martedì 11 Novembre 2025
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Il Sudafrica vuole scaricare rifiuti tossici nell’Oceano Indiano

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Le autorità sudafricane stanno progettando di gettare nell’oceano ingenti quantità di sostanze tossiche, potenzialmente letali per la fauna marina. Lo riporta Mongabay, che spiega come il 23 ottobre 2021 i fertilizzanti e le sostanze chimiche industriali trasportate dalla nave NQ Qingdao siano entrate in contatto con l’acqua piovana durante le operazioni di scarico nel porto di Durban, in Sudafrica, causando il rilascio di fumi tossici. A 3 mesi di distanza il governo non ha saputo elaborare una soluzione per lo smaltimento delle sostanze e starebbe pensando di scaricare tutto nell’oceano, sostenendo che si tratti dell’opzione migliore dal punto di vista ambientale, sociale ed economico. Secondo numerose associazioni di attivisti non vi sono dati a supporto di questa tesi. Tra i rifiuti tossici della NQ Qingdao vi sono sostanze classificate dall’ONU come nocive per la vita marina, che costituirebbero quindi un enorme rischio per la biodiversità presente nella zona selezionata per lo scarico.

Covid: la Danimarca annuncia l’eliminazione di tutte le restrizioni

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La Danimarca si prepara ad eliminare tutte le restrizioni adottate durante la pandemia da Covid-19 a partire dal 1° febbraio 2022. La decisione, comunicata dal ministro per la Salute Magnus Heunicke, è stata adottata previa consultazione con il Comitato epidemiologico del Parlamento, che avrebbe stabilito non essere più necessario classificare il Covid-19 come “malattia socialmente critica”.

Il 20 gennaio scorso il ministro per la salute danese Magnus Heunicke ha incontrato il Comitato epidemiologico per una valutazione della pandemia in Danimarca alla luce degli ultimi sviluppi. La Danimarca avrebbe infatti registrato nelle ultime settimane un’impennata nei contagi, ma a diffondersi sarebbe una sottovariante di Omicron, la BA.2, che rappresenterebbe circa la metà dei casi secondo l’istituto di ricerca sulle malattie infettive Statens Serum Institut. Tuttavia, secondo quanto rilevato dal Comitato epidemiologico, i contagi dovuti alla nuova variante non comportano la necessità di ospedalizzazione quanto le precedenti varianti, dal momento che manifestano una sintomatologia molto lieve.

In ragione di queste rilevazioni, il Comitato ha decretato che il Covid-19 non dovrebbe più essere classificato come “malattia socialmente critica” e che non vi è più ragione di applicare le restrizioni dovute alla pandemia dopo il 31 gennaio 2022. I partiti del Parlamento sarebbero anche d’accordo per un “significativo rilassamento” delle restrizioni adottate nel contesto dei viaggi. La decisione è stata comunicata in una lettera del ministro Heunicke, che ha anche specificato come, a partire dalla data in cui il Covid-19 non sarà più classificato come “malattia socialmente critica”, le disposizioni della legge sulla pandemia non saranno più applicabili, in quanto verrà a mancare la base giuridica che le rende necessarie. Fine delle restrizioni, insomma, e progressivo e cauto avviarsi verso un ritorno alla normalità.

Come la Danimarca, altri governi stanno mettendo in atto un allentamento delle restrizioni in seguito al diminuire del tasso delle ospedalizzazioni. Tra questi, l’Irlanda e l’Inghilterra, dove il primo ministro Boris Johnson ha decretato la fine dell’obbligo per gli studenti di indossare le mascherine nelle scuole.

[di Valeria Casolaro]

Un nuovo dispositivo permetterà ai ciechi di percepire il mondo a infrarossi

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Alcuni ricercatori dell’Università tecnica di Monaco (TUM) stanno lavorando a un dispositivo per aiutare i non vedenti a percepire lo spazio intorno a loro. Lo strumento, formato da un paio di occhiali a infrarossi e da due cuscinetti da indossare sugli avambracci, riuscirebbe a mappare l’ambiente circostante e a segnalare eventuali ostacoli attraverso delle vibrazioni. Si tratta di un’invenzione importantissima che potrebbe andare a sostituire il classico bastone il quale, sebbene permetta un buon rilevamento degli oggetti nelle immediate vicinanze consentendo a chi lo usa di orientarsi, non rende in grado di percepire gli ostacoli più lontani.

