venerdì 19 Settembre 2025
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Emergenza climatica: la transizione necessaria e il gioco delle élite globali

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La prima conferenza globale sul clima si tenne nel lontano 1979. La convenzione quadro dell’Onu per contrastare il surriscaldamento globale e contenere le emissioni fu firmata il 4 giugno 1992. Molti studi scientifici che provano l’ineluttabilità della questione ecologica e climatica erano già disponibili e conosciuti. Per decenni si è scelto di non fare nulla: i governi hanno disatteso gli accordi da loro stessi firmati, le multinazionali del petrolio hanno speso miliardi per organizzare conferenze, pagare i media e fare lobby sui governi affinché nulla cambiasse. Poi, di colpo, l’inversione di marcia, repentina e totale. I leader mondiali invitano Greta Thunberg apposta per farsi insultare, come fosse un rito di espiazione. Il sito internet del World Economic Forum – la “confindustria delle multinazionali” – somiglia a un blog ecologista. Le Big Oil non negano più l’emergenza ed anzi si convertono alla comunicazione sostenibile (leggasi greenwashing) per accreditarsi come partner perfetti per risolvere il problema che esse stesse hanno generato. L’emergenza climatica domina le prime pagine dei giornali dopo essere stata relegata ad una colonna in trentesima pagina per decenni.

Ovvio che di fronte a questo panorama i dubbi nella mente di tanti si affollino. Non è che ci stanno prendendo in giro? Forse questa transizione ecologica è tutto un gioco delle élite globali? Ma poi il clima non è sempre cambiato?

A queste ed altre domande abbiamo cercato di rispondere in questo nuovo numero del Monthly Report. Un piccolo riassunto. Sì: la crisi climatica è un problema reale e occorre fare qualcosa al più presto. Sì: ci stanno anche prendendo in giro. Tutti quanti, governi, World Economic Forum e Big Oil.

La tattica è ormai collaudatissima: i media fanno il lavoro sporco, preparando l’opinione pubblica ad accettare la questione climatica come un’emergenza non più rinviabile, senza perdere tempo in discussioni e ragionamenti. Bisogna agire con logica commissariale, a colpi di decreti, con piena e indiscutibile fiducia nei governi e nelle multinazionali del settore. Abituiamoci all’idea di avere un generale Figliuolo alla Transizione. Il fine è quello di risolvere l’emergenza nel modo desiderato dalle élite. Il disegno è stato ampiamente tratteggiato alla recente Cop26 dal cui palco si sono alternati leader politici e multimiliardari giunti a bordo di ultra impattanti jet privati: investimenti di miliardi pubblici serviranno a trasformare progetti climatici estremamente necessari in investimenti redditizi, facendo sì che il pubblico si assuma il rischio finanziario che le aziende private non sono disposte a correre per salvare il mondo. Il vero obiettivo della transizione ecologica pianificata è quello di generare elevati rendimenti dalle attività a minori emissioni. È questa l’anima green di quella che le élite chiamano Quarta rivoluzione industriale. Cucinare una nuova torta miliardaria, pagata dagli Stati e quindi dai cittadini, le cui fette saranno spartite dai soliti colossi del capitalismo finanziario ed estrattivo.

Di fronte a questo disegno le élite e i grandi media che si occupano della loro propaganda si stanno già occupando di dividere la plebe per poterla meglio governare: da una parte quelli che ci credono e sono pronti ad accettare quanto sarà stabilito senza fiatare, dall’altra quelli da bollare come “negazionisti” pronti a credere per reazione ad ogni contro-narrazione, fossero anche bugie comprovate tipo l’inesistenza del problema climatico. Prima che sia troppo tardi proviamo a costruire una soluzione dal basso. Quella che desideriamo tutti è probabilmente la stessa: città con un’aria respirabile, mari dove poter continuare a bagnarsi, un pianeta abitabile e sano da consegnare alla prossime generazioni. Una transizione ecologica è necessaria. Ma deve essere al servizio del 99% della popolazione mondiale e non del solito 1%. Per questo occorre mobilitarsi.

Il mensile, in formato PDF, può essere scaricato dagli abbonati a questo link: lindipendente.online/monthly-report/

[di Andrea Legni]

Austria, al via oggi lockdown per non vaccinati

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In Austria le persone non vaccinate saranno soggette da oggi a un lockdown della durata iniziale di 10 giorni. La polizia effettuerà dei controlli a campione per accertarsi che a circolare siano solamente coloro che sono in possesso della certificazione vaccinale. La decisione riguarda 2 milioni di persone su una popolazione totale di 8,9 milioni di abitanti e ne saranno esenti i bambini di età inferiore ai 12 anni, in quanto per loro non è ancora prevista la vaccinazione. Secondo il cancelliere Schallenberg la decisione è giustificata dal fatto che l’Austia abbia ad oggi uno dei tassi più bassi di vaccinazione in Europa (il 65%).

