venerdì 19 Settembre 2025
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Veramente la cannabis è una medicina? Tutto quello che c’è da sapere

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Sì, la Cannabis è una medicina e lo è da migliaia di anni. Solo ora, però, man mano che la ricerca progredisce e le terapie si dimostrano sempre più efficaci, molti Paesi stanno modificando la legislazione per garantire ai cittadini un diritto fondamentale, quello alla salute. Ecco tutto quello che c’è da sapere sulla medicina più antica del Ventunesimo secolo.

Cosa si intende per cannabis terapeutica?

Quando si parla di Cannabis terapeutica o Cannabis Medicinale (CM) si fa riferimento all’utilizzo in medicina della pianta, presentata in diverse modalità, dalle infiorescenze agli oli, passando per colliri, compresse, creme, supposte ed estratti. La CM, per essere considerata tale, deve avere principi attivi standardizzati e rispettare tutti i passaggi previsti per l’approvazione dei farmaci, dalla coltivazione alla preparazione, così da fornire al paziente un prodotto non contaminato e con principi attivi ripetibili.

In questo contesto, la CM viene definita un fitocomplesso, ossia una pianta con un ricco insieme di componenti chimici naturali dalle proprietà terapeutiche e, dunque, non legata a un unico principio attivo. In particolare, a renderla un’importante risorsa medica sono gli oltre 100 cannabinoidi individuati al suo interno e i terpeni, più di 200 e suoi componenti principali noti come antisettici, antinfiammatori e ansiolitici. A questi si aggiungono i flavonoidi e altre sostanze.

Come la cannabis interagisce col nostro corpo

Nonostante l’elevato numero di principi attivi, sono due le componenti terapeutiche protagoniste: il cannabidiolo (CBD) e il Delta-9-tetraidrocannabinolo (THC), spesso stigmatizzato per i suoi effetti psicotropi, ma che, se assunto in dosi controllate, ha numerosi effetti positivi sull’organismo. Entrambi interagiscono con il sistema endocannabinoide: una rete di comunicazione tra le cellule del corpo umano che collega gli organi e le diverse zone contribuendo a gran parte delle sue funzioni vitali e, soprattutto, a mantenere l’equilibrio interno, detto omeostasi.

Nel sistema sono coinvolti tre attori: endocannabinoidi (cannabinoidi prodotti dall’organismo), recettori ed enzimi. I primi sono molecole che, al mutare delle condizioni, attivano i recettori che a loro volta innescano una reazione nelle cellule per mantenere l’equilibrio del corpo; gli enzimi, infine, hanno il compito di dissolvere ed eliminare le molecole non più necessarie al bilanciamento dell’omeostasi in modo che non si accumulino creando ulteriori danni o complicazioni.

Interagendo con il sistema endocannabinoide, CBD e THC possono contribuire al suo corretto funzionamento in caso di interferenze esterne o squilibri aiutando a moderare la sensazione di dolore, infiammazioni, ansia e stress o contribuendo alla sensazione di appetito o piacere. Attualmente sia i cannabinoidi che i farmaci oppioidi, come la morfina, vengono utilizzati nel trattamento del dolore, ma i secondi sono soggetti al rischio di abuso, una situazione che, secondo i dati del National Institute on Drug Abuse statunitense, ha coinvolto tra il 21% e il 29% dei pazienti e nel 2019 ha portato alla morte per overdose di circa 50.000 persone. Il numero è stato superato tra giugno 2019 e maggio 2020, quando gli USA hanno registrato un nuovo record di overdose: 81.000 vittime in 12 mesi. La Cannabis Medicinale si pone quindi come una valida alternativa, con risvolti positivi sia dal punto di vista terapeutico che sociale.

I principi attivi contenuti nella cannabis e i loro benefici

Le patologie trattabili con la cannabis

Le molte proprietà della Cannabis si rivelano utili per numerose condizioni e patologie. Le sue proprietà analgesiche, per esempio, sono importantissime per chi soffre di dolore cronico, fibromialgia, endometriosi o dolori mestruali; le proprietà anticonvulsivanti aiutano invece i pazienti affetti da epilessia e Parkinson; quelle ansiolitiche supportano in caso di insonnia, ansia o stress. Non solo, grazie alla capacità del THC di alleviare nausea e vomito, la CM viene utilizzata da decenni anche per controllare gli effetti della chemioterapia o delle terapie contro l’HIV. E questi sono solo alcuni esempi.

