sabato 20 Settembre 2025
Home Blog Pagina 1413

L’INPS ha deciso di togliere l’assegno di invalidità a migliaia di cittadini

2

Sui tavoli dell’Inps c’è una comunicazione passata quasi sotto silenzio che rischia di rivelarsi una bomba sociale. Con il Messaggio numero 3495 del 14 ottobre 2021 l’Istituto dice che, a decorrere dalla data del messaggio, recependo l’orientamento di diverse pronunce della Cassazione, l’assegno di invalidità può essere erogato solo a chi non lavora. Anche se si tratta di una occupazione precaria, anche se porta a casa meno di 5.000 euro l’anno (che era l’attuale limite).

Il testo fa riferimento all’assegno di cui all’articolo 13 della legge 118 del 30 marzo 1971, quello per ridotta capacità lavorativa o inabilità al lavoro. Nello specifico, non potranno più usufruire della pensione, i possessori di invalidità civile dal 74% fino al 99%, tra i 18 e i 67 anni d’età. Resta il beneficio per gli invalidi al 100%, purché non superino la soglia reddituale annua dei 16.982,49 euro.

Secondo la giurisprudenza, spiega l’Inps nel messaggio: “il mancato svolgimento dell’attività lavorativa integra non già una mera condizione di erogabilità della prestazione ma, al pari del requisito sanitario, un elemento costitutivo del diritto alla prestazione assistenziale, la mancanza del quale è deducibile o rilevabile d’ufficio in qualsiasi stato e grado del giudizio“. Si conclude: “Alla luce di tale consolidato orientamento, a fare data dalla pubblicazione del presente messaggio, l’assegno mensile di assistenza di cui all’articolo 13 della legge n. 118/1971, sarà pertanto liquidato, fermi restando tutti i requisiti previsti dalla legge, solo nel caso in cui risulti l’inattività lavorativa del soggetto beneficiario”. Il documento è a firma del direttore generale Gabriella Di Michele.

Dunque non verranno più considerati i limiti di reddito annuo entro i quali un invalido ha comunque diritto alla pensione anche se lavora. Attualmente 4.931,29 euro per gli invalidi parziali e 16.982,49 euro per gli invalidi totali (nel calcolo rientrano pure redditi derivanti da attività non lavorative, tollerati se non superano queste soglie). Secondo l’ente guidato da Pasquale Tridico, basta qualsiasi reddito, anche il più modesto che attesti la capacità di lavorare, per la decadenza del beneficio. Si tratta comunque, al momento, di un messaggio. Ovvero un tipo di comunicazione che non ha lo stesso valore di una circolare. I dipendenti Inps stanno aspettando la circolare per capire dettagliatamente come comportarsi. A ricevere aggiornamenti saranno anche uffici come i Caf e i Patronati, ora spaesati. L’attività o inattività verrà attestata consultando le liste di collocamento e altri archivi, come pure le auto-dichiarazioni sostitutive. Facilmente presumibile che alla luce di questa riforma vadano effettuate parecchie revisioni sui soggetti beneficiari, al fine di accertare il grado di invalidità attuale. Quindi non stupirebbe se passasse maggior tempo rispetto a quello indicato. Un messaggio esprime più una posizione in merito a qualcosa, piuttosto che una prescrizione esaustiva ed effettiva, che ci sarà non appena verrà emanata la circolare. Tuttavia l’ente pubblico non avrà certo la strada spianata. Si parla di proteste e ricorsi. Diverse associazioni per la disabilità hanno iniziato a protestare, ed il ministro per la Disabilità, Erika Stefani, le ha appoggiate affermando di essersi già attivata presso l’Inps per ottenere un ritiro del provvedimento.

Perché è una decisione sbagliata

Porre che il soggetto invalido non necessiti di una pensione siccome è in grado di lavorare, è un’idea ingenua. Bisogna considerare come, in qualche misura, tale individuo parta, e si trovi, ugualmente in una condizione svantaggiata. Data dal fatto che, al netto dell’attività svolta, diverse potenziali attività lavorative sarebbero a lui precluse, qualora ne avesse bisogno. Poi, va tenuto conto che le effettive condizioni di svantaggio, potrebbero aver condizionato la sua carriera lavorativa. Plausibile, che egli non abbia avuto modo e tempo per acquisire la migliore formazione possibile, tale da aspirare alle posizioni più gratificanti. Tempo e possibilità, ovviamente impiegate in cure mediche e terapie. Per le quali spesso spende cifre rilevanti. Che a tutto ciò consegua un reddito basso, è una supposizione ragionevole. Infine, non va sottovalutata l’istigazione al lavoro nero o a non lavorare, che la norma recherebbe. Per questi motivi, un attacco così palese ai diritti dei più fragili pare un’assurdità.

