mercoledì 17 Settembre 2025
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Nella finanziaria spunta un emendamento che riduce le tasse a Philip Morris

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Quattro parlamentari leghisti hanno presentato un emendamento alla finanziaria per eliminare l’incremento progressivo dell’incidenza fiscale per il 2022 e il 2023 applicata al tabacco riscaldato. Si tratta di un settore nel quale la Philip Morris International (PMI) gioca il ruolo di leader mondiale. Il tutto a poco più di un anno dall’inchiesta, ancora aperta, che ha rivelato il legame tra Philip Morris e la Casaleggio Associati e i numerosi benefici fiscali dei quali ha goduto di conseguenza la multinazionale del tabacco, elargiti dal primo governo giallo-verde di Conte.

A presentare l’emendamento alla finanziaria sono quattro parlamentari della Lega: Faggi, Ferrero, Testor e Tosato. Ne dà notizia il Riformista, autore poco più di un anno fa dell’inchiesta che aveva portato alla luce il legame tra il colosso dell’industria del tabacco Philip Morris e la Casaleggio Associati, la società operante per il M5S che ha sviluppato la piattaforma Rousseau. Dall’inchiesta era emerso come PMI avesse versato oltre due milioni di euro nelle casse della Casaleggio Associati per alcune consulenze. A queste operazioni erano corrisposti importanti benefici fiscali per PMI, concessi dall’allora governo di coalizione Lega-M5S guidato da Giuseppe Conte.

La storia sembra tornare a ripetersi, questa volta grazie al partito di Salvini. A giudicare se l’emendamento sia attuabile sarà infatti il sottosegretario del Ministero dell’Economia e della Finanza, Federico Freni, il quale di recente ha sostituito il leghista Durigon nell’incarico e che ha stretti legami con Salvini e il suo partito.

Il leader della Lega Matteo Salvini avrebbe stimato, in caso di approvazione dell’emendamento, una perdita dello Stato di “appena 55 milioni”: secondo il Riformista la cifra ammonterebbe almeno a 75 milioni di euro per il 2022 e 150 per il 2023, considerato che il tasso di crescita del tabacco riscaldato si aggira intorno al 60% su base annua. Anche considerando un tasso di crescita più basso, le cifre sarebbero comunque molto più alte di quelle suggerite dal leader della Lega. Una perdita che va a intaccare direttamente le tasche dello Stato e, di conseguenza, dei cittadini.

Nemmeno la crisi innescata dalla pandemia è riuscita a intaccare il potere della lobby. Nel 2020 viene infatti bocciato dal Governo l’emendamento presentato da Cittadinanza attiva e firmato da numerosi parlamentari che proponeva il rialzo delle tasse sul tabacco riscaldato e la creazione di un fondo cospicuo a sostegno della sanità, messa fortemente in crisi dalla pandemia da covid-19.

Secondo quanto riporta il Riformista nello stesso periodo l’Università di Bologna ha diffuso uno studio che rivelava che nel tabacco usato per le sigarette elettroniche Philip Morris erano contenute sostanze cancerogene. L’informazione è stata prontamente accantonata dal Governo, che ha evidentemente preferito schierarsi per gli interessi della lobby del tabacco. La quale, con un esborso di poco più di due milioni di euro (una cifra esigua per una multinazionale della portata di PMI) ha avuto la meglio sul diritto alla salute dei cittadini.

[di Valeria Casolaro]

Prezzi gas alle stelle, pesa la disputa su gasdotto russo

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Lunedì 13 dicembre i prezzi del gas in Europa sono aumentati quasi del 10%, raggiungendo quasi i massimi storici di 115,7 dollari per MWh. A causare il rialzo vi sono diversi fattori, tra i quali l’incertezza per la messa in funzione del gasdotto Nord Stream 2, per il quale la Germania ha sospeso l’iter di certificazione. Il gasdotto infatti “non soddisfa i requisiti del diritto europeo”, ha dichiarato la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock, che ha aggiunto come vi siano anche “questioni legate alla sua costruzione”. Dopo le perdite dello scorso anno, la società russa Gazprom ha registrato 6,8 miliardi di profitti nei mesi tra luglio e settembre prevede cifre ancora superiori per l’ultimo trimestre del 2021.