Il filo nero che lega stragi di mafia, servizi segreti e strategia della tensione

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Palermo, aprile 2015. Nella cornice del processo che vedeva imputati gli ufficiali del Ros Mario Mori e Mario Obinu per la mancata cattura di Bernardo Provenzano dell’ottobre 1995, a deporre in Aula è il colonnello Michele Riccio. Quest’ultimo è il carabiniere che ha raccolto le confidenze di Luigi Ilardo, l’ex mafioso di spicco di Cosa Nostra che aveva coraggiosamente scelto di infiltrarsi nell’organizzazione criminale di cui faceva parte al fine di contribuire alla cattura di una serie di latitanti e fornire la “fotografia” di Cosa Nostra nei suoi rapporti interni ed esterni. «Nell’estate del ’93 – ha riferito Riccio – De Gennaro (direttore della Dia, alle cui dipendenze Riccio lavorava, ndr) mi affida la gestione di Ilardo, perché poteva aiutarci ad individuare i mandanti esterni sulle stragi del ’92-’93. Ilardo mi disse che si trattava di personaggi appartenenti a quegli stessi ambienti che negli anni Settanta posero in essere una strategia della tensione». Ilardo gli aveva infatti riferito di «aver fatto parte di un certo contesto mafioso, vicino all’eversione di destra, che era in contatto con apparati deviati dello Stato» e che «molti attentati erano stati addebitati a Cosa Nostra, ma i mandanti venivano dall’esterno. Mi parlò – ha affermato il colonnello – di Mattarella, Pio La Torre, Insalaco, dell’attentato dell’Addaura: disse che ne avrebbe parlato davanti all’autorità giudiziaria, una volta diventato collaboratore di giustizia». Cosa che, però, non accadde: Il 10 maggio 1996, pochi giorni prima di entrare ufficialmente nel programma di protezione, Ilardo venne crivellato di colpi a Catania, sotto casa sua. La Corte d’Assise di Catania ha asserito che l’omicidio Ilardo venne “organizzato e portato a termine da Cosa Nostra catanese” e, in merito all’accelerazione del progetto omicidiario, ha stabilito che “la sequenza cronologica dei fatti è senza dubbio idonea a far ipotizzare una fuga di notizie da vertici istituzionali”. Questa sentenza, nella quale entra direttamente, ancora una volta, l’eco di pesantissime responsabilità istituzionali, sarà confermata anche in Appello.

Nel novembre del 2015, Riccio ha dichiarato al processo “Trattativa Stato-mafia” che «Ilardo commentò che (le stragi del 1993, ndr) erano attentati che rientravano in quella strategia mafiosa di Riina, Bagarella e Brusca per ristabilire quel contatto con le istituzioni, per tornare a condizionarle come nel passato. Tutta questa strategia non era solo di Cosa nostra e per capirla si doveva guardare al passato. Lui mi disse che questi attentati sono applicati con lo stesso fine e lo stesso metodo dallo stesso ambiente, che cambiano gli attori ma che queste stragi sono state fatte su input di questi settori deviati e non voluti direttamente dai vertici mafiosi». Perché le parole di Ilardo avevano fatto tremare una grossa fetta dell’apparato istituzionale italiano? Ripartiamo dall’inizio.

La strategia della tensione

Con il termine “Strategia della tensione”, coniato dal settimanale britannico “The Observer”, indichiamo quell’opera eversiva, circoscrivibile agli anni settanta del secolo scorso, condotta da un variegato universo composto da attori istituzionali italiani e internazionali (tra i quali la CIA e i vertici dei servizi segreti civili e militari del nostro Paese), logge massoniche, organizzazioni paramilitari clandestine e lobbies affaristiche, che si concretizzò negli attentati eseguiti dai gruppi neofascisti organizzati per la lotta armata contro lo Stato (come Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale). Essa fu posta in essere con una finalità specifica: “destabilizzare per stabilizzare”, creare un crescendo di tensioni sociali per mezzo di stragi e violenze talmente inaudite da instillare insicurezza, paura e terrore nella popolazione, così da rendere auspicabile agli occhi dell’opinione pubblica un intervento statale di stampo autoritario. La finalità sottesa a tale disegno, a cui a livello mediatico concorsero innumerevoli agenzie e testate giornalistiche che sposarono la strategia della “guerra psicologica”, era ovviamente quella di scaricare la responsabilità politica del terrore sugli ambienti della sinistra, al fine di disinnescare le ambizioni governative del Partito Comunista Italiano e la svolta della Democrazia Cristiana verso un dialogo coi comunisti. In questo quadro rientrano, per citare solo le più famose, le stragi di Piazza Fontana (’69), di Peteano (’72), di via Fatebenefratelli a Milano (’73), di Piazza della Loggia a Brescia e del treno Italicus (’74), fino ad arrivare alla strage di Bologna (’80). Tutti questi episodi hanno un denominatore comune: i depistaggi ad opera di settori deviati dello Stato.