[di Giampiero Cinelli]

Moldavia, stato d’emergenza per aumento prezzi gas

0

La Moldavia ha dichiarato lo stato di emergenza fino al 20 novembre a causa della carenza di gas dovuta all’aumento dei prezzi in tutto il mondo. Il Paese riceve le forniture dalla Russia attraverso l’Ucraina e la Transnistria, regione moldava separatista filorussa. La crisi deriva dall’aumento del prezzo delle forniture Gazprom, da 550 a 790 dollari per mille metri cubi, cifra “non realistica” per il Paese più povero d’Europa secondo il vice primo ministro Spinu. La Moldavia, a lungo divisa tra lo stringere legami più stretti con l’UE o mantenere quelli con la Russia, cercherà ora approvvigionamenti di gas a prezzi inferiori dai Paesi europei.

Cannabis in Italia: le leggi proibizioniste ignorano la volontà popolare

1

Al contrario di quanto comunemente si ritiene, fino ai primi decenni del ‘900 la cannabis in Italia non era demonizzata. La famosa pianta poteva infatti essere liberamente coltivata, almeno fino a quando il fascismo non decise di dichiarargli guerra: da allora si sono susseguite diverse leggi, alcune più restrittive altre meno, ma comunque tutte basate su un approccio proibizionista. Nel frattempo, però, negli ultimi decenni tantissimi italiani si sono detti contrari alla criminalizzazione della cannabis ma la loro voce è rimasta finora grossomodo inascoltata, e ad oggi le politiche proibizioniste la fanno ancora da padrone.

La cannabis prima del proibizionismo

Nel primo secolo dopo Cristo, sono le legioni romane ad iniziare a coltivare la pianta per costruire corde e vele per le navi da guerra. Durante l’antichità classica rimane questo il suo utilizzo principale, mentre nei primi secoli del medioevo la coltura della canapa diviene predominante in molte campagne italiane. Intorno all’undicesimo secolo diventa piena di cannabis la pianura padana, dove viene lavorata la sua fibra così da esaudire le richieste dell’industria mercantile di Venezia. Successivamente, nel 1617, con il fine principale di rifornire l’esercito sabaudo il governo piemontese investe nella costruzione della prima fabbrica moderna di corde di canapa, e nello stesso periodo il porto di Genova diviene un’area fondamentale in ottica commercio di canapa: da lì infatti il prodotto italiano viene esportato in diversi paesi europei.

Con l’unificazione d’Italia del 1861, poi, lo stato decide di incrementare la produzione nazionale di canapa. Nascono così diversi stabilimenti in cui si produce di tutto, come ad esempio corde, gru, tende e forniture per marina, esercito, ferrovie ed ospedali. Ciò garantisce un posto di lavoro a circa ventimila persone, alle quali vanno aggiunte altre decine di migliaia che si occupano della produzione nei campi. L’Italia diviene così il primo produttore di Canapa al mondo a livello qualitativo ed il secondo a livello quantitativo.

L’inizio delle politiche proibizioniste

Negli anni del fascismo inizialmente la situazione resta la medesima. Mussolini sottolinea l’importanza della canapa dal «lato economico agrario» e dal «lato sociale» e tra il 1936 e il 1940 la produzione di canapa in Italia supera le centomila tonnellate, segnando il suo storico record. Tuttavia, il destino del settore è ormai scritto: sulla scia del proibizionismo affermatosi definitivamente negli Stati Uniti nel 1937, anno in cui la cannabis diviene illegale in tutto il territorio tramite il Marihuana Tax Act, anche Mussolini sceglie di sposare le politiche proibizioniste. Prima dell’avvicinamento alla Germania nazista, infatti, il governo italiano e quello statunitense sono in buoni rapporti ed il duce negli anni ’30, nonostante come droga non sia utilizzata praticamente da nessun italiano, definisce la cannabis una «droga da negri».

Viene così introdotta nell’elenco delle sostanze stupefacenti contenute nel Codice Penale del 1930, con l’articolo 447 che punisce la vendita e l’agevolazione del consumo di ogni sostanza vietata, e l’articolo 729 che prevede una pena detentiva o pecuniaria per chiunque sia colto «in luogo pubblico o aperto al pubblico, o in circoli privati, in stato di grave alterazione psichica per abuso di sostanze stupefacenti». Non è prevista alcuna sanzione penale per il consumatore, tuttavia il consumo viene considerato una patologia da curare obbligatoriamente recandosi ai centri di malattia mentale.