 

Serbia, la lotta dei cittadini per impedire un disastro ambientale

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Proteste serbia

In Serbia, nella capitale Belgrado e in altre città, continuano per la terza settimana di fila le manifestazioni antigovernative contro la grande miniera di litio che dovrebbe sorgere nell’ovest del paese. Secondo i gruppi ambientalisti, lo sfruttamento delle risorse nella cosiddetta “Jadar Valley” causerebbe ripetuti disastri ambientali.

I motivi per cui i manifestanti occupano le strade sono diversi, ma hanno tutti a che fare con la salvaguardia del paese. Il Governo aveva infatti deciso di promulgare due nuove leggi: la legge sull’Esproprio e la legge sul Referendum. Entrambe avrebbero permesso ad aziende straniere di sfruttare molto facilmente le terre serbe e le loro risorse minerarie. Con ingenti danni che avrebbero peggiorato una situazione già molto critica: la Serbia è tra i Paesi più inquinati d’Europa.

 Anche se, in seguito alle proteste, il Presidente Vučić ha deciso di sospendere la norma sull’espropriazione di terreni, ora la popolazione continua a protestare perché vuole molto di più: che il progetto di sfruttamento della miniera da parte della multinazionale anglo-australiana Rio Tinto venga del tutto bloccato.

 La multinazionale in questione ha dichiarato di voler investire 2,4 miliardi di dollari nel progetto della miniera. La Rio Tinto tenta di concludere le trattative con la Serbia dal 2006, anno in cui nella regione di Loznica sono stati individuati i primi ricchi giacimenti. Non dovrebbe essere complicato capire da che parte stare, dal momento che, nel corso del suo operato, l’impresa ha già ricevuto numerose accuse per “deterioramento ambientale e sfruttamento del lavoro nelle miniere”.

Negli ultimi anni il litio è tra i materiali più ambiti e ricercati nel settore delle risorse rinnovabili. Basti pensare che viene usato anche per la costruzione delle batterie delle macchine elettriche.

E la “Jadar Valley”, per la precisione il villaggio di Gornje Nedeljice, ne dispone di grandi quantità. Se il Governo avesse reso legge a tutti gli effetti la proposta sulle espropriazioni, probabilmente per gli abitanti del posto ci sarebbe stato bene poco da fare. La società civile criticava la nuova normativa proprio perché avrebbe considerato le istanze della popolazione locale pari a zero. Nello specifico Gornje Nedeljice è un piccolo villaggio serbo, che custodisce uno dei più grandi giacimenti di litio d’Europa. Con 136 milioni di tonnellate di minerale, da solo potrebbe coprire il 10% della domanda globale.

Per questo motivo cresce la paura di un grosso disastro ambientale. “Se il progetto Jadar andrà in porto, tutto ciò che ci circonda sarà distrutto, piante, animali. L’aria verrà inquinata. Dovremo comprare l’acqua in bottiglia. Ovunque passa Rio Tinto è la fine. Zone abbandonate. Quando poi capiscono che il minerale è esaurito i leader del colosso abbandonano il territorio ormai devastato. Ma terreni, aria e acqua si riprenderanno solo tra 500 o forse 1000 anni”, dice un manifestante a Euronews.

Gli slogan recitati dagli attivisti in queste settimane riportano frasi come “Non daremo via la natura in Serbia”, “Fermate gli investitori, salvate la natura” e “Per la terra, l’acqua e l’aria”. Fino ad ora pare che il Presidente abbia dato retta ai manifestanti. Effettivamente non esiste ancora una vera e propria miniera, ma gli investitori non mollano e i Governi sono soliti cedere davanti a ingenti quantità di denaro.

“Sono sicuro e convinto che il governo, dopo la mia decisione, accetterà di non inviare questa legge al Parlamento”, ha detto Vučić. Ma la Serbia rimane comunque una zona “calda”, sia sul fronte proteste che per gli interessi delle multinazionali. Proseguono infatti le manifestazioni anche contro la miniera di rame e oro di Čukaru Peki, di proprietà del colosso Zijin Mining, già aperta e accusata di devastare con agenti inquinanti la terra e l’acqua dei dintorni.

