lunedì 10 Novembre 2025
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Aeroporto di Catania, voli sospesi per rogo nelle vicinanze

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Nel pomeriggio di oggi, martedì 29 luglio, l’aeroporto di Catania è stato temporaneamente chiuso a causa di un incendio nelle sue vicinanze, che ha portato all’interdizione dello spazio aereo. L’incendio, sviluppatosi nella zona sud della città, ha reso pericolose le condizioni per il traffico aereo a causa della fitta coltre di fumo, sebbene le infrastrutture aeroportuali non siano state danneggiate. Tutti i voli sono stati sospesi e ai passeggeri è stato chiesto di contattare le compagnie aeree. Le operazioni di spegnimento sono state supportate da velivoli antincendio, Vigili del Fuoco e Polizia Municipale.

Anche secondo due ONG israeliane a Gaza è in corso un genocidio

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Le ONG israeliane B’Tselem e Physicians for Human Rights (PHRI), da tempo attive per i diritti dei palestinesi, hanno pubblicato due distinti rapporti in cui sostengono che ciò che Israele sta compiendo a Gaza è un genocidio. Dal 7 ottobre, è la prima volta che la società civile israeliana accusa il proprio Paese di genocidio. B’Tselem si concentra su tre aspetti: la vita sotto il regime di apartheid, l’uso sistemico della violenza contro i palestinesi, e il meccanismo istituzionalizzato di disumanizzazione del popolo palestinese. PHRI, invece, propone una analisi legale incentrata sulla questione sanitaria, che dimostra il «deliberato e sistematico smantellamento del sistema di sostentamento della vita a Gaza», attraverso attacchi agli ospedali e al personale medico-sanitario, e la negazione dell’entrata di aiuti umanitari. Entrambi i rapporti concludono che le azioni israeliane a Gaza violano la convenzione internazionale per la prevenzione del crimine di genocidio; i documenti segnano un primo momento di presa di coscienza da parte della società israeliana, e arrivano a qualche giorno da una manifestazione per chiedere al governo di fermare i bombardamenti a Gaza.

Il rapporto di B’Tselem si intitola Il nostro genocidio. Esso muove i primi passi dalla definizione del termine genocidio, inquadrandolo dal punto di vista giuridico e rimarcando come la commissione del crimine non implica necessariamente il tentativo di distruggere tutti i membri di un gruppo. «Il regime israeliano», si legge nel rapporto, ha mostrato «inequivocabilmente» il proprio intento genocida – elemento chiave per l’individuazione del crimine – nei confronti della popolazione palestinese. Il quadro risulta chiaro dalle dichiarazioni di ufficiali militari, funzionari e politici israeliani, e dai bombardamenti su aree civili, infrastrutture, zone umanitarie e ospedali. Il genocidio palestinese, sostiene B’Tselem, viene portato avanti in diversi modi: in primo luogo, uccidendo e provocando problemi di natura mentale alla popolazione civile palestinese; a riprova di questo primo punto, B’Tselem porta numerose figure ed esempi, primo fra tutti il numero di uccisioni dirette condotte dall’esercito israeliano a Gaza. L’ONG cita inoltre diversi studi che mostrano come la maggioranza (circa il 96%) dei bambini di Gaza avrebbe bisogno di supporto psicologico per i traumi subiti. Come a Gaza, anche in Cisgiordania e nelle proprie carceri Israele ha ucciso centinaia di civili, condotto attacchi aerei, e arrestato, umiliato e torturato i rappresentanti del palestinesi.