Le tante leggi anti-cannabis

Successivamente si susseguono tantissime leggi proibizioniste. La regolamentazione muta infatti nel 1954 ed il consumatore viene punito penalmente con la legge n. 1041 di quell’anno, che prevede il carcere per chiunque «acquisti, venda, ceda, esporti, importi o detenga sostanze o preparati indicati nell’elenco degli stupefacenti». Ad essa succede la legge n. 685 del 1975, approvata dal governo guidato dal democristiano Aldo Moro, che risulta nettamente migliorativa per i consumatori. Vengono infatti distinti consumo e spaccio, e solo quest’ultimo è punito con il carcere: la detenzione di modiche quantità ad uso personale viene depenalizzata. Tuttavia, la legge non introduce miglioramenti per le coltivazioni e spesso gli agenti sequestrano anche quelle di canapa industriale. Per i pochi canapicoltori rimasti la vita è divenuta perciò impossibile, ed alla fine degli anni ’70 tale settore produttivo svanisce definitivamente.

Negli anni ’90 la regolamentazione cambia ancora e prende vita la legge voluta dal capo del governo Bettino Craxi. Classificata come Dpr 309/90 ma nota come “Iervolino– Vassalli” (i due parlamentari firmatari della proposta), stabilisce che l’uso personale di droga, sia leggera che pesante, rappresenta un illecito. Essa tuttavia non prevede sanzioni penali bensì amministrative, ma solo se il quantitativo posseduto non è superiore alla «dose media giornaliera». Per la produzione e lo spaccio introduce invece una differenziazione (di pena) tra droghe pesanti e leggere, prevedendo però sempre la reclusione.

Così, la popolazione carceraria aumenta notevolmente e la legge viene accusata di essere liberticida. In Italia inizia dunque a prendere piede un movimento antiproibizionista che si rivela molto radicato dato che vengono raccolte le firme necessarie per depositare una proposta di referendum abrogativo dei Radicali, il quale viene poi votato nell’aprile 1993. Il risultato è l’abolizione, con il 55% dei favorevoli, della sanzione del carcere per l’uso personale di droga, eliminando dunque il limite della dose media giornaliera. Ma dopo questa vittoria la lotta degli antiproibizionisti prosegue, e nel 1995 parte la raccolta firme per un referendum che prevede la rimozione della cannabis dalle sostanze vietate e, quindi, la legalizzazione. In pochi mesi vengono raccolte oltre mezzo milione di firme e nel gennaio del ’96 la proposta viene depositata ufficialmente. Tuttavia gli italiani non potranno esprimersi poiché la Corte Costituzionale non la approverà.

Successivamente, nel 2006 vi è una svolta repressiva nelle modifiche alla legge Iervolino Vassalli con la “Fini-Giovanardi”, ovvero un decreto-legge poi convertito con modificazioni dall’art. 1 della legge 21 febbraio 2006, n. 49, con cui vengono equiparate le droghe pesanti e quelle leggere. Gli effetti del referendum vengono depotenziati andando a colpire l’acquisto e il consumo di gruppo inserendo nel testo la parola «esclusivamente». È infatti ammesso il consumo «esclusivamente personale», il che significa che chi acquista marijuana per sé e qualche amico è uno spacciatore. La Fini-Giovanardi arriva perciò a produrre il 38,6% dei detenuti, e molti di essi sono consumatori o piccoli spacciatori di cannabis.

La situazione attuale

Nel 2014 il proibizionismo estremo termina, poiché con la sentenza n. 32 del 2014 la Corte Costituzionale dichiara la legge incostituzionale per il modo in cui è stata approvata. Così, a causa del vuoto normativo creatosi, torna la legge Iervolino-Vassalli (tuttora in vigore), che viene però leggermente modificata dalla cosiddetta “legge Lorenzin” del 2014. Essa introduce alcune misure tra cui soprattutto la riduzione delle pene relative al piccolo spaccio ad un massimo di 4 anni, mentre precedentemente a seconda della sostanza potevano arrivare anche a 6 anni. Da citare, poi, la sentenza n.40 del 2019 della Corte Costituzionale con cui viene dichiarata illegittima la «pena minima della reclusione di otto anni anziché sei» prevista per chi «coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna sostanze stupefacenti».

Ad ogni modo, il sovraffollamento delle carceri continua tutt’oggi a rappresentare un problema: nell’ultima edizione del Libro Bianco, un rapporto annuale che analizza gli effetti delle politiche proibizioniste in Italia, si legge che «in assenza di detenuti per l’art. 73 non vi sarebbe il sovraffollamento carcerario». Inoltre per ciò che concerne le segnalazioni per semplice consumo, per il quale sono invece previste sanzioni amministrative, «1.312.180 persone dal 1990 sono state segnalate, di cui il 73,28% per derivati della cannabis».