Le stragi mafiose

Sono proprio i depistaggi ad accomunare le stragi terroristiche di matrice neofascista degli anni di piombo a quelle di mafia del 1992-1993. Giovanni Falcone venne ucciso il 23 Maggio 1992 e, sebbene nei mesi precedenti la mafia avesse potuto colpire il giudice con un commando armato che seguiva i suoi spostamenti nella città di Roma (dove ricopriva il ruolo di Direttore generale degli affari penali al Ministero della Giustizia), l’attentato di Capaci fu studiato scientemente affinché la sua resa fosse tragicamente scenografica e dunque ancor più destabilizzante. Infatti, nel Febbraio 1992, Riina fece arrivare ai suoi uomini “in trasferta” il contrordine: bisognava organizzare un “attentatuni” di proporzioni macroscopiche e farlo in Sicilia. Dopo la morte del giudice, qualcuno ebbe accesso alla sua agenda elettronica Casio e manomise alcuni file, tra cui quelli che contenevano le schede di Gladio, struttura paramilitare clandestina operante in Italia su cui il giudice stava concentrando le sue indagini. Elaborata dai membri permanenti dell’alleanza atlantica con finalità resistenziale rispetto al pericolo comunista, l’organizzazione era coordinata dal Gladio Committee, organismo bilaterale composto dalla CIA e dal servizio segreto militare italiano (SIFAR). Interessante è inoltre notare come Pietro Rampulla, il mafioso noto come “l’artificiere”, identificato per avere avuto un ruolo fondamentale nella strage che uccise il giudice Falcone e gli uomini della sua scorta (confezionò l’ordigno che venne posto sotto l’autostrada) e che fu per questo condannato all’ergastolo con sentenza definitiva, fosse militante di Ordine Nuovo e molto vicino a Rosario Pio Cattafi, mediatore tra gli ambienti di Cosa Nostra, dei servizi e della massoneria deviata.

L’omicidio Borsellino

Anche la strage di Via d’Amelio è caratterizzata dalle stesse ombre. Il primo aspetto saliente è l’improvvisa accelerazione del delitto decretata da Totò Riina. Paradossalmente, ciò avvenne nel momento meno favorevole per Cosa Nostra, dal momento che il Parlamento stava lasciando decadere il Decreto che, dopo la morte di Falcone, aveva introdotto il regime di carcere duro 41-bis: ovviamente, sull’onda dell’indignazione popolare, esso fu convertito in legge subito dopo la morte di Borsellino. Dalle testimonianze dei pentiti ascoltati da Borsellino e dei familiari del giudice sappiamo che, proprio nel corso delle settimane precedenti alla sua morte, egli aveva scoperto i legami con Cosa Nostra del numero tre del SISDE Bruno Contrada e che un uomo gli aveva riferito che il Generale Subranni (il capo del raggruppamento che stava portando avanti la cosiddetta “Trattativa Stato-mafia”, ovvero il ROS dei Carabinieri) fosse “punciuto”, ovvero affiliato alla mafia. Sarà un caso ma, come riferito dallo stesso colonnello Michele Riccio, l’infiltrato Luigi Ilardo gli parlò anche delle collusioni con la mafia di Antonio Subranni e di Bruno Contrada, definendo quest’ultimo «l’anello di congiunzione tra mafia e istituzioni, l’uomo dei misteri».

Sappiamo poi che Gaspare Spatuzza, il mafioso che materialmente eseguì la strage (organizzata dai fratelli Graviano, i boss di Brancaccio), incontrò all’interno del garage in cui venne imbottita di tritolo l’autobomba che provocò la morte del giudice un membro esterno a Cosa Nostra, da lui inizialmente indicato come somigliante a un appartenente dei servizi segreti. Inoltre, pochi minuti dopo lo scoppio della bomba, districandosi tra cadaveri bruciati e macchine fumanti, una mano istituzionale tolse dal perimetro della strage l’agenda rossa in cui il giudice stava annotando tutti gli spunti investigativi emersi dopo la morte di Giovanni Falcone.

Una logica “politica”

Qual è, insomma, il legame che unisce la logica sanguinaria della strategia della tensione degli anni ’70 e quella del terrorismo mafioso del ’92 e del ’93 (anno in cui, alzando l’asticella del ricatto, Cosa Nostra colpì le città del nord e del centro Italia, provocando la morte di 10 persone, tra cui due piccole bambine)? Innanzitutto, il clima di fortissima instabilità politica. Nel primo caso, essa fu manifestata dal grande successo del PCI alle elezioni nazionali del 1968 e dalle lotte sindacali operaie e studentesche che avevano animato l’ “autunno caldo” del 1969; nel secondo caso, occorre ricordare come le inchieste di Mani Pulite avessero raso al suolo i partiti “storici” della prima repubblica (compresi la DC, tradizionale referente di Cosa Nostra, e il PSI, che la mafia appoggiò in ottica garantista alle elezioni del 1987 per punire i democristiani che non avevano ottenuto lo stop del Maxiprocesso), aprendo le porte al potenziale trionfo della “Gioiosa macchina da guerra”, coalizione di sinistra guidata da Achille Occhetto alle elezioni del ’94: pericolo scongiurato dalla discesa in campo di Berlusconi, resa pubblica il 26 Gennaio 1994 (data che, coincidenza delle coincidenze, segnerà la fine della campagna stragista mafiosa dopo il fallito attentato allo Stadio Olimpico di Roma datato 23 gennaio, che non verrà più replicato). Storicamente provati sono i collegamenti tra Forza Italia e gli ambienti mafiosi (Berlusconi finanziò Cosa Nostra per vent’anni, firmando un patto di protezione con il boss Stefano Bontate nel ’74; Marcello Dell’Utri, braccio destro del Cavaliere e intermediario di questo patto, è stato condannato definitivamente a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa; numerosi pentiti di prim’ordine hanno confermato l’appoggio mafioso al progetto berlusconiano) e con la massoneria (il Cavaliere aderì alla P2 di Licio Gelli con la tessera 1816 e altri deputati di Forza Italia sono presenti nelle liste degli appartenenti alla Loggia). Il Generale Mori, che in qualità di Ufficiale del ROS fu protagonista della mancata perquisizione del covo di Riina e del mancato arresto di Bernardo Provenzano, giocando peraltro un ruolo fondamentale nella trattativa Stato-mafia, sarà nominato capo dei servizi segreti dal Governo di Silvio Berlusconi, che guiderà da Premier il Paese per quattro volte.
“Destabilizzare per stabilizzare”. Ancora una volta.