[di Gloria Ferrari]

Haiti, assassinio Moise: probabili legami con il traffico di droga

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Il presidente di Haiti Jovenel Moise potrebbe essere stato assassinato per aver cercato di denunciare al governo americano alcuni politici e uomini d’affari legati al traffico di droga. Lo rivela un’inchiesta portata avanti in questi mesi dal NY Times. Moise, assassinato la notte del 7 luglio nella propria casa, avrebbe infatti chiesto a funzionari del suo governo di stilare una lista nera di personaggi legati al mercato della droga, tra i quali figuravano anche suoi ex sostenitori. Le indagini ufficiali sul suo omicidio non hanno avuto sino ad ora sviluppi significativi. Haiti si trova al momento in una situazione complessa, con la corruzione diffusa al punto di rendere difficile per le forze dell’ordine statunitensi agire in aiuto di coloro che tentano di contrastarla.

Il ritorno di Roger Waters: “Se Assange è un criminale lo sono anch’io”

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Roger Waters, ex bassista dei Pink Floyd, ha espresso solidarietà nei confronti di Julian Assange, affermando di aver commesso il suo stesso reato per anni diffondendo il video di Collateral Murder durante i suoi concerti. «Stavo commettendo lo stesso crimine di Assange, che non è affatto un crimine».

Che Roger Waters sostenesse la causa di Assange non è mai stato un segreto. Il musicista ha ribadito la propria solidarietà nei confronti del fondatore di WikiLeaks nell’ambito di una conversazione promossa da Il Fatto Quotidiano e Progressive International, organizzazione per la mobilitazione di movimenti progressisti a livello internazionale. «Assange è stato molto importante perchè ha avuto l’idea di utilizzare la tecnologia contemporanea per dare a tutti noi la possibilità di essere il quarto potere» ha dichiarato Waters, che ha aggiunto: «senza una stampa libera non abbiamo nulla».

L’ex bassista dei Pink Floyd ha proiettato il video di Collateral Murder durante le tournée mondiali, in particolare durante quella di The Wall del 2010.«Stavo commettendo lo stesso crimine di Julian Assange, che non costituisce affatto un crimine. Io, come lui, stavo diffondendo il video davanti a migliaia di persone. […] Eppure lui è stato rinchiuso da allora, o nell’ambasciata ecuadoriana a Londra o nella prigione di Belmarsh, nella quale si trova da tre anni». A Waters, invece, il governo degli Stati Uniti non ha mai chiesto di rimuovere il video: «Non ho mai ricevuto nemmeno una cartolina dal governo!».

Waters è un dichiarato pacifista e da sempre fortemente critico delle politiche occidentali e statunitensi in diversi ambiti. «Dicono che la sovranità è demandata alle popolazioni e la chiamano democrazia, ma si tratta di una farsa perchè chiaramente non rappresenta il popolo» afferma, rivolgendosi poi alla giornalista con una risata: «Lei vive in Italia, per l’amor di Dio! Nessuna farsa è più ovvia e spregevole di quella del vostro grande Paese!».

[di Valeria Casolaro]

USA, almeno 93 morti e centinaia di dispersi per tornado

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Sono 93 le vittime accertate, e centinaia i dispersi, dopo che un tornado si è abbattuto su diversi stati americani, radendo al suolo parte della città di Mayfield, nel Kentucky. Il bilancio è destinato ad aumentare nelle prossime ore. Un magazzino di Amazon, nel quale stavano lavorando 110 persone, è stato completamente distrutto. Il governatore dello Stato Andy Beshear lo ha definito l’evento “peggiore nella storia del Kentucky”. Il tornado potrebbe aver percorso fino a 365 km: se questo dato fosse confermato, si tratterebbe della percorrenza più lunga nella storia degli Stati Uniti. Si tratta di un evento climatico insolito, sia per l’intensità che per la tempistica, dal momento che normalmente freddo invernale limita eventi simili. Molti ne hanno attribuito l’insolita intensità all’effetto del cambiamento climatico.

Covid, la strada contro corrente della Florida

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La Florida, lo stato Usa che ha scelto da tempo di adottare una politica decisamente poco restrittiva in ottica Covid, sta attualmente vivendo una situazione grossomodo simile a quella presente in altri territori statunitensi. Dopo aver fatto i conti con una nuova ondata durante il periodo estivo, con il picco di contagi registratosi a metà agosto (una media settimanale di 56.000 contagi) e quello dei decessi a metà settembre (una media settimanale di 644 morti), la curva epidemica è infatti iniziata a calare nonostante il governatore dello Stato, Ron DeSantis, abbia deciso di non imporre restrizioni per far fronte alla difficile situazione in quel momento presente e di schierarsi contro la linea politico-sanitaria dell’amministrazione Biden.