Il nuovo dispositivo, invece, ha tutte le carte in regola per rivoluzionare la vita degli ipovedenti, poiché non implica l’utilizzo delle mani e non interferisce con l’udito del soggetto, senso ampiamente utilizzato da chi è privo della vista. Questo è dotato di una coppia di telecamere a infrarossi inserite in prototipi di occhiali stampati in 3D, le quali catturano un’immagine stereoscopica dell’ambiente circostante e la inviano a un piccolo computer. Sulla base di questi dati, il computer crea una mappa dell’area circostante e, se rileva un ostacolo, informa il soggetto facendo vibrare il manicotto tattile posizionato sull’avambraccio. 

Una caratteristica peculiare degli occhiali è l’aumento graduale dell’intensità della vibrazione man mano che l’ostacolo si avvicina, affinché l’utente possa interpretare facilmente se questo, osservato dagli occhiali, sia vicino o lontano. Ad esempio, come spiegato dagli esperti, un corridoio particolarmente stretto indurrà i cuscinetti indossati a generare forti vibrazioni, le quali diminuiranno nel momento in cui ci si allontanerà dall’ambiente particolarmente circoscritto. Non solo. Il vantaggio dell’utilizzo degli infrarossi risiede nella capacità del dispositivo di funzionare anche di notte e in ambienti privi di illuminazione. Durante i test effettuati dai creatori, i volontari sono stati in grado di rilevare ed evitare tutti gli ostacoli sul loro cammino con una precisione del 98%. Un buonissimo risultato, considerando il prossimo obiettivo degli scienziati: introdurre il controllo vocale, caratteristica che trasformerebbe gli occhiali a infrarossi in un vero e proprio “navigatore”.

[di Eugenia Greco]

Libia sollecita Italia a riprendere progetti cooperazione per la sicurezza

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Durante un incontro svoltosi il 25 gennaio con l’ambasciatore italiano in Libia il sottosegretario degli Esteri libico Omar Keti ha invitato le aziende italiane a riprendere i progetti lasciati in sospeso in Libia, che sarebbero funzionali alla “lotta all’immigrazione illegale”. Lo riporta Sicurezza Internazionale. L’incontro precede il secondo vertice del Comitato italo-libico di febbraio, che prevede l’attivazione di diversi protocolli di intesa, soprattutto nel settore dell’elettricità e dei trasporti. In particolare è stata sollecitata la ripresa dei lavori per terminare la strada costiera, che avrebbe un costo totale di 5 miliardi di dollari interamente a carico dell’Italia, secondo quanto previsto da precedenti accordi bilaterali. L’Italia contribuirà anche al progetto di ricostruzione dell’aeroporto di Tripoli. Keti ha sottolineato come questi interventi siano fondamentali per contrastare l’immigrazione clandestina.

Recensioni indipendenti: La Carovana Bianca (documentario)

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È notte, in sottofondo si sentono suoni indefiniti come di prove strumenti. Un fascio di luce, come un occhio di bue sul palcoscenico, si muove illuminando alcuni dettagli all’esterno di un accampamento, roulotte, piccole finestre appena illuminate e recinti con animali assonnati, come a cercare qualcosa o qualcuno che entri in scena. D’un tratto, sfavillante si accende un’insegna rossa, luminosissima, GRAN CIRCUS per spengersi al colpo di un crash di batteria, poi buio. Inizia cosi “La Carovana Bianca”, presentato al  62° Festival Dei Popoli di Firenze e al recente festival del cinema neorealistico Laceno d’oro di Avellino. Questo documentario di 68 minuti, autoprodotto, diretto e montato da Artemide Alfieri e Angelo Cretella, ci introduce quasi in punta di piedi in un piccolo gruppo di famiglie circensi, storicamente e culturalmente nomadi, accampati in uno spiazzo sterrato della periferia napoletana e costrette a chiudere il sipario e fermarsi lo stesso giorno dell’inizio degli spettacoli e dove, nell’abbandono delle istituzioni e nell’assoluta incertezza, vivono e sopravvivono al primo lockdown della storia dell’uomo moderno.