[di Stefano Baudino]

Milano: grande manifestazione contro il Green Pass

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Migliaia di persone si sono recate questo pomeriggio all’Arco della Pace, a Milano, per partecipare alla manifestazione contro il Green Pass promossa da Robert Kennedy Jr, nipote di John Fitzgerald Kennedy. Quest’ultimo ha tenuto un discorso in cui ha principalmente criticato il certificato verde, mentre i manifestanti hanno scandito alcuni slogan tra cui «la gente come noi non molla mai».

Summit sulla Libia a Parigi: il gioco di potere dietro alla transizione democratica

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Il 12 novembre si è tenuto a Parigi un summit internazionale con oltre venti Paesi partecipanti per discutere delle elezioni presidenziali in Libia, previste per il prossimo 24 dicembre. Le potenze coinvolte hanno esortato la Libia ad attenersi al piano per lo svolgimento delle elezioni ed esortato i mercenari stranieri ancora presenti ad abbandonare il territorio, minacciando sanzioni contro chiunque minacci o danneggi la transizione politica. Come spesso accade in questi contesti, la pretesa di una transizione democratica cela gli interessi in gioco di tutte le parti, che vedono nella Libia un’importante fonte di approvvigionamento energetico e una zona di importanza strategica per allargare la propria influenza nelle zone nordafricane.

Sono previste per il 24 dicembre prossimo le elezioni presidenziali libiche, sostenute dal Governo transitorio istituito il 5 febbraio scorso e guidato dal primo ministro Abdul Hamid Dbeibah. Durante la conferenza internazionale tenutasi il 12 novembre a Parigi, voluta da Francia, Germania e Italia con l’appoggio delle Nazioni Unite, è stato ribadito l’appoggio alle elezioni e la necessità di fare in modo che le truppe mercenarie straniere abbandonino lo Stato il prima possibile, prevedendo sanzioni per chi abbia intenzione di minacciare la transizione politica. Secondo l’ONU, le elezioni rappresentano un momento chiave nel processo di pace, ma lo svolgimento è ancora dubbio, in parte a causa della complicata e frammentata situazione politica in Libia, che rende difficile arrivare a un accordo su programma e candidati.

All’incontro hanno partecipato i leader di Paesi quali Francia, Germania, Italia, Libia, Egitto e Stati Uniti (rappresentati dalla vicepresidente Harris). Turchia e Russia, i due Paesi maggiormente coinvolti nel conflitto, hanno inviato rappresentanti di minor livello. Si tratta di una decisione di un certo peso, in quanto i due Stati dispongono di un gran numero di forze armate sul territorio: la Turchia a favore del governo di Tripoli, la Russia dell’Esercito di liberazione nazionale (LNA) guidato dal generale Haftar. I due poli costituivano i principali fulcri in contrasto prima della formazione del Governo di transizione. Russia e Turchia non hanno richiamato le proprie milizie nemmeno dopo che a Ginevra, in un incontro con il Comitato militare congiunto libico, è stata stabilita l’interruzione delle ostilità e la partenza delle forze straniere dalla Libia entro tre mesi.

Di certo gli interessi di tutte le parti in Libia sono inconfutabili e vanno ben oltre il filantropico intento di garantire la transizione democratica e la pace. La Turchia nutre un certo numero di interessi in Libia, legati principalmente alla definizione delle zone economiche esclusive marittime, di importanza strategica per le dinamiche energetiche, soprattutto per quanto riguarda il gas. La Libia costituirebbe inoltre un territorio strategico per allargare l’influenza turca in Medio Oriente e Nord Africa. La Russia, dal canto suo, ha voluto controbilanciare il potere della Turchia offrendo il proprio supporto al LNA di Haftar, assicurandosi una propria zona di influenza e potere nella regione.

I Paesi europei nutrono ciascuno la propria dose di interessi. Per fare solo un esempio, l’Italia ha nella Libia un importante partner economico e strategico, vista la presenza di Eni  nel Paese da più di 50 anni. La multinazionale non ha sospeso le proprie attività in Libia nemmeno durante la guerra civile, che ha portato diverse altre aziende italiane a ritirarsi dal territorio per garantire la sicurezza dei lavoratori. La Libia ha inoltre il potere di regolare il traffico di migranti verso i nostri porti, fattore che veniva utilizzato già da Gheddafi come arma di pressione geopolitica.