Agli utilizzi già consolidati si aggiungono quelli in fase di ricerca. Tra il 2020 e il 2021, infatti, gli studi sulla CM hanno raggiunto un picco, portando a nuove teorie e scoperte che potrebbero rivoluzionare il mondo della medicina. È il caso dello studio che ha analizzato il potenziale effetto del CBD contro il cancro grazie all’azione sui geni chiave, ma anche di quello dedicato alla capacità del THC di disgregare gli agglomerati di Beta amiloide, tra le principali cause dell’Alzheimer. La ricerca, insomma, si sta ramificando e sta fiorendo in importantissime scoperte, ma tutto parte dalle sue antiche radici.

La storia della cannabis come medicina

Per quanto fondamentali per lo sviluppo di nuove terapie, infatti, le ricerche stanno in realtà cercando di dare una spiegazione teorica e scientifica a ciò che nella pratica si conosce da migliaia di anni.

Uno dei primi riferimenti alla Cannabis come medicinale, infatti, compare in un testo di oltre 5.000 anni fa che descrive le proprietà di più di 300 piante: lo Shen-nung Pen-ts’ao Ching (2737 a.C.), un volume che ha posto le basi per l’erboristeria cinese e dove la cannabis viene suggerita per oltre cento disturbi, dalla malaria ai reumatismi. Altrettanto antica è la testimonianza riportata nei Veda indiani, i testi in sanscrito risalenti al 2000 a.C. nei quali la cannabis è citata come una delle piante per liberarsi della sofferenza. Ma non c’è solo l’Asia. Anche Dioscoride Pedanio, medico e botanico alla corte di Nerone, la consigliava per le sue proprietà e come lui anche Plinio il Vecchio, che nel suo Naturalis Historia suggeriva diverse preparazioni a base di Cannabis.

Dopo secoli di utilizzo, però, papa Innocenzo VIII, con la bolla papale del 1484 (Summis desiderantes affectibus), ne proibì il consumo e l’utilizzo ai fedeli. L’ordine rientrava in una politica ben più ampia mirata a eliminare ogni tipo di eresia e stregoneria e contribuì con il tempo a creare un pregiudizio che nell’Europa cattolica del Medioevo trovò un terreno fertile nel quale crescere e prosperare.

Bisogna aspettare il 1839 per un cambiamento, avvenuto grazie al medico irlandese William B. O’Shaughnessy, che, durante un viaggio in India, riscopre la cannabis come medicina e decide di dedicarle un intero volume (On the preparations of the Indian hemp, or gunjah) nel quale approfondisce preparazioni e trattamenti di successo riscontrati per casi di convulsioni, spasmi e reumatismi. O’Shaughnessy risveglia così l’interesse della comunità scientifica dell’epoca e porta non solo alla prima conferenza dedicata organizzata dalla Ohio State Medical Society nel 1860, ma anche a una nuova ondata di ricerche che proseguirà per tutto il secolo successivo e che raggiungerà il massimo sviluppo tra gli anni ‘60 e ‘70.

La cannabis terapeutica oggi

Da allora la cannabis terapeutica ha fatto molta strada. La ricerca sempre più approfondita e il bisogno di controllare i sintomi del crescente numero di pazienti affetti da tumore e AIDS ha portato non solo alla formulazione di nuovi farmaci, ma anche a una letteratura scientifica più completa che ha spinto molti Paesi ad autorizzare il suo utilizzo. Ad aprire le danze è stata la California nel 1996, diventata il primo Stato al mondo ad adottare un sistema per disciplinare l’uso terapeutico; nove anni dopo è stato il turno del Canada, seguito da Paesi Bassi, Israele e Germania, solo per citarne alcuni.

E poi c’è stato il 2020. Nell’anno dell’emergenza sanitaria, infatti, la Commissione delle Nazioni Unite (ONU) ha compiuto un passo storico eliminando la cannabis dalla “Tabella IV della Convenzione Unica degli stupefacenti” e riconoscendone in via ufficiale gli effetti terapeutici; fino a quel momento era stata trattata al pari di oppiacei mortali come cocaina ed eroina. La ricerca, oltre che principale motore della declassificazione, sarà anche la sua prima beneficiaria, perché la decisione dell’ONU porterà alla nascita di nuovi studi in tutto il mondo.

Cannabis terapeutica in Italia

In Italia, la normativa sulla cannabis terapeutica è cambiata nel 2006, quando un’ordinanza del Ministero della Salute ha concesso non solo l’importazione di medicinali a base di THC (autorizzata dal 1998 per fini di ricerca), ma ha anche consentito ai medici di prescrivere preparazioni, allestite da farmacisti, utilizzando il Dronabinol o altre sostanze attive vegetali a base di cannabis terapeutica controllata.