Attualmente infatti in Florida si viaggia ad una media settimanale di 1941 casi al giorno e di 46 morti al giorno: si tratta di numeri anche minori rispetto a quelli registrati in alcuni stati Usa come ad esempio la Pennsylvania, dove la media settimanale è di 8370 casi e 102 decessi al giorno. Inoltre, anche guardando al totale delle morti e dei contagi per milione di persone verificatisi dall’inizio della pandemia, la Florida sembra avere dei numeri simili a quelli riportati per gli altri stati Usa. Volendo poi fare un paragone con l’Italia, dove l’accesso a diverse attività è riservato esclusivamente ai possessori dell’ormai noto Super Green Pass e dove il 74,4% della popolazione si è sottoposto a due dosi del vaccino anti Covid – a differenza del 62,4% della Florida – ci si accorge di come i numeri attuali non siano di gran lunga migliori di quelli di quest’ultima: al momento infatti si viaggia a una media settimanale di 16.634 contagi al giorno e di 91 morti. Seppur il nostro Paese abbia una popolazione superiore (59,55 milioni di abitanti, più del doppio dei 21,48 milioni dello stato Usa) appare evidente che, dal punto di vista dei contagi, le restrizioni nostrane non abbiano prodotto risultati migliori.

Detto ciò, bisogna ricordare che mentre nel periodo in cui sono stati registrati i picchi la Florida veniva ampiamente citata dai media mainstream, che parlavano del «boom di casi» nonché del «fallimento della politica negazionista», attualmente lo stato è praticamente scomparso dai radar. Si tratta però di un caso certamente atipico del quale si dovrebbe dare notizia dato che, come anticipato precedentemente, la Florida da tempo non impone le classiche restrizioni a cui tutti noi siamo ormai abituati. In tal senso, come riportato dal terzo quotidiano statunitense per diffusione UsaToday, vi è stato un solo lockdown (ad inizio pandemia) durato poco più di un mese. Inoltre il governatore Ron DeSantis ha sospeso gli «ordini per l’emergenza COVID-19» il 3 maggio scorso ed ha limitato la possibilità del governo di imporre l’obbligo di indossare la mascherina ed il distanziamento sociale, mentre lo stato di emergenza è scaduto il 26 giugno.

A tutto ciò si aggiunga che recentemente DeSantis ha firmato un pacchetto di leggi contro le norme federali che obbligano i lavoratori a vaccinarsi, vietando così ai datori di lavoro privati di imporre tale misura e permettendo ai dipendenti di scegliere tra numerose esenzioni o di sottoporsi a test periodici a spese dei datori, che nel caso violassero queste linee guida dovrebbero pagare una multa che può andare dai 10 mila ai 50 mila dollari in base alla grandezza dell’azienda. Gli enti governativi, poi, «non possono richiedere la vaccinazione a nessuno, compresi i dipendenti» ed anche le istituzioni scolastiche «non possono chiedere agli studenti di essere vaccinati contro il Covid». Inoltre, le scuole non possono nemmeno imporre «politiche relative alle mascherine» e «mettere in quarantena gli studenti sani».

Ma la politica sanitaria in controtendenza non si ferma qui: la Florida si è concentrata molto anche sulla prevenzione e sulla cura del Covid. Il Dipartimento della Salute dello stato, infatti, non solo ricorda che «i vaccini continuano ad essere ampiamente disponibili», ma invita anche i cittadini ad «ottimizzare la propria salute uscendo all’aperto, rimanendo attivi e mangiando cibi ricchi di vitamine e sostanze nutritive». Inoltre la Florida, che è stata tra i primi stati Usa ad ampliare significativamente l’accesso alle terapie con anticorpi monoclonali, «continua a garantire un’adeguata fornitura delle stesse», che «possono prevenire malattie gravi, ospedalizzazione e morte in pazienti ad alto rischio che hanno contratto o sono stati esposti al Covid-19».