A complicare la fattibilità della transizione democratica vi è il fatto che l’unificazione istituzionale voluta con la definizione di un Governo di transizione non riflette l’effettiva situazione del Paese, profondamente diviso da anni di guerra civile e conflitti. Nei giorni scorsi, per esempio, il capo dell’Alto Consiglio di Stato libico al-Mishri ha invitato la popolazione a boicottare il voto dopo l’annuncio della candidatura del generale Haftar e ha criticato i Governi occidentali in quanto a conoscenza dello stato lacunoso delle leggi elettorali. Non esiste, inoltre, un accordo sulla base costituzionale dell’elezione, i cui tempi di svolgimento sono essi stessi causa di scontro. Inoltre è probabile che tra i candidati alla presidenza vi sia anche Dbeibah, ma se questo fosse vero si tratterebbe di una violazione agli accordi che hanno sancito la nascita del governo provvisorio e che prevedevano il ritiro di tutti i ministri una volta convocati i comizi elettorali.

La situazione appare complessa e difficilmente risolvibile nelle brevi tempistiche imposte dai governi occidentali. Rimane da osservare quale sarà lo svolgersi dei fatti nelle prossime settimane.

[di Valeria Casolaro]

India: a Delhi scuole chiuse per una settimana a causa dello smog

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In India, precisamente a Delhi, le scuole resteranno chiuse per una settimana a causa dello smog. A comunicarlo è stato il primo ministro di Delhi Arvind Kejriwal, il quale ha affermato che le scuole non apriranno a partire dalla giornata di lunedì così da evitare che i bambini respirino aria inquinata. La quantità di smog presente nella megalopoli, infatti, è attualmente molto elevata.

L’enorme fake news di Bassetti sulla mortalità del Covid nei bambini

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Il primario del reparto di malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova, Matteo Bassetti, ha divulgato in diretta tv una vera e propria fake news sulla mortalità del Covid-19 nei bambini. Durante la puntata del programma “Piazza Pulita” andata in onda su la7 giovedì scorso, Bassetti ha infatti affermato che i bambini devono essere vaccinati perché, in base ai dati dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), «nella fascia tra i 6 e i 10 anni sono stati ricoverati circa 1100 bambini e la mortalità nei loro confronti è di 5 su 1000» mentre nella fascia successiva (11-13 anni) vi sono state «861 ospedalizzazioni, cosa che fa sì che la mortalità sia praticamente dell’1%».

Si tratta però di una percentuale falsa: basterà ricordare che dai dati dell’ISS si apprende che dall’inizio della sorveglianza relativa ai pazienti deceduti e positivi al Covid a morire nella fascia di età 0-19 anni sono state 35 persone. In tal senso siccome da 0 a 19 anni in Italia ci sono circa 10.000.000 individui, la mortalità risulta aggirarsi intorno allo 0,0003%, e non all’1% citato da Bassetti. La letalità invece, come si può facilmente verificare, è pari allo 0,01%. Bisogna infatti fare una differenza tra mortalità e letalità: la percentuale relativa alla prima deriva dal rapporto tra il numero dei morti e la quantità della popolazione media (dunque anche quella non risultata positiva al virus). Quella relativa alla seconda, invece, deriva dal rapporto tra i morti e il totale dei soggetti ammalatisi.

Nonostante tutto ciò, però, nessuno degli ospiti in studio è intervenuto per sottolineare la fake news diffusa da Bassetti ad eccezione di Maddalena Loy della Rete Nazionale Scuole in presenza. Quest’ultima ha infatti correttamente ricordato come i dati a nostra disposizione ci dicano che «la percentuale sui decessi da 0 a 19 anni è dello 0,0003%» ed ha definito un «dato inventato» quello della mortalità dell’1% nei bambini citato da Bassetti, che si è successivamente limitato a correggere le sue dichiarazioni parlando dello «0,9%». Altra percentuale che però, alla luce dei fatti, risulta comunque essere errata.

[di Raffaele De Luca]

Italia: da inizio pandemia 327mila lavoratori indipendenti in meno

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Dal mese di febbraio 2020 (ossia il mese precedente all’inizio della pandemia) a quello di settembre 2021 i lavoratori indipendenti, ovvero gli autonomi e le partite Iva, sono diminuiti di 327mila unità. A calcolarlo è stato l’Ufficio Studi della Cgia di Mestre, dal quale si apprende che ad aumentare leggermente sono stati invece i lavoratori dipendenti: nel medesimo periodo, infatti, gli impiegati e gli operai sono aumentati di 13mila unità. Tale numero però deriva dal fatto che sono stati registrati più lavoratori assunti a tempo determinato, che in tale arco temporale sono cresciuti di 108mila unità, mentre gli occupati a tempo indeterminato sono diminuiti di 95mila unità.