A questo si sono aggiunti successivamente due decreti che hanno aggiornato le tabelle contenenti l’indicazione delle sostanze stupefacenti e psicotrope, uno nel 2007 e uno nel 2013. Il secondo, in particolare, ha allargato la prescrizione anche alla pianta e ai suoi derivati, consentendo così ai neurologi di prescrivere il Sativex®, un prodotto a base di CBD e THC per ridurre gli spasmi della sclerosi multipla. In generale, per la CM, la prescrizione medica non è ripetibile e la somministrazione avviene per via orale o inalatoria.

Un ulteriore passo avanti è stato fatto nel 2014, quando grazie a un accordo firmato tra il Ministero della Salute e quello della Difesa è stata autorizzata la produzione di preparazioni galeniche all’interno dello Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze, riducendo quindi non solo la dipendenza dall’importazione, ma anche i costi. La produzione toscana del Cannabis FM-2 è stata avviata nel 2016 e nel 2018 è stata seguita dalla varietà Cannabis FM-1, che prevede una percentuale di THC più elevata.

Le problematiche italiane

Nonostante il supporto teorico delle normative e l’avvio della produzione nazionale, però, la situazione a livello italiano non è delle più rosee. Da una parte, infatti, c’è la limitazione dell’utilizzo, autorizzato, nella maggior parte dei casi, solo di fronte al fallimento delle terapie tradizionali e limitato a specifiche patologie o condizioni. Dall’altra c’è il problema legato alla produzione, che attualmente non riesce a soddisfare il fabbisogno nazionale e costringe all’importazione senza però che sia garantita la continuità terapeutica ai pazienti. Una problematica, questa, che ha sollevato il dibattito sull’autoproduzione a fini terapeutici sia dentro che fuori dal Parlamento, dove a segnare la cronaca è stata la vicenda, conclusasi con l’assoluzione, di Walter De Benedetto, paziente affetto da artrite reumatoide imputato poiché coltivava cannabis a scopo terapeutico nella propria casa.

A queste problematiche si aggiunge la scarsa formazione dei medici, che anche in caso di necessità spesso non prescrivono la terapia non conoscendola approfonditamente, e la scarsa informazione dei pazienti, che molte volte non sanno di avere a disposizione questa opportunità. Ultimo, ma non meno importante, l’applicazione della normativa a livello regionale.

Ogni Regione, infatti, ha la possibilità di stabilire le proprie linee guida che possono spaziare dalla scelta delle patologie coinvolte fino alle modalità di prescrizione, passando per l’aspetto economico. In alcune, infatti, i medicinali sono a carico del Sistema Sanitario Regionaleè il caso di Emilia-Romagna, Lombardia e Puglia, per esempio — in altre, invece, è a carico dei pazienti, che si trovano così ad affrontare spese che superano i 300€ e, nei casi più complessi, arrivano anche a 1000€ mensili. La situazione avrebbe potuto cambiare nel 2017, quando è stato proposto un decreto fiscale secondo il quale la cannabis terapeutica sarebbe stata, a livello nazionale, a carico del sistema sanitario italiano, ma il decreto non è mai entrato in vigore creando così una situazione frammentata e di profonda disuguaglianza in termini di diritti alle cure. Ora, grazie alla mobilitazione dei cittadini e di alcuni membri del Parlamento, la situazione potrebbe cambiare. Lo scopriremo nel 2022.

[di Martina Sgorlon]

Ok del Senato al ddl Salvamare per recupero dei rifiuti in acqua

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Il ddl Salvamare è stato approvato in Senato con 220 voti favorevoli, nessun contrario e 15 astenuti (mossa preannunciata da Fratelli d’Italia), dopo aver ricevuto l’ok della Camera nel 2019. Il provvedimento ora dovrà passare al vaglio di un’ultima revisione, dopo leggere modifiche apportate al testo. Con la definitiva approvazione i pescatori che raccolgono rifiuti in mare, nei laghi, nei fiumi e nelle lagune non commetteranno più un illecito, potendo così portarli a terra e gettarli negli appositi punti di smaltimento che verranno istituiti all’interno dei porti. Come segnala il WWF, il 95% dei rifiuti raccolti nel Mediterraneo è costituito da plastica, la cui ingestione costituisce un pericolo per almeno 134 specie marittime, senza contare tutte quelle che rimangono impigliate nei rifiuti abbandonati.