Girato con estrema semplicità e attrezzature ridotte volutamente al minimo, i due registi condividono, durante i sessanta giorni di riprese, quella realtà e riescono a restituircela nuda e cruda così come la vediamo. Lo spazio delimitato in cui coabitano le famiglie, si presta particolarmente bene a spiegare una dimensione in cui il tempo pare essersi fermato, rendendoci partecipi di un microcosmo sconosciuto, dove un’ arte e uno stile di vita, tanto radicati nel tempo, si scontrano con una nuova inattesa condizione. Le macchina da presa con un stile neorealista strettamente legato all’attualità, segue ogni una di queste famiglie nel loro privato mostrando gli interni delle roulotte, le azioni e i piccoli gesti di una quotidianità reinventata.

A turno ogni uno accudisce gli animali, i più piccoli seguono le lezioni scolastiche da casa e ogni tanto provano, un po’ impacciati, semplici esercizi circensi. Gli uomini si occupano della manutenzione ordinaria delle varie strutture del circo, le donne come a non voler pensare si organizzano e fanno cose che in una situazione normale non avrebbero mai fatto così accuratamente come organizzare le comunioni dei bambini o festeggiare il Natale, ma con una vena di malinconia che si mescola alla speranza che sia tutto un sogno e che tutto ritorni il più velocemente possibile alla normalità. Altri e soprattutto i più giovani, con il trascorrere del tempo relegati in questo limbo, pensano che sia tutto finito e iniziano a chiedersi se vale la pena continuare quella vita e che forse sarebbe meglio avere una vita normale, studiare, trovare un’attività diversa, lavorare magari in un bar anche se questo potrebbe mettere a repentaglio l’unione familiare e una continuità che dura da generazioni. L’emergenza sanitaria ha prodotto una reazione a catena così sistematica e così grave da incidere pesantemente sulla vita di tutti ma principalmente su settori precari e già fragili che rischiano fortemente di scomparire per sempre.

“La Carovana Bianca” è un film che mostra un contesto, quello circense, del tutto privato di quell’aspetto festoso e colorato che è nell’immaginario collettivo ma con un finale che suggerisce l’accendersi di una speranza: la nascita di una nuova vita ne è la simbolica rappresentazione. E come dice uno dei protagonisti «Che lo spettacolo viaggiante riprenda al più presto con grande successo di pubblico». Pur comprendendo le opinioni contrastanti che qualcuno può avere sul circo e il suo mondo, questo film più che come un semplice documentario va visto come una vera e propria testimonianza di come un piccolo universo con un’antica tradizione ha vissuto un determinato momento, quello della pandemia, che ormai fa parte della storia dell’uomo.

[di Federico Mels Colloredo]

Stop finning: l’iniziativa dei cittadini europei per salvare gli squali

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Stop Finning Stop the Trade è ciò che stanno chiedendo i cittadini alla Comunità europea, visto che l’UE rappresenta uno dei maggiori esportatori di pinne di squalo. Eppure esistono regole a riguardo che vietino il trasporto di pinne di squalo a bordo delle navi e delle acque Europee. Gli squali, quando sbarcati, devono ancora avere le pinne attaccate e solo quando arrivati al porto di destinazione, possono essere spinnati, in quella che è una pratica disumana. Perché quando si parla di finning (il cosiddetto “spinnamento”) si parla proprio della truce asportazione delle pinne degli squali mentre essi sono ancora vivi. Un atto barbaro e spietato attraverso cui l’animale incontra ovviamente la morte, dopo inaudibili sofferenze.

Quando vengono catturati, gli squali vengono spinnati e, alle volte, rilanciati immediatamente in mare. Da lì a poco, le vittime si spengono dopo atroci sofferenze e un macabro spettacolo sanguinoso in mare. È dal 2013 che la Comunità Europea ha scelto di intervenire per mettere fine a una pratica tanto nefanda, vietando il finning sui pescherecci. Ma come denunciato dai cittadini europei che hanno dato vita alla raccolta firme (la quale chiuderà il 31 gennaio 2022) l’Unione Europea continua ad essere al centro dello sfruttamento di questi animali così come attrice di una pratica da condannare. Come viene precisato nella petizione, le ispezioni in mare sono purtroppo rare ed è risaputo quanto le pinne siano tuttora conservate. L’unica differenza è che vengono conservate illegalmente.