Il potere, la lepre e la tartaruga

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Pochi libri sono interessanti, nei tempi che stiamo vivendo, quanto “Il potere” di James Hillman (Rizzoli 2003), dove il potere, legato al business come suo oggetto privilegiato, diventa principalmente un modo di pensare. Pensare in un’epoca in cui la religione monoteistica prevalente è l’economia, dove ogni decisione è subordinata al profitto, dove le relazioni interpersonali, anche quelle affettive, sono gestite in termini di tattica e strategia, come se si fosse in perenne stato di allarme o di guerra. Ora ci stiamo davvero rendendo conto come pensiero unico e potere accentrato siano indispensabili l’uno all’altro.

Le cose, però, considerate ad esempio con la psicologia cognitivista di Guy Claxton, (“Il pensiero lepre e la mente tartaruga”, Mondadori 2002) potrebbero andare un po’ diversamente. Il pensare fronteggia il capire, le modalità sintetiche che portano a decisioni si oppongono a quelle analitiche che privilegiano il riflettere, il meditare, il ponderare. La razionalità esecutiva del linguaggio algebrizzato collude con la tempistica dell’intuito e della sorpresa, il calcolo con le sue proiezioni e previsioni trasforma tutto in bilancio, mentre la comprensione è un processo che non si può dare termini ultimativi.

C’è insomma una ermeneutica del potere, uno svelamento possibile, il convergere e divergere di forze che operano incessantemente. Sembra quasi che la speranza sia dell’ordine di grandezza dell’intuito, dell’ispirazione, mentre il risultato, l’obiettivo appartengano alle modalità di un potere che pensa ma non capisce. Che non è interessato a capire ma a raggiungere certi scopi, con quell’ accanimento e quella precisione tipici dell’ossessione totalitaria.

Chi governa è come l’amministratore delegato di una squadra di calcio, gli interessa il costo dei giocatori e il risultato. Ma si dimentica il ruolo dell’allenatore, il bisogno di fare squadra, il posto sacro dello spogliatoio che è come il letto di una coppia.

E la lepre, e la tartaruga? La prima pensa, decide, esegue, usa un linguaggio pratico, privo di coloriture, asciutto ma in fondo ambiguo. Non si interessa delle risposte che potrebbe ricevere, non mette in discussione nulla, pensa e agisce coi decreti legge, comanda, usa l’indicativo, l’imperativo, non lascia spazi. Le interessa il segno di assenso non la risposta. La tartaruga invece è sorniona, ha capito che esistono delle priorità, aiuta la verità a uscire allo scoperto. Le piace il condizionale, è tollerante ma non stupida. Magari vorrebbe correre, arrivare rapidamente a risultati , ma sa che molto è già scritto. Sa aspettare, sa che le nuvole sono formate da energie sottili.

Chissà, a voler essere ottimisti a tutti i costi, dovrebbe finire come quel simbolo dell’estremo Oriente, il trampoliere poggiato sulla tartaruga. Capire e comprendere che si condizionano e sono alleati. Questo però non è il caso di oggi, ci sono troppe lepri in giro. Ma, nel bene e nel male, è stagione di caccia.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

Veramente la cannabis è una medicina? Tutto quello che c’è da sapere

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Sì, la Cannabis è una medicina e lo è da migliaia di anni. Solo ora, però, man mano che la ricerca progredisce e le terapie si dimostrano sempre più efficaci, molti Paesi stanno modificando la legislazione per garantire ai cittadini un diritto fondamentale, quello alla salute. Ecco tutto quello che c’è da sapere sulla medicina più antica del Ventunesimo secolo.

Cosa si intende per cannabis terapeutica?

Quando si parla di Cannabis terapeutica o Cannabis Medicinale (CM) si fa riferimento all’utilizzo in medicina della pianta, presentata in diverse modalità, dalle infiorescenze agli oli, passando per colliri, compresse, creme, supposte ed estratti. La CM, per essere considerata tale, deve avere principi attivi standardizzati e rispettare tutti i passaggi previsti per l’approvazione dei farmaci, dalla coltivazione alla preparazione, così da fornire al paziente un prodotto non contaminato e con principi attivi ripetibili.

In questo contesto, la CM viene definita un fitocomplesso, ossia una pianta con un ricco insieme di componenti chimici naturali dalle proprietà terapeutiche e, dunque, non legata a un unico principio attivo. In particolare, a renderla un’importante risorsa medica sono gli oltre 100 cannabinoidi individuati al suo interno e i terpeni, più di 200 e suoi componenti principali noti come antisettici, antinfiammatori e ansiolitici. A questi si aggiungono i flavonoidi e altre sostanze.

Come la cannabis interagisce col nostro corpo

Nonostante l’elevato numero di principi attivi, sono due le componenti terapeutiche protagoniste: il cannabidiolo (CBD) e il Delta-9-tetraidrocannabinolo (THC), spesso stigmatizzato per i suoi effetti psicotropi, ma che, se assunto in dosi controllate, ha numerosi effetti positivi sull’organismo. Entrambi interagiscono con il sistema endocannabinoide: una rete di comunicazione tra le cellule del corpo umano che collega gli organi e le diverse zone contribuendo a gran parte delle sue funzioni vitali e, soprattutto, a mantenere l’equilibrio interno, detto omeostasi.