Omicidio Youns el Boussettaoui: una storia ancora in cerca di giustizia

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Mario Venditti, coordinatore delle indagini sulla morte di Youns el Boussettaoui per mano dell’assessore leghista Massimo Adriatici, ha presenziato ad un convegno della Lega nel 2020, poco prima delle elezioni amministrative. All’incontro interviene l’eurodeputato Angelo Ciocca, che il giorno dopo l’assassinio di Youns parlerà di «chiaro episodio di legittima difesa». L’episodio, riportato in una inchiestaè forse sconveniente ma non grave per un magistrato. Tuttavia, collocato nel contesto dell’indagine per l’omicidio di Youns, costituisce un fattore equivoco che va ad aggiungersi alla già lunga lista di punti poco chiari nelle indagini. Tra questi, l’insistenza della procura per l’imputazione di eccesso colposo di legittima difesa anziché di omicidio volontario, nonostante elementi quali il pedinamento di el Boussettaoui da parte di Adriatici e l’uso di proiettili ad espansione sembrino suggerire una dinamica di tutt’altro tipo.

I fatti risalgono alla fine di luglio scorso, quando l’assessore leghista di Voghera Massimo Adriatici ha sparato a Youns el Boussettaoui un colpo di pistola in pieno petto, dopo una lite di fronte a un bar. Adriatici affermerà che il colpo è stato esploso accidentalmente nel corso della colluttazione e rimarrà saldo su questa posizione. Le indagini svolte, però, acquisiscono sin dall’inizio delle sfumature poco chiare.

L’autopsia viene effettuata in tempi record, entro dodici ore dai fatti, senza che né la famiglia né gli avvocati di el Boussettaoui ne venissero informati e fossero presenti, come invece richiesto dalla procedura. Debora Piazza, già difensore d’ufficio del trentanovenne marocchino, ha appreso dell’omicidio dai giornali. Il capo d’imputazione, che inizialmente sembrava essere di omicidio volontario, viene convertito dopo pochi giorni in eccesso colposo di legittima difesa dal pm, senza che la dinamica dei fatti fosse ancora del tutto chiara. Le registrazioni delle telecamere di sorveglianza puntate su piazza Meardi, poi, mostrano Adriatici pedinare el Boussettaoui prima della colluttazione, fatto ad ora non preso in considerazione dai pm.

In uno dei video, che ritrae i momenti immediatamente successivi ai fatti, si sente Adriatici chiedere a uno dei testimoni “Hai visto che ha fatto per darmi un calcio in testa? L’importante è quello, che hai visto che stava dandomi un calcio in testa”. Un fatto assolutamente fuori da ogni procedura: i carabinieri sono già presenti sul luogo, ma l’omicida viene lasciato aggirarsi sulla piazza e parlare con i testimoni. Nel video si possono ancora udire i lamenti di el Boussettaoui, che morirà poco dopo in ospedale. Adriatici viene poi prelevato dalla scena del crimine quasi un’ora dopo per essere interrogato. A coronare il tutto vi è il fatto che la pistola dell’assessore fosse caricata con proiettili espansivi, vietati in Italia per la difesa personale proprio in ragione dell’estremo danno che possono causare: la procura non ha tuttavia ancora preso in considerazione questo fatto, insistendo con l’imputazione di eccesso di legittima difesa.

Al netto di tutto questo, oggi Adriatici è un uomo libero, dopo aver scontato appena tre mesi ai domiciliari. Proprio per questo motivo Nicola Fratoianni, segretario regionale di Sinistra Italiana, ha presentato alla ministra della Giustizia Cartabia un’interrogazione parlamentare circa i troppi dubbi che riguardano la regolarità delle indagini. Resta da chiedersi quanto, in una partita giocata a ruoli invertiti, le Forze dell’Ordine e la procura si sarebbero dimostrate tanto garantiste nei confronti di un giovane immigrato che avesse “accidentalmente sparato” ad un assessore, uccidendolo per “legittima difesa”.

[di Valeria Casolaro]

 

USA, Corte Federale sospende obbligo vaccinale nelle aziende private

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Una Corte Federale statunitense ha sospeso l’obbligo per le aziende private con 100 o più dipendenti di richiedere il vaccino o il regolare test diagnostico per il Covid-19. Secondo quanto riportato dalla Corte, composta da un giudice voluto da Reagan e due da Trump, l’obbligo “non terrebbe conto delle differenze nei luoghi di lavoro e nei lavoratori”, e sottolinea che “l’interesse pubblico è anche servito mantenendo la nostra struttura costituzionale e mantenendo la libertà degli individui di prendere decisioni intensamente personali secondo le proprie convinzioni”. Biden aveva annunciato il provvedimento lo scorso settembre: nei giorni scorsi era stato fissato al 4 gennaio il termine entro il quale i lavoratori avrebbero dovuto completare il ciclo vaccinale. È probabile che ora il caso passerà nelle mani della Corte Suprema.