Detto ciò il popolo italiano, così come emerso anche in passato, sembra però essere propenso ad adottare politiche antiproibizioniste. Basterà ricordare la recente proposta di referendum che punta a raggiungere la depenalizzazione del consumo di cannabis e per la quale, in pochissimi giorni, sono state raccolte e superate le 500mila firme. Sembra ormai chiaro a tantissimi cittadini, dunque, che quella della cannabis è diventata una questione sociale declinata come fatto criminale, motivo per cui c’è evidentemente bisogno di una presa di coscienza da parte della politica.

[di Raffaele De Luca]

Green Pass e picco di vaccinazioni: Draghi ha sparato una raffica di fake news

10

Il presidente del Consiglio Mario Draghi ha riferito al Parlamento i risultati a suo dire ottenuti dall’introduzione del green pass obbligatorio. Una serie di “grandi successi” con mirabolanti picchi della campagna vaccinale a segnare a suo dire l’evidente successo del green pass. Peccato che buona parte delle sue enunciazioni non reggano alla prova dei fatti ed alcune siano catalogabili come vere e proprie fake news. Il premier ha affermato che in seguito al decreto sull’obbligatorietà del lasciapassare verde nei luoghi di lavoro «le prime dosi di vaccino sono cresciute del 46% rispetto al trend atteso tra il 16 settembre e il 13 ottobre e ci sono state 559.954 prime dosi di più rispetto al previsto» ed ha aggiunto che «il numero dei decessi è caduto del 94%, mentre sono calati del 95% i ricoveri in terapia intensiva e del 92% le ospedalizzazioni». Ma vediamo come stanno realmente le cose.

Il dato sull’incremento delle somministrazioni vaccinali esposto da Draghi non è chiaro da quali calcoli provenga. Basta osservare il grafico dell’andamento delle vaccinazioni in Italia per verificare che nessun picco vi è stato. Secondo i dati, a settembre in Italia venivano somministrate mediamente 70 mila prime dosi al giorno. All’inizio di ottobre, poi, la media giornaliera era diminuita (sotto i 60 mila) per poi risalire leggermente con l’avvicinarsi del 15 ottobre, data dell’entrata in vigore dell’obbligo di Green Pass per i lavoratori. Nella settimana dall’11 al 17 ottobre complessivamente sono state fatte 432 mila prime dosi (media di 61,7 mila al giorno), poche più rispetto ai quindici giorni precedenti, ma molte meno rispetto alla media di ottobre. Le «559.954 prime dosi di più rispetto al previsto» affermate da Draghi semplicemente non esistono.

E il miracoloso crollo di ospedalizzazioni e decessi? Il 16 settembre la media settimanale era di 57 morti al giorno, mentre il 21 ottobre essa è divenuta di 38 morti al giorno: in pratica, la diminuzione del numero dei decessi è un po’ meno del 50%. Anche per il calo dei ricoveri in terapia intensiva c’è stata una netta sovrastima: il 16 settembre c’erano 531 persone ricoverate in terapia intensiva e la media settimanale dei nuovi ingressi era di 34 al giorno, mentre ora ce ne sono 356 e la media dei nuovi ingressi è di 21 al giorno. Infine, per quanto concerne le ospedalizzazioni, il 16 settembre nei reparti italiani i malati di Covid ricoverati erano poco più di 4 mila e sono divenuti poco meno di 2.500 ad oggi. Dunque nessuna riduzione «del 92%». Da notare come, tra l’altro, la curva discendente di positivi, ricoveri e decessi fosse già in atto prima del 15 ottobre. Draghi ha probabilmente basato le sue dichiarazioni sulle stime dell’Istituto superiore di sanità (Iss), le quali però fanno riferimento al periodo dal 4 aprile al 3 ottobre 2021 e quindi nulla hanno a che vedere con l’introduzione del passaporto sanitario.