Nel sistema sono coinvolti tre attori: endocannabinoidi (cannabinoidi prodotti dall’organismo), recettori ed enzimi. I primi sono molecole che, al mutare delle condizioni, attivano i recettori che a loro volta innescano una reazione nelle cellule per mantenere l’equilibrio del corpo; gli enzimi, infine, hanno il compito di dissolvere ed eliminare le molecole non più necessarie al bilanciamento dell’omeostasi in modo che non si accumulino creando ulteriori danni o complicazioni.

Interagendo con il sistema endocannabinoide, CBD e THC possono contribuire al suo corretto funzionamento in caso di interferenze esterne o squilibri aiutando a moderare la sensazione di dolore, infiammazioni, ansia e stress o contribuendo alla sensazione di appetito o piacere. Attualmente sia i cannabinoidi che i farmaci oppioidi, come la morfina, vengono utilizzati nel trattamento del dolore, ma i secondi sono soggetti al rischio di abuso, una situazione che, secondo i dati del National Institute on Drug Abuse statunitense, ha coinvolto tra il 21% e il 29% dei pazienti e nel 2019 ha portato alla morte per overdose di circa 50.000 persone. Il numero è stato superato tra giugno 2019 e maggio 2020, quando gli USA hanno registrato un nuovo record di overdose: 81.000 vittime in 12 mesi. La Cannabis Medicinale si pone quindi come una valida alternativa, con risvolti positivi sia dal punto di vista terapeutico che sociale.

I principi attivi contenuti nella cannabis e i loro benefici

Le patologie trattabili con la cannabis

Le molte proprietà della Cannabis si rivelano utili per numerose condizioni e patologie. Le sue proprietà analgesiche, per esempio, sono importantissime per chi soffre di dolore cronico, fibromialgia, endometriosi o dolori mestruali; le proprietà anticonvulsivanti aiutano invece i pazienti affetti da epilessia e Parkinson; quelle ansiolitiche supportano in caso di insonnia, ansia o stress. Non solo, grazie alla capacità del THC di alleviare nausea e vomito, la CM viene utilizzata da decenni anche per controllare gli effetti della chemioterapia o delle terapie contro l’HIV. E questi sono solo alcuni esempi.

Agli utilizzi già consolidati si aggiungono quelli in fase di ricerca. Tra il 2020 e il 2021, infatti, gli studi sulla CM hanno raggiunto un picco, portando a nuove teorie e scoperte che potrebbero rivoluzionare il mondo della medicina. È il caso dello studio che ha analizzato il potenziale effetto del CBD contro il cancro grazie all’azione sui geni chiave, ma anche di quello dedicato alla capacità del THC di disgregare gli agglomerati di Beta amiloide, tra le principali cause dell’Alzheimer. La ricerca, insomma, si sta ramificando e sta fiorendo in importantissime scoperte, ma tutto parte dalle sue antiche radici.

La storia della cannabis come medicina

Per quanto fondamentali per lo sviluppo di nuove terapie, infatti, le ricerche stanno in realtà cercando di dare una spiegazione teorica e scientifica a ciò che nella pratica si conosce da migliaia di anni.

Uno dei primi riferimenti alla Cannabis come medicinale, infatti, compare in un testo di oltre 5.000 anni fa che descrive le proprietà di più di 300 piante: lo Shen-nung Pen-ts’ao Ching (2737 a.C.), un volume che ha posto le basi per l’erboristeria cinese e dove la cannabis viene suggerita per oltre cento disturbi, dalla malaria ai reumatismi. Altrettanto antica è la testimonianza riportata nei Veda indiani, i testi in sanscrito risalenti al 2000 a.C. nei quali la cannabis è citata come una delle piante per liberarsi della sofferenza. Ma non c’è solo l’Asia. Anche Dioscoride Pedanio, medico e botanico alla corte di Nerone, la consigliava per le sue proprietà e come lui anche Plinio il Vecchio, che nel suo Naturalis Historia suggeriva diverse preparazioni a base di Cannabis.

Dopo secoli di utilizzo, però, papa Innocenzo VIII, con la bolla papale del 1484 (Summis desiderantes affectibus), ne proibì il consumo e l’utilizzo ai fedeli. L’ordine rientrava in una politica ben più ampia mirata a eliminare ogni tipo di eresia e stregoneria e contribuì con il tempo a creare un pregiudizio che nell’Europa cattolica del Medioevo trovò un terreno fertile nel quale crescere e prosperare.

Bisogna aspettare il 1839 per un cambiamento, avvenuto grazie al medico irlandese William B. O’Shaughnessy, che, durante un viaggio in India, riscopre la cannabis come medicina e decide di dedicarle un intero volume (On the preparations of the Indian hemp, or gunjah) nel quale approfondisce preparazioni e trattamenti di successo riscontrati per casi di convulsioni, spasmi e reumatismi. O’Shaughnessy risveglia così l’interesse della comunità scientifica dell’epoca e porta non solo alla prima conferenza dedicata organizzata dalla Ohio State Medical Society nel 1860, ma anche a una nuova ondata di ricerche che proseguirà per tutto il secolo successivo e che raggiungerà il massimo sviluppo tra gli anni ‘60 e ‘70.