Cop26: cosa si sta decidendo concretamente al vertice sul clima

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Limite di riscaldamento globale fissato ad 1,5°C, riduzione delle emissioni di anidride carbonica del 45% entro il 2030 e zero netto intorno la metà del secolo. Importanza del ruolo dei giovani, delle comunità indigene e della natura nella lotta alla crisi climatica. E ancora, addio al carbone e richiesta di “profonde riduzioni nelle emissioni di gas serra che non siano anidride carbonica”. Queste, a grandi linee, le conclusioni emerse dalla seconda bozza del testo finale del vertice sul clima pubblicata questa mattina. Un complesso di buoni propositi che, tuttavia, non sfugge ancora alle critiche degli ambientalisti. Questi, infatti, hanno chiesto misure più concrete e messo l’accento su dei cambiamenti apportati al testo rispetto alla prima versione.

In relazione alla decarbonizzazione, nella prima bozza pubblicata due giorni fa, effettivamente, si chiedeva ai paesi di “accelerare l’eliminazione graduale del carbone e dei sussidi per i combustibili fossili”. Richiesta che, nell’ultima versione, è poi diventata “accelerare l’abbandono graduale dell’energia a carbone unabated – cioè quello non accompagnato da sistemi di riduzione delle emissioni – e dei sussidi inefficienti per i combustibili fossili”. Differenze che non sono passate inosservate e tutt’altro che viste di buon occhio da Greenpeace secondo cui «la parte chiave del testo è stata gravemente indebolita». In riferimento agli obiettivi climatici, hanno poi aggiunto «siamo passati dall’”esortare” i governi a rafforzare i loro target climatici per il 2030, al semplice “richiedere” che lo facciano entro il 2022». Considerando che le differenze tra i due testi dipendono dalle richieste avanzate dai Paesi partecipanti dopo la lettura della prima bozza, secondo la nota organizzazione ambientalista ci sarebbe ancora lo zampino delle lobby dei combustili fossili.

Tuttavia, sebbene indebolita, è la prima volta che l’eliminazione graduale delle fonti inquinanti è stata inclusa come intenzione dichiarata in una Conferenza delle Parti, tant’è che non ci si aspettava sopravvivesse alla riformulazione considerando, soprattutto, la tempestiva opposizione dei principali Paesi produttori di petrolio. Altri punti a favore, l’introduzione esplicita della parola “metano” e una maggiore enfasi al ruolo cruciale delle popolazioni indigene. Nel complesso, il vertice sul clima potrebbe anche non aver soddisfatto le aspettative, ma rappresenta comunque un decisivo passo avanti. Basti pensare, ad esempio, all’alleanza tra Cina e Stati Uniti per favorire una rispettiva riduzione delle emissioni climalteranti. Se alle parole seguiranno i fatti è tutto da vedere, ma che due superpotenze notoriamente in contrapposizione politica abbiano annunciato congiuntamente l’intenzione di agire contro la crisi climatica resta, indubbiamente, un forte messaggio. Va detto inoltre che, se troppo drastica, come effettivamente sarebbe necessario, la Cop semplicemente fallirebbe del tutto. Che lo si voglia o meno, infatti, gli interessi in ballo sono tanti, meglio quindi addolcire gradualmente la pillola.

Eppure nemmeno la giovane Greta Thunberg, icona dell’attivismo climatico contemporaneo, si è trattenuta dal muovere pesanti critiche agli esiti del vertice. Già venerdì scorso, senza mezzi termini, ha definito la Cop26 «un fallimento», in particolare, in relazione alla mancanza di immediate e drastiche misure che portino a consistenti riduzioni annuali delle emissioni. Secondo un rapporto dell’Agenzia internazionale dell’energia, nel caso in cui tutti gli impegni assunti dalla comunità internazionale nell’ambito del vertice venissero rispettati, si riuscirà a mantenere l’aumento della temperatura terrestre circa a +1,8° rispetto ai livelli preindustriali. Quindi, il target degli 1,5°C verrebbe sì disatteso, ma c’è da dire che gli scienziati climatici comunque raccomandano un contenimento non superiore ai 2°C. Tuttavia, secondo un’altra ricerca firmata in questo caso dal Climate Action Tracker, tenendo conto delle dichiarazioni, anche non vincolanti, dei paesi partecipanti alla Cop26, la temperatura aumenterà di oltre 2,4°C entro la fine del secolo.