Non stupirà verificare che i media mainstream si sono limitati a riportare le dichiarazioni del Presidente del Consiglio senza alcuna verifica. Anzi, i maggiori media ancora una volta hanno assunto la funzione di meri megafoni istituzionali, riferendo in maniera acritica le stime sui vaccinati. Non solo, nei giorni scorsi il grosso dei giornali ha riportato a gran voce la notizia del record di green pass scaricati, ovvero oltre un milione in un giorno. Si tratta però, dato l’obbligo in vigore per i lavoratori, di un’ovvietà, e non di una notizia inaspettata o che in qualche modo dimostri la vittoria del governo in tal senso. Non solo, la maggior parte (914mila) di essi sono stati scaricati grazie al tampone e non alle vaccinazioni. Venendo ad esse, però, sarebbe anche interessante capire quanti dei certificati sono stati scaricati da persone appena vaccinate: i dati lasciano intendere che gran parte dei download siano stati effettuati da persone già vaccinate da tempo che fino al 15 ottobre semplicemente non ne avevano avvertito la necessità. I media, tuttavia, non hanno sottolineato in alcun modo tale ipotesi, facendo indirettamente arrivare il messaggio che i green pass siano stati scaricati esclusivamente dai neo vaccinati.

[di Raffaele De Luca]

I social censurano il nudo d’autore? L’arte erotica di Vienna sbarca su OnlyFans

0
Egon Schiele

Cos’hanno in comune la piattaforma OnlyFans, conosciuta soprattutto per i contenuti porno, e i dipinti di nudo del pittore espressionista Egon Schiele? Niente, almeno fino a qualche giorno fa, quando l’ente turistico di Vienna ha aperto un profilo sul social fino ad ora popolato da pornostar e stripper e adesso promotore di arte e cultura. La decisione rimarca una protesta che va avanti da mesi nei confronti dei limiti alla nudità imposti sui social network più diffusi: promuovere online gallerie e i musei che mostrano opere con soggetti senza veli è ormai diventato molto difficile.

Come ha raccontato al Guardian la portavoce dell’ente Helena Hartlauer, “L’obiettivo del profilo non è solo la promozione dei musei viennesi, ma anche sensibilizzare su come i meccanismi di censura dei contenuti espliciti dei social network possano avere effetti paradossali quando si applicano a certi quadri e sculture”. Divieti e limitazioni che Vienna conosce bene, dal momento che molte delle opere più apprezzate ospitate dalla città appartengono proprio a Egon Schiele, pittore di nudi.

Tradotto, significa che basta accedere ad OnlyFans, l’unico social network che consente rappresentazioni di nudità, abbonarti per 3 dollari (per i primi 31 giorni) e poi 4,99 al mese. “Ti piace vedere Vienna messa a nudo?”, è il titolo dell’annuncio, che oltre a contenere quelle di Schiele conserva al suo interno una serie di opere che seguono lo stesso fil rouge. In più, chi si abbona, può avere un duplice vantaggio: la possibilità di vincere una tessera per accedere ai musei della città o un biglietto per ammirare per davvero, dal vivo, le opere in questione.

L’opera Embrace (Lovers II) dipinta da Egon Schiele nel 1917

OnlyFans, soprattutto durante il periodo pandemico, ha avuto una crescita notevole, probabilmente perché non più esclusivamente considerato nell’ottica per cui il social è stato concepito. O almeno, non solo. Molte persone, infatti, la reputano una piattaforma più tollerante e adatta a contenuti meno convenzionali, spazio vitale per artisti, fotografi e creativi di ogni tipo alla continua ricerca di luoghi dove potersi esprimere liberamente. Al contrario, social come Facebook e Instagram, continuano a inasprire limitazioni e regole, impedendo di fatto la pubblicazione di elementi che rimandino a nudità o atteggiamenti sessuali (e anche quelli presenti nelle opere d’arte).

“Certo che potremmo promuoverci in altro modo” ha detto Hartlauer. “Ma queste opere d’arte sono cruciali e importanti per Vienna. Quando pensi all’autoritratto di Schiele del 1910, è una delle opere d’arte più iconiche. Non utilizzarle su uno strumento di comunicazione forte come i social media, è ingiusto e frustrante. Ecco perché abbiamo pensato a OnlyFans: finalmente un modo per mostrare queste cose”.

E Schiele è solo uno degli esempi. A luglio il museo Albertina di Vienna aveva dovuto aprire un nuovo profilo su TikTok per sostituire il precedente, sospeso e poi bloccato dopo la condivisione di una foto del fotografo giapponese Nobuyoshi Araki, che conteneva un seno di donna.

Opera di Nobuyoshi Araki, autore giapponese le cui creazioni sono state censurate sui social

Non è così assurdo pensare che se il mondo si evolve e ruota in una certa direzione, anche l’arte, la comunicazione, il cinema, il cibo e qualsiasi altro settore ne subiscano le conseguenze e cerchino di mettersi al pari. “Vecchie” istituzioni come quelle museali perderebbero la propria linfa vitale se smettessimo di frequentarle. E se le nostre abitudini ormai sono in parte immerse in realtà virtuali fatte di like e ricondivisioni, perché non seguire questa scia?

