi energetica

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L’Ucraina ha fornito alla Moldavia 500mila m³ di gas, in seguito alla decisione del fornitore russo Gazprom di triplicare il prezzo delle forniture per Chișinău. Tale mossa aveva scatenato una grave crisi energetica in Moldavia, che aveva cercato in Europa nuovi partner energetici. Il governo moldavo teme l’insorgere di disordini durante l’inverno, a causa della carenza di gas e dell’impennata dei prezzi di riscaldamento ed energia. Secondo alcuni analisti, la Russia utilizza la crisi del gas per esercitare pressioni sul governo filo-occidentale moldavo, che starebbe tentando di uscire dall’orbita di Mosca, mentre l’UE ha condannato la strategia russa di usare il gas come “arma geopolitica”.

Quel che resta del tempo: una, cento, mille narrazioni

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“Ci sono giorni che somigliano al riprender fiato, al trattenere il respiro e lasciare il mondo in attesa. Ci sono estati che non vogliono morire. Lungo la strada si aprono fiori che, a toccarli, fanno cadere una pioggia di ruggine autunnale. Pare che su ogni sentiero sia passato un vecchio circo fatiscente, lasciandosi dietro una traccia di ferro antico a ogni giro di ruota. La ruggine era sparsa dappertutto… così i fiocchi caduti di fiori e i binari arrugginivano insieme sul confine dell’autunno”.

“Poi veniva la brutta stagione. Alla fine dell’autunno, in un sol giorno, cambiava il tempo. Di notte dovevamo chiudere le finestre perché non entrasse la pioggia, e il vento freddo strappava le foglie dagli alberi di Place de la Contrescarpe. Le foglie giacevano fradicie nella pioggia e il vento spingeva la pioggia contro il grosso autobus verde al capolinea e il Café des Amateurs era gremito e le vetrine appannate dal caldo e dal fumo dell’interno”.
Il tempo è categoria fondamentale, anche se nulla apparentemente collega l’inizio del romanzo di Bradbury, Addio all’estate con l’inizio del romanzo di Hemingway, Festa mobile, sopra citati, se non considerazioni sull’avvicendamento delle stagioni.

“Scrivere, dipingere, pescare: tre modi di rendere omaggio al tempo”, ha scritto Sylvain Tesson nel diario del suo esilio volontario in Siberia (Nelle foreste siberiane, Sellerio 2012, p. 215). E ancora: “L’uomo è un bambino capriccioso, convinto che la terra sia la sua stanza da giochi, gli animali i suoi balocchi e gli alberi i suoi sonagli” (p. 161), “Il tempo torna a essere la processione invisibile e leggera che si fa strada attraverso l’essere” (p.138). Sembra quasi una visione platonica, quella del tempo come danza delle stelle.

Il tempo è il principe della metafisica, consente considerazioni sugli accadimenti come manifestazioni transitorie che attendono spiegazioni che ci saranno chissà quando. Il vecchio principio dell’indeterminazione di Heisenberg, secondo il quale l’osservatore modifica l’oggetto che sta osservando è sempre valido. Come la conseguenza, sempre di Heisenberg, per cui non possiamo conoscere il presente in tutti i suoi dettagli. Proprio perché il presente è mutamento: così pensavano gli antichi greci.

Come è il caso delle notizie, il far emergere dal flusso degli eventi quello che gli altri dovrebbero sapere. Dare notizie è sempre non dare notizie di qualcos’altro, dando magari la colpa al tempo che non lo consente. Dare notizie è attribuire il diritto di esistere soltanto a qualcosa e a qualcuno e non ad altro. Come notava Jünger, la fretta crescente è un sintomo della trasmutazione del mondo in cifre. Cronaca è davvero vittima di Chronos.