[di Raffaele De Luca]

Torino, la multinazionale Yazaki licenzia i dipendenti in videochiamata

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Una videochiamata su Zoom con il capo, che in pochi minuti annuncia a tre dipendenti che sono licenziati con effetto immediato causa delocalizzazione del loro ufficio in Portogallo. È quanto capitato a tre impiegate nella sede di Grugliasco (Torino) della multinazionale giapponese Yazaki. Alle tre dipendenti sono stati immediatamente negati gli accessi alla piattaforma aziendale. Un licenziamento subito da parte di una multinazionale che non ha nessuna crisi aziendale in corso, giustificata con la sola decisione di spostare parte degli uffici in un altro paese europeo. Così, senza alcun preavviso, sono state lasciate senza lavoro tre donne, tra loro anche una madre separata di 50 anni. La Yazaki è una società che produce e commercializza cablaggi e sistemi di distribuzione elettrica per autoveicoli e che tra i primi clienti ha Stellantis, ovvero la ex Fiat.

A dare notizia del fatto sono stati i sindacati Cgil e Cisl. «Sono stati chiamati all’improvviso dai responsabili italiani dell’azienda, dicendo che era stato deciso così a livello europeo e che loro non potevano farci niente e li hanno licenziati — ha raccontato Stefania Zullo della Fisascat Cisl Torino al Corriere della Sera —. Avevamo avuto rumors di chiusure e problemi dalla Germania, essendo Yazaki una multinazionale, ma all’incontro del 10 settembre l’azienda ci aveva rassicurato, dicendo che erano voci prive di fondamento-. Nel 2021 Yazaki Italia ha fatto un solo giorno di cassa integrazione e ha chiuso il 2020 in utile — prosegue Zullo — eppure nella comunicazione effettuata ai tre lavoratori, la società ha detto che l’emergenza sanitaria li ha colpiti. Nel licenziare i tre impiegati non ha preso neanche in considerazione l’ipotesi di ricollocarli al proprio interno».

Continuano così i licenziamenti delle multinazionali in Italia a causa delle delocalizzazioni. Una materia sulla quale il governo Draghi si sta mostrando del tutto inerte. In seguito alla notizia il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, ha rilasciato parole apparentemente molto dure: «Non è giusto che possa cascare un licenziamento come una tegola dal tetto sulla testa di chi passa. Non è possibile che questo avvenga, non corrisponde alle indicazioni della nostra Costituzione […] Non possiamo diventare un Paese dove si viene a fare le vacanze, ma un Paese che deve mantenere un patrimonio industriale». Tuttavia le reali priorità di un governo si deducono dalle azioni messe in campo e non dalle dichiarazioni in favor di telecamera. Per questo le parole di Orlando suonano di facciata, considerando il fatto che lui stesso e il Partito Democratico di cui fa parte, non si sono mossi in alcun modo per varare una legge che regolamenti in modo severo le delocalizzazioni. Una proposta in questo senso è già pronta, depositata in Parlamento poche settimane fa e scritta direttamente dagli operai della GKN di Firenze (un’altra multinazionale che ha licenziato senza causa, se non quella di spostare la produzione dove risulta più conveniente). Se nel governo vi fosse una reale intenzione di impedire questi licenziamenti, basterebbe approvarla.

Blitz antimafia a Palermo: 7 arresti

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Questa mattina i carabinieri del Ros hanno dato esecuzione ad un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal tribunale di Palermo – su richiesta della Direzione distrettuale antimafia del capoluogo siciliano – nei confronti di 7 individui. Questi ultimi, appartenenti al mandamento palermitano di Villagrazia-Santa Maria di Gesù ed alla famiglia di Monreale, sono accusati a vario titolo di usura ed estorsioni aggravate dal metodo mafioso.

Catena di approvvigionamento: la guerra dei mari e dei mondi

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La crisi scatenata dalla “emergenza sanitaria”, con lockdown e restrizioni, ha fatto andare in tilt le catene di approvvigionamento globale con aumento del prezzo dell’energia, della logistica, delle materie prime e dei prodotti, con aumento dei tempi di consegna, rallentamenti e ritardi nella produzione e nella distribuzione. Nel settore marittimo il costo di spedizione delle merci è aumentato di 10 volte rispetto alla situazione pre-pandemica e lunghe file di navi si ammassano fuori dai porti che non riescono a compiere le operazioni in un tempo utile a smaltire il traffico. Sebbene la maggior parte dei traffici mondiali avvenga via mare, poco si conosce dei soggetti che operano nel settore commerciale marittimo. Le grandi compagnie marittime, tra alleanze, legami intrecciati e accordi geopolitici, rappresentano uno dei colli di bottiglia delle catene di approvvigionamento globale. Gli Stati Uniti si dicono preoccupati e il governo ha chiesto al Congresso di estendere i poteri di supervisione statunitense sul commercio marittimo globale: l’8 dicembre è stato approvato dalla Camera dei Rappresentanti l’Ocean Shipping Reform Act, in attesa del voto del Senato. Questo vorrà dire fare i conti con le potenti flotte marittime delle compagnie commerciali, con quegli “eserciti” che si contendono rotte navali e porti su scala mondiale.