E poi, “Chi decide cosa censurare? Instagram censura le immagini e a volte non lo sai nemmeno: è molto poco trasparente. Vogliamo solo chiederci: abbiamo bisogno di queste limitazioni?”. A decidere sono probabilmente gli algoritmi, meccanismi a cui è difficile attribuire una colpa se non pensando a chi li ha “tarati”. Soprattutto se questa persona fonda le proprie consapevolezze su pregiudizi di varia natura, gli stessi contro cui il movimento Free The Nipple, ad esempio, lotta dal 2013. Perché i social censurano solo i capezzoli femminili e non quelli maschili? E da allora non è cambiato molto.

Nel 2018 anche il Leopold Museum aveva provato a promuovere con manifesti in Germania, nel Regno Unito e negli Stati Uniti la collezione di nudi di Schiele, ricevendo grosse critiche. L’ente del turismo in questione, in maniera provocatoria aveva reagito così: coprendo con un banner le parti dei manifesti con seni e genitali. E quel banner recitava così: «SCUSATE, abbiamo più di 100 anni ma siamo troppo audaci ancora oggi».

[di Gloria Ferrari]

Russia: incendio in fabbrica di polvere da sparo provoca 15 vittime

0

Un incendio verificatosi all’interno di una fabbrica di polvere da sparo nella città russa di Lesnoy, situata nella regione di Ryazan, ha provocato la morte di 15 persone. Il ministero della Salute della regione, infatti, ha confermato il bilancio dell’incendio: lo riporta il gruppo operativo del governo regionale, citato dall’agenzia di stampa Interfax.

Il governo cileno schiera l’esercito contro la lotta degli indigeni Mapuche

0

Giovedì 14 ottobre il Presidente del Cile Sebastiàn Piñera (citato spesso dalle cronache recenti per il suo coinvolgimento nello scandalo dei Pandora Papers) ha ordinato che 4 province del suo Paese siano sottoposte a 15 giorni di stato di emergenza, in seguito agli episodi di violenza verificatisi per mano di membri di movimenti appartenenti alla comunità indigena Mapuche. “Ci sono state gravi alterazioni all’ordine pubblico nelle Province di Bio-Bio, Malleco e Cautin appartenenti alla Regione della Araucania”, ha dichiarato Piñera, riaccendendo i riflettori su un conflitto di lunga data tra il gruppo indigeno mapuche e il governo del Cile.

Un provvedimento che ha consentito al governo di schierare i propri soldati nelle regioni interessate, con l’intento di sostenere la polizia locale e mantenere la pace. “I gruppi armati della zona hanno commesso ripetuti atti di violenza legati al traffico di droga, al terrorismo e alla criminalità organizzata”: sono queste le accuse che il presidente ha rivolto agli indigeni, giustificando il suo intervento. Nei giorni precedenti le organizzazioni mapuche si erano radunate per le vie di Santiago in una marcia di protesta che si è conclusa con un violento scontro con la polizia. Una donna mapuche è morta, almeno 17 persone sono rimaste ferite e altre 10 arrestate.

Non è chiaro quanto di vero ci sia nelle accuse di Piñera, secondo cui i membri dei Mapuche sarebbero coinvolti in traffico di droga e criminalità organizzata. Sebbene siano stati riscontrati dei casi isolati, non esistono prove sufficienti a reputarlo un fenomeno diffuso. Di fatto i gruppi mapuche locali, in risposta, avevano già dichiarato a gennaio scorso di non avere a che fare con i fatti citati. Si tratterebbe, al contrario, di “persone esterne alle comunità che cercavano di introdurre droghe e cattive pratiche”.

Quando parliamo di Mapuche, ci riferiamo ad un gruppo indigeno che rappresenta circa il 12% della popolazione cilena, costituita da quasi 20 milioni di individui: percentuale che lo rende il più grande gruppo indigeno del Cile. La loro è una battaglia nota ormai da anni, e il cui fulcro si snoda in un paio di punti: richiesta di autodeterminazione e ripristino delle loro terre ancestrali, in particolare nel sud del Paese. I leader mapuche, infatti, credono che i territori che in origine gli appartenevano e che ora sono di proprietà di agricoltori e compagnie forestali, dovrebbero essergli riassegnati. Soprattutto perché si tratta di appezzamenti che celano al loro interno grosse quantità minerarie, fra cui l’oro, ad esempio. Motivo che li rende soggetti a continue espropriazioni da parte di imprese in accordo con il governo locale e sversamenti di sostanze nocive come il mercurio, che a contatto con l’acqua diventa pericoloso per la salute umana e non.