La cannabis terapeutica oggi

Da allora la cannabis terapeutica ha fatto molta strada. La ricerca sempre più approfondita e il bisogno di controllare i sintomi del crescente numero di pazienti affetti da tumore e AIDS ha portato non solo alla formulazione di nuovi farmaci, ma anche a una letteratura scientifica più completa che ha spinto molti Paesi ad autorizzare il suo utilizzo. Ad aprire le danze è stata la California nel 1996, diventata il primo Stato al mondo ad adottare un sistema per disciplinare l’uso terapeutico; nove anni dopo è stato il turno del Canada, seguito da Paesi Bassi, Israele e Germania, solo per citarne alcuni.

E poi c’è stato il 2020. Nell’anno dell’emergenza sanitaria, infatti, la Commissione delle Nazioni Unite (ONU) ha compiuto un passo storico eliminando la cannabis dalla “Tabella IV della Convenzione Unica degli stupefacenti” e riconoscendone in via ufficiale gli effetti terapeutici; fino a quel momento era stata trattata al pari di oppiacei mortali come cocaina ed eroina. La ricerca, oltre che principale motore della declassificazione, sarà anche la sua prima beneficiaria, perché la decisione dell’ONU porterà alla nascita di nuovi studi in tutto il mondo.

Cannabis terapeutica in Italia

In Italia, la normativa sulla cannabis terapeutica è cambiata nel 2006, quando un’ordinanza del Ministero della Salute ha concesso non solo l’importazione di medicinali a base di THC (autorizzata dal 1998 per fini di ricerca), ma ha anche consentito ai medici di prescrivere preparazioni, allestite da farmacisti, utilizzando il Dronabinol o altre sostanze attive vegetali a base di cannabis terapeutica controllata.

A questo si sono aggiunti successivamente due decreti che hanno aggiornato le tabelle contenenti l’indicazione delle sostanze stupefacenti e psicotrope, uno nel 2007 e uno nel 2013. Il secondo, in particolare, ha allargato la prescrizione anche alla pianta e ai suoi derivati, consentendo così ai neurologi di prescrivere il Sativex®, un prodotto a base di CBD e THC per ridurre gli spasmi della sclerosi multipla. In generale, per la CM, la prescrizione medica non è ripetibile e la somministrazione avviene per via orale o inalatoria.

Un ulteriore passo avanti è stato fatto nel 2014, quando grazie a un accordo firmato tra il Ministero della Salute e quello della Difesa è stata autorizzata la produzione di preparazioni galeniche all’interno dello Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze, riducendo quindi non solo la dipendenza dall’importazione, ma anche i costi. La produzione toscana del Cannabis FM-2 è stata avviata nel 2016 e nel 2018 è stata seguita dalla varietà Cannabis FM-1, che prevede una percentuale di THC più elevata.

Le problematiche italiane

Nonostante il supporto teorico delle normative e l’avvio della produzione nazionale, però, la situazione a livello italiano non è delle più rosee. Da una parte, infatti, c’è la limitazione dell’utilizzo, autorizzato, nella maggior parte dei casi, solo di fronte al fallimento delle terapie tradizionali e limitato a specifiche patologie o condizioni. Dall’altra c’è il problema legato alla produzione, che attualmente non riesce a soddisfare il fabbisogno nazionale e costringe all’importazione senza però che sia garantita la continuità terapeutica ai pazienti. Una problematica, questa, che ha sollevato il dibattito sull’autoproduzione a fini terapeutici sia dentro che fuori dal Parlamento, dove a segnare la cronaca è stata la vicenda, conclusasi con l’assoluzione, di Walter De Benedetto, paziente affetto da artrite reumatoide imputato poiché coltivava cannabis a scopo terapeutico nella propria casa.

A queste problematiche si aggiunge la scarsa formazione dei medici, che anche in caso di necessità spesso non prescrivono la terapia non conoscendola approfonditamente, e la scarsa informazione dei pazienti, che molte volte non sanno di avere a disposizione questa opportunità. Ultimo, ma non meno importante, l’applicazione della normativa a livello regionale.

Ogni Regione, infatti, ha la possibilità di stabilire le proprie linee guida che possono spaziare dalla scelta delle patologie coinvolte fino alle modalità di prescrizione, passando per l’aspetto economico. In alcune, infatti, i medicinali sono a carico del Sistema Sanitario Regionaleè il caso di Emilia-Romagna, Lombardia e Puglia, per esempio — in altre, invece, è a carico dei pazienti, che si trovano così ad affrontare spese che superano i 300€ e, nei casi più complessi, arrivano anche a 1000€ mensili. La situazione avrebbe potuto cambiare nel 2017, quando è stato proposto un decreto fiscale secondo il quale la cannabis terapeutica sarebbe stata, a livello nazionale, a carico del sistema sanitario italiano, ma il decreto non è mai entrato in vigore creando così una situazione frammentata e di profonda disuguaglianza in termini di diritti alle cure. Ora, grazie alla mobilitazione dei cittadini e di alcuni membri del Parlamento, la situazione potrebbe cambiare. Lo scopriremo nel 2022.

[di Martina Sgorlon]