In definitiva, riepiloghiamo. Sono stati stanziati 12,2 miliardi di dollari allo scopo di fermare la deforestazione entro il 2030 dove, sebbene sorprenda l’adesione del Brasile di Bolsonaro, pesa l’assenza dell’Indonesia dell’olio di palma. Novanta paesi hanno poi firmato l’accordo per ridurre le emissioni di metano del 30% entro il 2030, pur gravando la mancata partecipazione di Cina, Russia ed India. È emerso, inoltre, un impegno finalizzato alla chiusura delle centrali a carbone, dove rincuora la partecipazione della Polonia ma scoraggia l’assenza delle principali potenze inquinanti. E ancora, stop ai sussidi pubblici a Paesi terzi per infrastrutture basate sui combustibili fossili. Una misura notevole, quest’ultima, sebbene firmata da appena 20 tra nazioni ed istituzioni finanziarie.

Tra le principali criticità vanno invece citati gli aiuti economici che i paesi in via di sviluppano aspettano dal 2009: 100 miliardi di euro all’anno per far sì che possano affrontare la transizione energetica. Senza mai ottenere nulla, i paesi meno sviluppati, infatti, da tempo chiedono che le economie avanzate, responsabili delle emissioni accumulate dal 1750 a oggi, compensino anche i danni provocati dai disastri climatici e si facciano carico delle spese richieste dalla conversione alla sostenibilità. Se i paesi del Nord del mondo ancora una volta deluderanno le loro aspettative, c’è il rischio che 120 delegazioni legate ai Paesi vulnerabili si oppongano facendo fallire la Cop26. Una strada questa tentata da diversi negoziatori sauditi venerdì scorso, i quali hanno cercato di bloccare le trattazioni in corso sulla stesura della cosiddetta “decisione di copertura” per il testo finale, facendo pressioni affinché le misure di sostegno ai paesi poveri e vulnerabili da parte di quelli più ricchi venissero annullate. Il fatto che una nazione storicamente legata all’industria fossile possa aver influenza la dice lunga sull’autenticità delle decisioni prese al vertice. Così come insospettisce l’elevato numero di delegati accreditati al summit e legati al settore del petrolio e del gas. Tuttavia, in ultima analisi, se la Cop26 sia stata un successo o il solito “bla bla bla” aspettiamo a dirlo.

[di Simone Valeri]

Napoli, con il pretesto dei “No green pass” vietato il corteo dei disoccupati

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Il corteo dei disoccupati e precari in programma per domani, sabato 13 novembre a Napoli, è stato impedito dalla Questura. Al massimo si potrà fare un presidio, in zona periferica, senza infastidire i ritmi della città e quindi senza fare notare le ragioni della protesta. È la prima conseguenza della direttiva emessa dalla ministra dell’Interno Lamorgese, che vieta cortei nei centri cittadini durante i fine settimana. La direttiva è stata emessa ufficialmente per contrastare le proteste contro il green pass avvenute nelle scorse settimane. Un provvedimento che restringe in realtà la possibilità dei cittadini di esercitare il diritto fondamentale all’espressione del dissenso riguardo qualsiasi tipo di disagio sociale.

Tramite la propria pagina Facebook gli organizzatori del corteo dei disoccupati, previsto per il 13 novembre a Napoli, esprimono il risentimento per la decisione della Questura di trasformare la manifestazione in un semplice presidio statico. Tale disposizione è arrivata dopo che la ministra Lamorgese ha diffuso una circolare sul divieto delle manifestazioni nei centri cittadini durante i fine settimana. Secondo quanto emerge dalla lettura del testo della circolare, la preoccupazione primaria è quella di limitare gli impedimenti riguardanti l’ordine pubblico. La tutela sanitaria viene menzionata come ragione aggiuntiva di una misura che è tutta concentrata sulla “tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica”, per la quale le manifestazioni “potranno tenersi esclusivamente nel rispetto di specifiche modalità di carattere restrittivo” come “la forma statica in luogo di quella dinamica”, che non disturbi le “aree urbane nevralgiche”.