La lotta Mapuche è proverbiale e spesso presa come esempio per battaglie simili, portate avanti da altri indigeni della terra. Neppure i colonizzatori spagnoli furono in grado di assoggettarli. Fu solo dopo l’indipendenza del Cile, nei primi anni dell’800, che lo stato cileno stesso prese il controllo su di loro e sulla loro terra. Da allora gli episodi di violenza si sono susseguiti con costanza nel tempo, insieme ad ingiustizie e abusi. Ad esempio nel 2017, otto Mapuche sono stati imprigionati con l’accusa di aver organizzato attacchi nella regione. In seguito, però, si scoprì che le prove a favore della loro colpevolezza erano state “costruite” ad hoc dalla polizia. Per questo motivo nel 1993, durante il Governo di Ricardo Lagos, il Cile approvò una legge che prevedeva dei ricchi risarcimenti a favore dei Mapuche, a cui si aggiungeva la promessa di porre particolare attenzione nella cura e nella conservazione della parte archeologica e culturale della tradizione indigena. Programmi che, inutile dirlo, non sono mai stati rispettati.

“Non scenderemo a compromessi sulle nostre rivendicazioni territoriali e politiche. Anche se questo implica tutto l’odio e tutta la persecuzione che lo stato e il sistema ci stanno dando”, ha detto a EFE Héctor Llaitul, un importante leader mapuche. La lotta continua.

[di Gloria Ferrari]

Sorpresa: più deficit e il Pil sale, ma Draghi prepara il campo al ritorno dell’austerità

1

Come ogni fine anno, per il governo è tempo di prospettive e grandi manovre. Il 29 settembre è stata presentata la nota di aggiornamento al DEF (Documento programmatico di economia e finanza), mentre il 20 ottobre il governo ha presentato alle Camere la legge di bilancio per il 2022, che dovrà essere approvata entro dicembre. I due testi sono ovviamente legati. Il primo serve a delineare il quadro macroeconomico entro cui ci si muoverà fino al 2024, mentre la legge di bilancio indica le risorse precise che vengono impiegate sui singoli provvedimenti per l’anno prossimo ed eventualmente per gli anni successivi se su un capitolo di spesa è prevista una proroga.

Abbiamo appreso che la manovra 2021 costa 23 miliardi e contiene tra le varie cose riduzioni fiscali, incentivi per Pmi e Industria 4.0, il rifinanziamento del reddito di cittadinanza (in una forma probabilmente ristretta e ancora da decidere), del superbonus edilizio al 110% e di quelli al 65 e 50% per i condomini. Misure di sostegno anche alle case popolari. Aumentati gli investimenti pubblici. Fa capolino la riforma delle pensioni, ma in merito si discuterà ancora perché la Lega vuole vederci chiaro.

Sebbene sia una manovra generosa, da segnalare il peso deludente della spesa per la sanità, aspetto che L’Indipendente aveva già segnalato in questo articolo. In tre anni vengono stanziati in tutto 6 miliardi (una cifra assolutamente standard per l’Italia degli ultimi tempi), e dai 129 complessivi spesi nel 2021, si passerà a 123 miliardi nel 2023. Dunque si taglia invece che incrementare. Decisamente un controsenso, vista la situazione pandemica e la consapevolezza ormai acquisita che sulla sanità bisogna investire molto di più.

Debito e Pil. Cosa c’è da evidenziare

A balzare all’occhio è sicuramente l’impostazione espansiva anche da parte del governo Draghi. Nonostante, per cause di forza maggiore, il bilancio nel 2021 si attesterà su un deficit del 9,4%, l’esecutivo punta a un deficit alto anche nel 2022, al 5,6%, poi si comincerà a ridurre nel 2023 (3,9%), fino ad arrivare alla neutralità dei parametri europei nel 2024. Il risultato? Forse è sorprendente per chi non è avvezzo a certi concetti macroeconomici. Ma è scritto nero su bianco che ci si aspetta una riduzione del debito pubblico. Passerà dal 155,6% del 2020 al 153,5% nel 2021. Ancora giù nel 2022 al 149%, fino ad arrivare al 147% nel 2023. Crescerà anche il Pil. Stimato al 6% nel 2021 e al 4,7% nel 2022. Quindi a fronte di maggior deficit il debito pubblico può scendere? Proprio così. Si sa infatti che il debito è misurato in rapporto al Pil, e se questo aumenta più del deficit anche grazie alla maggior spesa statale, il disavanzo dello Stato sarà destinato a ridursi. La congiuntura favorevole è data anche dalla conferma che la Bce manterrà largo il suo bilancio, favorendo un minor costo degli interessi sui titoli del debito. L’inflazione sarà più alta rispetto agli ultimi tre anni (2% in media). Ma, badate bene, regola macroeconomica vuole che a maggiore inflazione corrisponda la diminuzione del peso debitorio.