Sta dunque prendendo vita lo stesso processo che accadeva prima del 2013, solo che non è più effettuato alla luce del sole. Le pinne vengono conservate, trasbordate o sbarcate nell’UE, perché i pescherecci in questo modo risparmiano spazio per altre specie, rimanendo con le sole pinne di squalo mentre il corpo viene gettato in mare. Attraverso la petizione si chiede non solo l’estensione del Regolamento (UE) n.605/2013, ma l’elaborazione di un nuovo regolamento che salvaguardi a tutto tondo gli squali e non sia solo finalizzato a impedire lo spinnamento nelle acque europee. Per ora i firmatari sono più di un milione e sembra che si sia vicini alla salvaguardia completa degli squali, visto che si chiede la fine di ogni forma di commercio di squali e razze nel territorio dell’Unione Europea.

[di Francesca Naima]

A sarà düra! Storie di ostinata resistenza tra le valli di Susa

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La prima domenica dell’anno in Val di Susa è avvolta da una patina di calma apparente. La statale 25, che congiunge Torino sino al Moncenisio, serpeggia tra paesi avvolti nella pigra quiete domenicale. Tuttavia, lungo la strada numerose camionette delle Forze dell’Ordine mi sfilano a fianco. Poco più avanti, tra San Didero e Bruzolo, l’ingresso di quello che forse un giorno diventerà il cantiere del nuovo autoporto è presidiato da decine di agenti, che passeggiano su e giù pigramente al di là delle recinzioni e del filo spinato. Vi è anche un camion per il trasporto degli idranti. Il presidio No Tav, sorto proprio lì di fronte, è deserto. A Chiomonte, mentre mi trovo all’esterno del cantiere per fotografare il murales Alta voracità vengo immediatamente fermata dalle Forze dell’Ordine che presidiano la zona. Chi è lei? Cosa stai fotografando? È sua la macchina? Prego favorisca i documenti. Scusi ma ho fatto qualcosa? È vietato stare qui? No assolutamente, normali controlli. Eppure di normale non vi è proprio nulla.

Il murales Alta Voracità di fronte all’ingresso del cantiere di Chiomonte

«Qua succede in continuo, è una cosa normale» afferma Giulia, attivista del Comitato giovani No Tav di Bussoleno, quando le racconto l’accaduto. Mi spiega che nei pressi del cantiere di Chiomonte si trova il presidio dei Mulini, inaugurato nel 2020 e molto attivo sul fronte delle iniziative di sensibilizzazione nei confronti della causa No Tav. «Cercano di identificare chiunque si trovi in zona, per scoraggiare dal venire in questi posti. Ma questo è il nostro territorio, sul quale noi rivendichiamo la libera circolazione, non può essere che qualcuno venga a chiederti i documenti mentre vai a fare una passeggiata nel bosco».

Giulia, originaria di Torino, ha 27 anni e dal 2015 vive in Val di Susa. Come lei sono tantissimi i giovani che hanno deciso di legarsi a questa causa, molti addirittura provenienti dalle scuole superiori. «Organizziamo molte attività il cui scopo è la sensibilizzazione e l’informazione, come il vin brulè, le apericene, presentazioni di libri, fiaccolate, castagnate, prima di Natale abbiamo organizzato una sorta di gioco dell’oca per la valle. Eppure nulla di tutto ciò fa notizia, sui giornali si legge del movimento sempre solo per raccontare che siamo dei violenti, e non è nemmeno vero». Anche personaggi come Zerocalcare o il cantante Willy Peyote hanno organizzato eventi al presidio dei Mulini, proprio per tenere alta l’attenzione sul territorio.

Era il 1988 quando in Val di Susa arrivano i primi echi di un progetto la cui necessità già allora si stentava a comprendere: la Francia voleva ampliare la propria rete ad alta velocità con la linea Grenoble-Torino, che sarebbe transitata attraverso il Monginevro. Sono trascorsi trentatré anni da allora, durante i quali è nato uno dei movimenti di resistenza popolare più ostinati e longevi che la storia italiana recente conosca. Il movimento No Tav nasce spontaneamente come risposta alla tendenza di una classe politica a prendere decisioni ignorando del tutto la volontà popolare.