I Prefetti sono invitati a individuare tali aree ed interdirne l’accesso a manifestazioni pubbliche “per la durata dello stato di emergenza”. Ragione sanitaria e controllo dell’ordine pubblico si intrecciano e vanno a porre un freno alla possibilità dei cittadini di manifestare il proprio disagio nei confronti del Governo, evidentemente per ragioni anche molto diverse dal green pass. La legittimità e fattibilità delle manifestazioni è tutta legata alla volontà dei Prefetti delle singole città, che possono ora apporre la ragione della tutela della salute per precludere lo svolgersi di proteste scomode.

Sono stati inoltre diversi gli episodi nei quali la Polizia è intervenuta in modo violento per disperdere manifestazioni svolte in maniera pacifica: basti ricordare il presidio dei portuali di Trieste, tenutosi senza pregiudicare lo svolgimento delle attività cittadine, o l’intervento violento contro gli studenti del liceo romano Ripetta. La disposizione di Lamorgese, unita all’uso sempre più spesso indiscriminato della violenza contro i manifestanti, porta a chiedersi se le libertà democratiche debbano essere sempre più concepite come qualcosa di concesso “dall’alto” e non dato per scontato in quanto costitutivo della nostra società civile.

[di Valeria Casolaro]

Il primo cittadino della città più povera di Francia è il migliore sindaco del mondo

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Il suo nome è Philippe Rio ed è entrato a fare parte della lista dei migliori sindaci del mondo stilata da World Mayor, comprendente anche tre italiani: Giuseppe Sala (Milano, Lombardia), Aldo D’Achille (San Bellino, Veneto) e Antonella Argenti (Villa del Conte, Veneto). La sua storia però è diversa perché un conto è fare il sindaco di un paesello in una regione ricca o in una metropoli all’avanguardia, un altro è essere il primo cittadino della città più povera di tutta la Francia e riuscire a migliorare concretamente la vita dei cittadini con i pochi mezzi finanziari e di potere che un sindaco ha a disposizione. Philippe Rio lo ha fatto con una serie di misure che possono apparire utopiche, eppure molto concrete.

Philippe Rio è il sindaco comunista (Partito Comunista Francese, PCF) di Grigny un centro di 27 mila abitanti situato nella Île-de-France. Classificata come il comune più povero francese dall’Osservatorio delle disuguaglianze, ed è caratterizzata da una massiccia disoccupazione. Nonostante questo, da quando Rio ne è diventato sindaco – nel 2014 – molti sono stati i miglioramenti reali, proseguiti anche durante il periodo della pandemia. Provvedimenti resi possibili anche dall’essere stato fautore de “l’Appel de Grigny”, appello lanciato nell’ottobre del 2017 e sostenuto da associazioni e altri sindaci, al fine di richiedere investimenti per intervenire nei quartieri popolari.

Proveniente da una famiglia umile di operai, Philippe Rio ha inteso quella di primo cittadino come una carica attraverso la quale agire dal basso, insieme alla comunità, innanzitutto allo scopo di migliorare le condizioni di vita delle classi deboli. Per questo motivo, allo scoppio della pandemia, ha immediatamente creato una squadra di attivisti per affrontare l’ondata di crisi sanitaria, economica e sociale che avrebbe travolto la città. Diverse le azioni attuate per non fare sprofondare Grigny, come la distribuzione di beni di prima necessità – quali mascherine, alimenti e computer agli studenti che ne avevano bisogno.

Inoltre Grigny è sulla strada per diventare una città energeticamente quasi autosufficiente, grazie alla creazione di un progetto geotermico alternativo, di proprietà al 100% municipale, che permette di riceve energia a km0 senza esporre la popolazione agli effetti sulle bollette della crisi del gas. «Ora riceviamo calore da due chilometri sotto i nostri piedi – ha spiegato il sindaco in una intervista a Jacobin – abbiamo tagliato le bollette del 25% e risparmiato al pianeta quindicimila tonnellate di CO2 in un anno. Beh, io sono comunista e allo stesso tempo, faccio quello che posso dal mio livello per salvare il pianeta. Ci piace scherzare sul fatto che Grigny abbia ratificato l’accordo COP di Parigi prima della Francia».

Un altro tema molto importante per Philippe Rio è quello dell’istruzione. A Grigny, infatti, il 50% degli alunni lascia il sistema scolastico pubblico ancora prima di prendere il diploma. Per questo motivo, il primo cittadino ha rivoluzionato l’approccio educativo – diventato modello per altre città francesi – e ha puntato su un fattore apparentemente fuorimoda nel mondo odierno: il contatto umano. Con l’inserimento di corsi basati sulla cultura e sullo sport, ha fatto in modo di invogliare i giovani a dedicarsi alla scuola e, con la costruzione di un centro educativo specializzato, sta offrendo la possibilità agli adulti privi di diploma, di riprendere gli studi sia per migliorarsi che per rientrare nel mondo lavorativo.