L’altra faccia della medaglia

La spinta purtroppo è destinata a finire. Perché le maglie del Patto di Stabilità non saranno larghe per sempre. Nel Def si fa appunto riferimento all’obiettivo di riportare gradualmente il rapporto Debito-Pil il più possibile vicino al 60%, come vuole Bruxelles. Inoltre non si può rischiare di bruciare i fondi del Pnrr. I prestiti dovranno essere restituiti e se alla fine le stime sul Pil deluderanno, bisogna stare al sicuro sulle disponibilità di cassa. Al Pnrr sono condizionate riforme precise chieste dalla Commissione europea. Una è quella del fisco, che si sta approntando, un’altra è quella delle pensioni. Nella legge di bilancio infatti sono apparsi riferimenti generici alla previdenza. Quota 100 è al tramonto. La spesa per pensioni andrà alleggerita e si pensa all’anticipo pensionistico (Ape) con la sola quota contributiva a 63 anni d’età. Così si risparmia, poi si tratta di anticipi di cassa e per questo, di fatto, il costo è zero. Sul tavolo anche l’allargamento dell’Ape sociale, sempre a costo zero. La coperta, insomma, si allarga ma si prepara a restringersi nuovamente. I dati confermano quanto gli economisti contrari all’austerità propongono da anni: la spesa pubblica è la strada per uscire dalla crisi perpetua, ma le istituzioni europee sono ancora guidate da liberisti e fautori dell’austerità, dei quali Mario Draghi è fiero rappresentante ed esecutore.

[di Giampiero Cinelli]

 

 

 

Biden: Stati Uniti difenderanno Taiwan in caso di attacco della Cina

0

Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, durante un dibattito trasmetto dalla Cnn ha affermato che gli Usa difenderanno Taiwan da un eventuale attacco da parte della Cina. A tal proposito, il presidente ha precisato che «gli Stati Uniti hanno preso un sacro impegno per quel che riguarda la difesa degli alleati della Nato in Canada e in Europa» e che «vale lo stesso per il Giappone, per la Corea del Sud e per Taiwan». È così arrivata la reazione della Cina, che ha risposto a tali affermazioni invitando alla prudenza e chiarendo, però, che su Taiwan «non vi sono margini per compromessi».

Francia: il Parlamento approva la proroga dell’emergenza fino a luglio 2022

0

Mentre diversi paesi europei si muovono verso un ritorno alla normalità e alla revoca delle norme speciali, la Francia ancora una volta cammina in senso opposto, mostrando una delle vie più rigide e autoritarie nella gestione della pandemia. L’Assemblea Nazionale, ovvero il parlamento francese, ha approvato il disegno di legge “Vigilanza sanitaria”, che estende lo stato di emergenza sanitaria fino al 31 luglio 2022 e sancisce che fino a tale data potrà rimanere in vigore il passaporto sanitario. Il provvedimento è stato adottato con soli 10 voti di differenza, 135 voti favorevoli e 125 contrari, dopo due giorni di intensi dibattiti caratterizzati anche da accesi scontri tra maggioranza e opposizioni sia di destra (Rassemblement National) che di sinistra radicale (France Insoumise). Il testo approderà al Senato il prossimo 28 ottobre per ottenere l’approvazione definitiva prima di diventare legge.

L’esecutivo ha presentato la proposta di legge come una semplice “cassetta degli attrezzi” che consentirà di prendere le misure giuste per fronteggiare eventuali nuove ondate pandemiche. Lo stato di emergenza prorogato al luglio ’22 finirebbe per attraversare i prossimi appuntamenti democratici del Paese, interessando sia le prossime elezioni legislative che quelle parlamentari. Un motivo in più, racconta la testata France 24, per alimentare le proteste delle opposizioni. Il partito di sinistra radicale France Insoumise, in particolare, denuncia una svolta autoritaria del governo Macron. Dall’inizio dell’emergenza Covid sono state diverse le misure contestate introdotte dal governo: dalla legge di “Sicurezza globale” che introduce il reato penale contro chiunque diffonda immagini in grado di «danneggiare l’integrità fisica e morale» degli agenti di polizia; alla norma sul green pass che a differenza di quanto previsto negli altri paesi europei prevede risvolti penali con il rischio del carcere per chi entra in locali pubblici senza esserne in possesso.