Le ragioni dell’opposizione grande opera sono semplici: i costi, in termini non solo di soldi per i contribuenti ma anche di peggioramento della qualità della vita e devastazione del territorio, sono di gran lunga superiori ai benefici. Secondo le proiezioni, infatti, il traffico di merci attraverso il valico è in costante calo dal 1999, ragion per cui un’opera come la Tav non trova ad oggi giustificazione per la sua realizzazione.

Ciò che i sostenitori dell’Alta velocità hanno visto realizzarsi, in trent’anni, non è poi molto: a malapena è stata ultimata la costruzione di 8 km di tunnel geognostico, necessario per realizzare gli studi sulla fattibilità del progetto analizzando la composizione del terreno e delle rocce. Del tunnel di base, lungo 57,5 km e a due canne, per il momento non se ne parla. L’area del cantiere di Chiomonte, dove dovrebbero avere inizio gli scavi, è un gigantesco perimetro militarizzato presidiato giorno e notte dalle Forze dell’Ordine, all’interno del quale i lavori procedono a singhiozzo da anni e principalmente su opere collaterali.

Nel luglio 2021 la Francia ha terminato le gare d’appalto per l’inizio dei lavori sul versante francese, mentre a settembre l’Italia è stata bacchettata dall’Europa, che ha cercato di dare una stretta sui tempi. Il viceministro alle infrastrutture Morelli ha sottolineato come le procedure siano in perfetto orario e come «Il governo italiano chiaramente ha la Tav tra le proprie priorità». Semmai, i problemi sono di ordine pubblico. Un leit motiv che ogni governo ha ripetuto, da 30 anni a questa parte, che regge il gioco a quell’abitudine tutta italiana di costanti rimandi e rinvii quando si parla di grandi opere (mai sentito parlare del ponte sullo Stretto? E della Salerno-Reggio Calabria?).

Incontro Giulia e Francesco in un bar di Bussoleno lunedì mattina. Il calore primaverile del sole sulla pelle, per quanto piacevole, è anomalo in questo periodo dell’anno. «Ieri qui a Bussoleno abbiamo registrato una temperatura di 16 gradi: non è una cosa normale in questo periodo in Val di Susa» mi dice Giulia. Francesco fa parte del Comitato lotta popolare ed è lui a raccontarmi, fumando una sigaretta dopo l’altra, la storia dietro la costruzione dell’autoporto di San Didero, ad oggi il fronte caldo della lotta No Tav.

Mappa della zona dell’autoporto di San Didero, su gentile concessione del sito notav.info

Il primo autoporto è stato costruito negli anni ’80 nella zona di San Didero, ma con l’arrivo dell’alta velocità Torino-Lione, tuttavia, il cui cantiere sorge in un’area limitrofa a Chiomonte, sorge il problema del gestire l’enorme quantità di materiale che verrà estratto dalla montagna (il cosiddetto smarino) quando verrà scavato il tunnel di base. Si decide di costruire un nuovo autoporto a Susa, nonostante San Didero disti appena 16 km, devastando ulteriormente la valle con una grande colata di cemento.

Ora, ironicamente, l’autoporto verrà nuovamente spostato a San Didero, per lasciare spazio alla costruzione dell’imponente stazione internazionale dell’Alta Velocità di Susa. Il cantiere avrà un’estensione di 68 mila metri quadri e costerà 47 milioni di euro. Nessuno studio sulla previsione di passaggio è stato fatto, mentre è chiaro che il traffico di merci è in calo costante dal 1999, sia attraverso la ferrovia che su gomma attraverso l’autostrada. Solamente per la messa in sicurezza del cantiere, ovvero per l’acquisto di recinzioni, filo spinato, videocamere di sicurezza e quanto possa scoraggiare l’avvicinamento degli oppositori, la spesa si aggira intorno ai 5,3 milioni di euro.