Accanto alle uccisioni e ai traumi provocati da Israele, vi è la sistematica distruzione delle condizioni di vita che, tanto a Gaza quanto in Cisgiordania e in Israele, si manifesta da ben prima del 7 ottobre, attraverso un autentico sistema di apartheid. A Gaza, la maggior parte della popolazione vive in condizioni di carestia, e le persone bisognose di cure sono private della possibilità di accedere a un sistema sanitario funzionante; in generale in tutta la Palestina, scrive B’Tselem, Israele controlla e limita la distribuzione di acqua, l’erogazione di elettricità, demolisce case e abitazioni, abbatte campi coltivati e danneggia direttamente le capacità economiche del popolo palestinese. Israele, inoltre, continua i rapporto, provoca deliberatamente lo sfollamento della popolazione civile tanto nel proprio territorio quanto in quello palestinese, porta avanti un genocidio culturale e sociale cancellando l’identità e la storia del popolo palestinese e porta avanti quello che il rapporto definisce «genocidio come processo» che affonda le proprie radici nella stessa nascita dello Stato di Israele: «Il genocidio è il risultato di uno sviluppo graduale», scrive il gruppo, un processo che avanza per fasi, a partire dalla disumanizzazione di un gruppo passando per la sua trasformazione in una minaccia esistenziale, per giungere infine alla giustificazione della sua cancellazione. Un processo, sostiene il gruppo, che Israele porta avanti da ottant’anni, e che nel 7 ottobre non ha fatto che trovare «l’elemento scatenante» per avviare la macchina genocidaria.

Se B’Tselem fornisce un quadro generale sul genocidio palestinese, soffermandosi su diversi aspetti, PHRI si focalizza su uno solo dei tanti crimini israeliani, arrivando alla medesima conclusione. Secondo PHRI, l’uccisione dei palestinesi, la negazione delle cure e degli aiuti, la distruzione degli ospedali e delle strutture rivolte alla maternità, rispondono ad almeno tre delle definizioni di genocidio delineate dalla Convenzione: l’uccisione di membri del gruppo oggetto del crimine, il causare danni mentali e fisici e l’inflizione deliberata di danni volti a distruggerlo. Proprio quest’ultimo è il punto maggiormente analizzato dal gruppo, che, a supporto della propria tesi, porta una lunga lista di casi in ordine cronologico e geografico. Il rapporto delle due ONG, che si battono da tempo per i diritti del popolo palestinese, arrivano a qualche giorno da una manifestazione contro l’esecutivo del Paese in cui i cittadini israeliani hanno sfilato mostrando foto di bambini di Gaza, chiedendo al proprio governo di fermare i massacri e permettere l’entrata di aiuti umanitari nella Striscia.

A Palermo importanti boss mafiosi sono tornati in libertà: l’antimafia in allerta

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Numerosi mafiosi di spicco stanno tornando in libertà a Palermo. Si tratta di personaggi apicali nelle gerarchie di Cosa Nostra, i quali, dopo aver scontato le loro pene, possono reinsediarsi nelle loro aree di influenza: tra questi, ci sono Calogero Lo Piccolo e Giovanni Sirchia, cui furono messe le manette nell’ambito di un’indagine incentrata sulla ricostituzione della Commissione mafiosa – organo di vertice della consorteria – in seguito alla morte di Totò Riina. Ma sono presenti anche Rosario Lo Bue, ex capomafia di Corleone, e Patrizia Messina Denaro, sorella di Matteo, che ebbe un ruolo attivo nella super-latitanza del boss. Il tutto avviene dopo che, negli scorsi mesi, hanno ottenuto la libertà vigilata – senza passare dalla collaborazione con la giustizia – molti altri esponenti di Cosa Nostra, tra cui killer spietati e addirittura un boss stragista. E ora, nel capoluogo siciliano, la preoccupazione torna ai massimi livelli.

A fare ritorno a casa, come rivelato da Salvo Palazzolo sull’edizione palermitana di Repubblica, sarà Calogero Lo Piccolo, figlio del “barone” Salvatore, importante capomandamento di San Lorenzo. Calogero era stato arrestato nel 2019 nell’ambito dell’indagine “Cupola 2.0”, con l’accusa di aver preso le redini del mandamento e di essere stato attivo nella ricostituzione della Commissione di Cosa Nostra. Quest’ultima, negli anni precedenti, era infatti stata decimata dagli arresti ed era scevra di una vera leadership. Dopo la morte di Riina, deceduto in carcere nel novembre 2017, Lo Piccolo – più volte arrestato e appena uscito dal carcere per un’altra condanna – era stato promotore e partecipe del primo meeting per ristrutturare le alleanze interne all’associazione mafiosa e rendere più efficiente il coordinamento tra le famiglie, alcune delle quali sull’orlo di un conflitto. Un altro personaggio che ha finito di scontare la sua pena è Giovanni Sirchia. Anche lui fu arrestato nell’ambito della medesima inchiesta, con l’accusa di avere organizzato logisticamente la riunione in cui i boss sancirono la rifondazione della Cupola. In tale cornice, venne eletto il nuovo capo di Cosa Nostra, il gioielliere palermitano Settimo Mineo, arrestato insieme a decine di altri mafiosi.