Decine e decine di navi portacontainer attendo di poter entrare nei porti, come quello di Losa Angeles,  rimanendo a largo della costa – anche a più di 150 miglia nautiche – anche per alcune settimane. La Casa Bianca si è detta preoccupata della situazione generale riguardo l’approvvigionamento, anche perché il contraccolpo si avverte in settori strategici statunitensi quali la difesa e la sicurezza in cui intere commesse sono saltate a causa della mancanza di componenti: il settore ha visto la perdita di 87.000 posti di lavoro, il 4% del totale.

L’Ocean Shipping Reform Act sarebbe il disegno di legge più importante dopo l’aggiornamento della legge federale che disciplina il commercio marittimo globale del 1998.  Se approvata anche dal Senato, la legge andrebbe a rafforzare la Federal Maritime Commission (FMC) e la sua azione sulla catena di approvvigionamento estera, oltre a voler garantire l’equità nel settore globale del trasporto marittimo oceanico. «Questo è un primo passo importante per affrontare sia le pratiche di spedizione sleali a lungo termine impiegate dai vettori marittimi sia per aiutare a risolvere le interruzioni della catena di approvvigionamento della nazione», ha affermato Billy Johnson, capo lobbista dell’ISRI (Institute of Scrap Recycling Industries). Questo provvedimento legislativo statunitense andrebbe a sfidare apertamente il potere delle alleanze delle compagnie marittime, ponendo una serie di condizioni e spostando responsabilità e costi dei carichi in capo alle compagnie stesse.

Il commercio globale via mare dipende ormai da accordi che le più grandi compagnie marittime stringono tra di loro, tra alleanze e conflitti. Le alleanze tra compagnie marittime permette loro razionalizzare i costi e l’utilizzo delle risorse, rendendo più efficiente il lavoro delle compagnie stesse. Quattro sono le principali alleanze marittime: 2M; Ocean Three; G6 Alliance; CKYHE.

L’alleanza denominata 2M è formata da Mediterranean Shipping Company (MSC) – seconda compagnia a livello globale di linee cargo, con sede in Svizzera – e dalla danese A.P. MøllerMærsk (attiva anche nel settore dell’energia e della cantieristica). Ocean Three raggruppa invece la francese CMA CGM, la cinese COSCO Shipping Development e la United Arab Shipping Company (fondata da Bahrain, Iraq, Kuwait, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti). G6 Alliance è formata dalla tedesca HapagLloyd AG, la giapponese Nippon Yusen (parte del gruppo Mitsubishi), la Orient Overseas Container Line con sede ad Hong Kong, l’altro colosso giapponese Hyundai, Mitsui O.S.K. Lines (sempre giapponese) oltre all’American President Lines, con sede a Singapore e filiale della francese CMA CGM. CKYHE è l’alleanza marittima che riunisce Kawasaki Kisen Kaisha, nota come K-Line, con sede in Giappone, la Yang Ming Marine Transport Corporation con sede a Taiwan, la sudcoreana Hanjin e, nuovamente, la cinese COSCO Shipping Development.

Centinaia e migliaia di navi cargo appartenenti a queste compagnie, o da loro affittate, solcano ogni giorno i mari di tutto il mondo e determinano il funzionamento della catena globale di approvvigionamento.

La situazione di prolungata “crisi pandemica” pone le economie ancora sotto una pesante pressione che non permette una vera e propria ripresa che rischia di essere un miraggio spacciato da chi invece, consapevolmente o meno, aderisce alla ristrutturazione economica mondiale. Stando così la situazione, le analisi della molteplicità dei fattori che incidono sulle catene di approvvigionamento globale mostrano un ritorno alla normalità non prima del 2023.

Così, le onde generate dallo scuotersi dell’economia mondiale sotto i colpi del Grande Reset si avvertono adesso anche nei mari e negli oceani che si fanno così sempre più burrascosi.

[di Michele Manfrin]