Ingresso dalla statale del “fortino” di San Didero: alle spalle si trova l’area dove verrà realizzato il cantiere dell’autoporto
Striscione del presidio No Tav di San Didero, sorto di fronte al cantiere

A fronte dell’insensatezza delle decisioni che hanno portato al devastamento della valle, mi pare semplice comprendere la rabbia dei valsusini. Di opere che ne hanno sventrato la bellezza ve ne sono ovunque: basti guardare i viadotti autostradali della A32, mostri in cemento e acciaio per la cui realizzazione sono stati espropriati i terreni dei residenti e, anche per quelli che sono rimasti, hanno comportato un’enorme perdita di valore delle terre e di quanto vi veniva prodotto, secondo quanto mi spiega Francesco. Il rumore prodotto dal traffico che vi transita è udibile fino alla frazione di Santa Chiara, a 1500 metri di altitudine, dove mi reco per avere una visione dall’alto dell’area del cantiere di Chiomonte.

Il tratto della A32 sotto la quale si trova il cantiere della linea Torino-Lione

La tematica della devastazione ambientale e del futuro della valle è il motore primario che spinge i giovani all’attivismo. «Abbiamo un cantiere che emetterà tonnellate di CO2 già solo in fase di costruzione e altrettante quando sarà costruito e non toglierà i tir dalla strada perché stiamo costruendo un autoporto proprio per il trasporto su ruota. Il caso della Tav è emblematico per capire come affrontano oggi le crisi climatiche» afferma Giulia. «Il futuro è legato ai giovani e ora come ora le prospettive non sono delle più rosee. Ci troveremo un territorio devastato e un’area irrespirabile, perché lo smarino portato su e giù per la valle non fa particolarmente bene, quindi come giovani si sente l’urgenza di intervenire su queste cose. Alla fine quelli che pagheranno le conseguenze di tutto questo siamo noi. Inoltre molti dei giovani del movimento No Tav sono figli o nipoti di altri militanti, quindi l’intergenerazionalità fa intrinsecamente parte del movimento».

Prima di rientrare a Torino mi reco ancora in uno dei luoghi storici per la lotta No Tav. Dopo aver superato Susa imbocco la provinciale sulla destra, in direzione di Venaus. In pochi minuti mi trovo sulla destra lo storico presidio. Si tratta di un punto di riferimento per tutti coloro che fanno parte del movimento nella valle e in Italia, ma anche per chi si trova in zona solamente di passaggio. Un muro all’esterno, ricoperto di adesivi, traccia il passaggio di questi pellegrini. Appena mi avvicino arriva ad accogliermi Fulvio, storico militante del movimento, un uomo sui settant’anni traboccante di energie. Mi mostra orgogliosamente il presidio, narrandomi per filo e per segno la storia della sua nascita. Da come viene dipinta nel suo racconto, la storia della marcia su Venaus del 2005 non ha nulla da invidiare alle più grandi rivolte descritte nei libri di storia.

«Sono scese 30 mila persone dai boschi, per ritrovarsi tutti qui, a lottare per i nostri diritti» racconta fieramente Fulvio, che all’evento era presente. «Alla fine, le Forze dell’Ordine sono dovute andare via: siamo riusciti a fermare i lavori, siamo riusciti a riprenderci la valle». Gli occhi gli si illuminano di orgoglio. Poi mi invita ad entrare, per stare al caldo e bere un caffè.

Il presidio No Tav di Venaus

Le pareti, all’interno, sono coperte di libri e giochi da tavolo. Una stufa al centro della stanza diffonde un tepore accogliente. Ci accomodiamo al lungo tavolo, un paio di cani ci girano intorno scodinzolando. Mentre fuori il buio del pomeriggio invernale ingoia velocemente i boschi ed il crinale della montagna, Fulvio mi racconta degli anni di militanza nel movimento. La sua analisi del significato delle rivendicazioni No Tav e delle modalità di lotta all’oppressione sono dure e lucide. «Quella con lo Stato non è una lotta ad armi pari. E quando l’apparato statale diventa oppressivo, noi non abbiamo altri mezzi per opporci se non i nostri corpi». Corpi che diventano il luogo della resistenza, che scrivono su di sè la storia della lotta, come fanno le cicatrici che Fulvio porta sul braccio.