Ricette coraggiose eppure non così difficili, a volerle applicare. La vicenda di Grigny dimostra che, anche in mezzo ai vincoli dei trattati europei e delle leggi di bilancio, fare qualcosa di buono a livello municipale è possibile con la giusta determinazione. Una ricetta che evidentemente ha convinto i cittadini: nel marzo 2020 ha Grigny si sono tenute le elezioni comunali e Philippe Rio è stato riconfermato sindaco con il 50,33% dei voti al primo turno, la maggioranza assoluta.

[di Eugenia Greco]

È morto Giampiero Galeazzi

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È deceduto questa mattina all’età di 75 anni il giornalista e cronista sportivo della Rai Giampiero Galeazzi. Da tempo era malato di diabete. Nato a Roma il 18 maggio 1946, Galeazzi in gioventù era stato un canottiere di alto livello, vincendo il campionato italiano del singolo nel 1967. Successivamente la passione per lo sport si sposò con la sua carriera lavorativa, celebri rimangono infatti le sue cronache delle imprese dei canottieri italiani alle Olimpiadi. Galeazzi non appariva in Tv da tre anni.

Canone Rai, UE: rimozione dalla bolletta entro il 2022

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La Commissione Europea ha posto la separazione del canone Rai dalla bolletta dell’energia elettrica come presupposto affinché l’Italia possa riceve i fondi della Next Generation Eu destinati al Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Lo riporta all’agenzia AGI un portavoce della Commissione. La separazione dovrà avvenire entro la fine del 2022: si tratta di una misura volta a «garantire la diffusione della concorrenza nei mercati al dettaglio dell’energia elettrica» e fa parte delle misure relative all’energia, diverse da quelle che coprono la legge annuale sulla concorrenza 2021, ancora in discussione. L’inserimento del canone tv nella bolletta elettrica è stato voluto nel 2017 dal governo Renzi come misura anti-evasione.

L’Italia sostiene l’alleanza per l’addio alle fonti fossili, ma solo a metà

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Il ministro per la Transizione Ecologica Cingolani ha annunciato l’adesione dell’Italia al Beyond Oil and Gas Alliance (BOGA). Si tratta di un’alleanza globale, promossa da Danimarca e Costa Rica, i cui Paesi firmatari si impegnano in iniziative concrete per un graduale abbandono dei combustibili fossili. Ciò che il ministro non ha però specificato è che l’Italia aderirà come semplice Friend of BOGA, ovvero senza impegnarsi in nessuna delle iniziative innovative dell’alleanza come lo stop alle nuove concessioni per gas e petrolio, ma limitandosi ad allineare la produzione di idrocarburi con gli obiettivi di Parigi.

Il BOGA è stato promosso da Danimarca e Costa Rica nell’ambito della Cop26 e si pone obiettivi e iniziative concreti per l’abbandono graduale dei combustibili fossiliCingolani ha annunciato entusiasticamente l’adesione dell’Italia a tale progetto, sostenendo che “L’Italia su questo programma è perfino più avanti e abbiamo le idee chiare: il grande piano per le rinnovabili con 70 miliardi di watt per i prossimi 9 anni per arrivare al 2030 con il 70 per cento di energia elettrica pulita”. Ovvero esattamente quanto previsto per rimanere in linea con gli Accordi di Parigi.

Dei tre livelli di adesione, l’Italia è stata infatti l’unica ad entrare come Friend, ovvero il grado più esterno e meno impegnativo, che non obbliga a bloccare tutte le concessioni per gas e petrolio né nello stop alle trivellazioni, il cuore dell’innovazione voluta dall’alleanza.

I Paesi che hanno avuto il coraggio di aderire pienamente non sono molti: tra i core members vediamo infatti Danimarca, Costarica, Francia, Groenlandia, Irlanda, Quebec, Svezia, Galles, mentre California, Nuova Zelanda e Portogallo partecipano come associate members e l’Italia, fanalino di coda, come friend. 

Si tratta di una presa di posizione che riflette un atteggiamento non sempre chiaro del governo sulle questioni ambientali: ne costituiscono un esempio il dubbio contenuto del Patto per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (PiETSAI) o le affermazioni di Cingolani riguardo la necessità di investire nelle risorse fossili per evitare il deficit energetico. Tali elementi fanno sorgere un quesito su quanto la transizione ecologica costituisca una priorità per il Governo.

[di Valeria Casolaro]