Quindi il tempo c’entra sempre, è lo strumento di misura mediante il quale compiamo delle scelte, sveliamo le intenzioni, critichiamo e accettiamo. Lo svolgersi del tempo ha una pregnanza simbolica, svolgersi era tipico dei testi antichi, arrotolati in pergamene. Lo svolgersi del tempo comporta quindi un saper leggere, una lotta contro l’analfabetismo dell’inevitabile, contro la apparente saggezza del lasciar correre. Dobbiamo invece diventare amici del tempo, convertirci saggiamente in persone che sanno anche scrivere, dipingere, pescare. Attività da tempo libero, è vero, nell’accezione comune, ma attività sottratte ai media, al condizionamento, al determinismo della fatalità.

“Sul molo c’era un uomo che era il migliore sull’isola a pescare dagli scogli, perché per ogni mestiere c’è sempre un uomo che è il migliore fra tutti, non fosse che a picchiar chiodi con un martello”: così racconta una fiaba irlandese che usa la pesca come metafora della vita, e della morte, per dire che “nessun uomo vive oltre il suo giorno”.

Il tempo come durata soffoca e insieme esalta. Considerazioni sviluppate in modo speciale in campo educativo, pedagogico. John Dewey, in Reconstruction in Philosophy (1920), tratta delle forme che l’uomo adotta per idealizzare l’esperienza e darle qualità che in effetti non possiede: “Noi tergiversiamo, schiviamo, sfuggiamo, dissimuliamo, nascondiamo, cerchiamo scuse e palliativi, tutto per rendere la scena mentale meno antipatica… Il tempo e la memoria sono dei veri artisti: essi rimodellano la realtà in modo da renderla più vicina i desideri del cuore” (ed. it. Il Sole 24 Ore, 2006, p. 320). E Jacques Maritain: “La questione è sapere quale sia l’esatto significato della tecnologia per l’uomo, la questione è non trasformare la tecnologia in suprema saggezza e regola di vita” (Le richieste del presente e dell’avvenire, 1943).

Nietzsche, nelle sue conferenze sulla scuola, 1872!, aveva delineato profeticamente il destino dello studente moderno alle prese col dissidio di ciò che studia rispetto al tempo in cui vive, e, possiamo dire, della contraddizione per cui esiste una cultura, una scuola alta che ha sempre tempo, che punta sulla immortalità dei classici e una cultura pratica, una scuola “per i bisogni della vita”, “servitrice e consigliera intellettuale del bisogno, del guadagno, della necessità”. Tutti i movimenti studenteschi, e tutte le riforme della scuola, hanno sbattuto il viso contro questa contraddizione: come si fa a creare una scuola per tutti che sia anche sottratta alle necessità del mercato, come si fa a premiare il merito senza punire chi deve fare più strada per ottenere un riconoscimento?

Sentiamo Nietzsche, che in qualche modo la vede in modo psicologico. Lo studente, per lui, “è rimasto l’unico uomo libero in una realtà di impiegati e servitori, sconta la grandiosa illusione della libertà con dubbi e tormenti sempre rinnovati… Ed è stanco, pigro, timoroso dinanzi al lavoro, si spaventa di tutto ciò che è grande e odia se stesso… Poi precipita… in un ironico scetticismo. Spoglia le sue battaglie della loro importanza e si sente pronto per ogni reale, seppur basso, lavoro utile. Cerca consolazione allora in un’attività frenetica e incessante per nascondersi, in essa, da se stesso. E così conduce la sua perplessità e la mancanza di una guida da una forma di esistenza all’altra” (Sull’avvenire delle nostre scuole, Newton 1998, p. 109).

La precarietà, però, non è la condizione della insicurezza ma la più autentica forma del tempo e dell’essere. Ricordate L’attimo fuggente e il suo nobile interprete? Aleida Assmann chiude la sua densa, impeccabile ricerca proprio con Nietzsche: “È un miracolo: l’istante, eccolo presente, eccolo già sparito… Continuamente un foglio si stacca dal rotolo del tempo, cade, vola via – e rivola improvvisamente all’indietro, in grembo all’uomo. Allora l’uomo dice – mi ricordo – e invidia l’animale che subito dimentica” (Ricordare, ed. it. Il Mulino 2002, p. 451). Col tempo tutto diventa possibile.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]