Sul rapporto con le nuove generazioni, si mostra fiducioso, pur ammettendo che le motivazioni che spingono i giovani ad agire oggi non sono le stesse per le quali ha iniziato lui la militanza. «La lotta popolare operaia ormai non esiste più, viviamo in una società troppo frammentata, regna troppa incertezza. Sono cambiate anche le ideologie alla base dell’intero movimento: se una volta la lotta era mirata al fatto di non volere il treno oggi i giovani sono molto più concentrati sulle tematiche che riguardano la salvaguardia dell’ambiente, nuovi modi alternativi di vivere. È giusto che sia così, ma allo stesso tempo è qualcosa che anni fa non esisteva».

Parliamo ancora a lungo, anzi a parlare è soprattutto lui. Arrivato il momento di andare via, un moto mi trattiene: vorrei ancora domandare, parlare, sapere. Fuori ormai è buio, ma sui mostri di cemento che feriscono la valle sono ancora visibili le scritte “No Tav”.  Qualcuno ha riportato la famosa frase di Brecht, “Quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa dovere”. Lascio a malincuore il presidio per tornare verso Torino. E nella valle, la lotta continua.

[di Valeria Casolaro]

In diverse città italiane i cittadini sono in fila per denunciare Draghi

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In questi giorni in diverse zone d’Italia i cittadini si stanno recando presso le Procure della Repubblica o in alternativa presso le caserme delle Forze dell’Ordine con il fine di denunciare il governo Draghi, accusato del reato di violenza privata. Si tratta di un’iniziativa messa a punto dall’avvocato Marco Mori che, assieme al partito Italexit, ha messo a disposizione dei cittadini italiani un atto di denuncia precompilato che ognuno può facilmente scaricare e – dopo aver ovviamente inserito i relativi dati personali e la firma – consegnare.

Così, in diverse città gli italiani hanno aderito all’iniziativa. Tra queste c’è quella di Bologna, dove i cittadini – documento “unificato” alla mano – si sono recentemente messi in coda per sporgere denuncia nei confronti del Presidente del Consiglio Mario Draghi e dei ministri del suo governo, ma non solo. Anche a Como alcune persone hanno deciso di denunciare l’esecutivo ed infatti, come riportato da alcuni quotidiani locali, una dozzina di cittadini hanno depositato tra giovedì 20 e venerdì 21 gennaio presso la Procura di Como l’atto di denuncia. Va poi citata anche Biella, dove nella giornata di martedì scorso la sezione di Italexit della città ha depositato presso la caserma locale 47 denunce contro il governo Draghi.

I cittadini in fila per sporgere denuncia contro il governo presso la caserma dei Carabinieri di Bologna

Venendo poi nello specifico ai motivi della denuncia, ciò che i cittadini sostengono sottoscrivendo la stessa è che – come si legge sul sito web dell’avvocato Marco Mori – il Governo abbia imposto un vero e proprio «ricatto vaccinale», che «non solo è illegittimo» ma «è indiscutibile che costituisca reato». Quest’ultimo sarebbe appunto quello di violenza privata previsto dall’articolo 610 del Codice Penale, il quale stabilisce che «chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni».

Il testo dell’atto di denuncia, poi, contiene una lunga lista di 20 punti a sostegno dell’accusa fatta, all’interno dei quali, tra l’altro, vengono citate alcune delle misure adottate dal governo per contrastare l’emergenza sanitaria. Vengono dunque menzionati tutta una serie di provvedimenti con cui sarebbe stata attuata la «tecnica di spingere alla vaccinazione dietro minaccia», come quelli con cui è stato introdotto il green pass ed il super green pass – definito come un «obbligo vaccinale indiretto» – ma non solo.

Viene ad esempio fatta menzione dei decreti con cui è stato introdotto l’obbligo vaccinale per determinate categorie di lavoratori nonché del decreto con cui recentemente «si è ancora alzata l’asticella vietando il lavoro senza avere effettuato il vaccino o essere guariti dal Covid a tutti coloro che hanno più di cinquant’anni fino al 15 giugno 2022». Un «ricatto» che «non trova alcuna legittimazione neppure nell’art. 32 della Costituzione, norma che consente l’imposizione di trattamenti sanitari tramite legge, ma mai di trattamenti che siano lesivi del rispetto della persona umana». In tal senso, nell’atto di denuncia si legge che «vietare ad un cittadino di lavorare, così impedendogli di sopravvivere, è certamente contrario al rispetto della persona umana».

[di Raffaele De Luca]

Polonia: avviata costruzione muro anti-migranti al confine bielorusso

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La Polonia ha avviato nella giornata di ieri la costruzione di un muro al confine con la Bielorussia, con lo scopo di ostacolare l’ingresso di migranti irregolari, dopo la crisi dello scorso anno con Minsk. Lo si apprende da un Tweet della Straż Graniczna, la forza di polizia doganale della Polonia, nel quale si legge che «la Guardia di frontiera ha affidato i cantieri agli appaltatori». La recinzione, comunica inoltre la Straż Graniczna, sarà lunga 186 chilometri e costerà 1,6 miliardi di złoty, una cifra pari ad oltre 340 milioni di euro.

Cosa sta succedendo in Burkina Faso?

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Burkina-Faso golpe

Solo due settimane fa Kaboré, presidente del Burkina Faso, prendeva parte ad un vertice regionale per stabilire le sanzioni da imporre agli autori del golpe in Mali. Chi l’avrebbe detto che, a distanza di poco, sarebbe stato lui stesso a finire in mano all’esercito? L’annuncio della caduta di Kaboré e della sospensione della Costituzione locale è stato firmato dal tenente colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba, leader dei golpisti, e poi riferito alla stampa da un suo ufficiale. Nel comunicato militare si dice che l’intervento armato era ormai necessario per contrastare l’incapacità del Governo di far fronte ai problemi che il Burkina Faso sta affrontando.

Ancora una volta l’omicidio di Thomas Sankara – leader rivoluzionario locale, amato dalla gente, al potere negli anni ’80 – rivive nella storia del Paese, che non riesce ad uscire dalla morsa soffocante della dittatura.

In linea temporale, il Burkina Faso è la terza nazione della zona a vivere un colpo di stato nel giro di pochi mesi. Prima di lei Guinea e Mali. I golpe salgono a quattro se nel computo aggiungiamo anche la successione poco trasparente in Ciad, dopo la morte del presidente Idriss Déby, e forse anche cinque se consideriamo il Sudan, dove i militari tengono stretta per il collo la democrazia.

Perché così tanti? Perché questa instabilità? Anche se ogni Paese ha una storia a sé, la cui narrazione andrebbe contestualizzata negli anni, nel caso del Mali e del Burkina Faso è evidente che c’entri qualcosa la lotta contro il terrorismo jihadista. Una “malattia” che si è insinuata facilmente all’interno di Governi troppo fragili, generando malcontento fra la popolazione e nei confronti degli aiuti esterni, finiti per essere sostanzialmente irrilevanti (o addirittura controproducenti).

Nello specifico, la svolta decisiva per il Burkina Faso è da ricercare nel mese di novembre: in quei giorni un attacco jihadista sferrato nei confronti delle Forze armate del Paese ha ammazzato cinquanta gendarmi. Il punto di rottura non è stato la morte di quegli uomini, ma la gestione del presidente Kaboré. La sua cattiva condotta, insieme all’inattività dei ministri della difesa e all’assenza di strategie concrete ha portato fino a qui.

Quindi la soluzione è l’esercito? Alcune foto scattate in questi giorni ritraggono cittadini felici e soddisfatti della presa del potere da parte dei militari. La verità è che nemmeno i militari sono la risposta giusta, perché anche loro alla fine dei conti non sono momentaneamente dotati di una valida strategia.

D’altronde, non dobbiamo dimenticare che il Burkina Faso è una terra che accoglie sette milioni di uomini, il 98% dei quali non sa leggere né scrivere, dove 1 bambino su 5 muore prima di compiere cinque anni, con un solo medico ogni 50mila abitanti e un reddito pro capite che non arriva a 100 dollari l’anno. Numeri che contribuiscono a disegnare uno scenario in cui l’ideologia jihadista fa arrabbiare la popolazione, ma che allo stesso tempo recluta sempre più ragazzi locali, in fuga dalla disoccupazione e dall’emarginazione. Per non parlare poi “dei soliti” traffici illegali di armi, droga, e sfruttamento delle miniere d’oro.

Se non si interviene in maniera concreta, cambiando l’ordine degli addendi il risultato non muta.

[di Gloria Ferrari]