In questa lista spicca la figura di Rosario Lo Bue, ex capomandamento di Corleone. Classe 1943, la sua carriera criminale si è sviluppata all’ombra di Totò Riina e Bernardo Provenzano, che si sarebbero poi succeduti alla guida di Cosa Nostra dopo la Seconda guerra di mafia. Il potere di Lo Bue si estendeva in particolare nei settori della compravendita di bestiame e della grande distribuzione, in cui beneficiava anche dei relativi contributi comunitari. Nel 2023, erano stati definitivamente confiscati alla famiglia Lo Bue rapporti bancari, abitazioni, terreni, polizze assicurative, complessi di beni aziendali e di un magazzino per un valore complessivo di oltre 3 milioni di euro. Eccellente è anche il nome di Anna Patrizia Messina Denaro, tornata a Castelvetrano – feudo di suo fratello Matteo e, prima ancora, del capomafia Francesco, suo padre – dopo aver passato in galera gli ultimi 12 anni della sua vita. La donna era stata arrestata nel 2013 e successivamente condannata per i reati di associazione mafiosa ed estorsione, avendo gestito in prima persona le comunicazioni del superlatitante. Quest’ultimo venne catturato il 16 gennaio del 2023, morendo poi di cancro in carcere otto mesi dopo. Si andava dai tradizionali “pizzini” alle chat sui social network, anche grazie all’utilizzo di account fake.

La portata di questa vicenda risulta amplificata se si pensa che, negli ultimi mesi, è stata concessa la semilibertà a mafiosi responsabili di efferati omicidi che non hanno mai aperto bocca davanti ai magistrati sui loro pesanti trascorsi criminali. Tra loro, gli spietati killer di mafia Raffaele Galatolo e Paolo Alfano, lo storico capomandamento Ignazio Pullarà e ad altri mafiosi di spicco come Franco Bonura, Gaetano Savoca e Tommaso Lo Presti, che hanno potuto fare ritorno a Palermo. Ma anche il boss stragista Giovanni Formoso, punito con l’ergastolo per aver caricato l’autobomba utilizzata nell’attentato di via Palestro a Milano, il 27 luglio 1993, che causò 5 morti. Anche lui ha ottenuto la semilibertà – è la prima volta per un boss mafioso condannato per strage e mai pentitosi –, ma, almeno per ora, con il divieto di tornare in Sicilia. Il tutto è avvenuto a causa di un approccio giurisprudenziale molto più permissivo rispetto al passato, segnato da dirimenti sentenze della Corte Europea dei Diritti Umani e della Corte Costituzionale, che hanno reso non più assoluto il divieto di benefici penitenziari per la mancata collaborazione con la giustizia dei condannati.

Dentro l’accordo sui dazi: i punti della resa europea

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Sotto il cielo plumbeo della Scozia sud-occidentale, tra le colline di Turnberry, è andato in scena l’atto finale di una trattativa che si è trascinata per mesi e che, sotto la patina della “cooperazione transatlantica”, cela uno dei più clamorosi rovesci geopolitici per l’Unione Europea degli ultimi anni. Mentre la Casa Bianca ha celebrato l’accordo sui dazi definendolo «storico» e «colossale», Ursula von der Leyen si è limitata a parlare di «un buon accordo» e di «trattative difficili» e il commissario UE per il Commercio, Maroš Šefčovič ha spiegato che si è evitata l’escalation e che, senza...

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Angola, proteste per l’aumento del carburante: 4 morti e 500 arresti

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A Luanda, in Angola sono scoppiate violente proteste per un aumento del prezzo del carburante deciso dal governo, che hanno causato la morte di quattro persone e l’arresto di oltre 500 persone. Le proteste sono scoppiate ieri, e sono andate avanti anche nella giornata di oggi. Assieme alle manifestazioni dei cittadini, in cui sono stati registrati episodi di saccheggio, attacchi contro banche e veicoli privati, e scontri con la polizia, le associazioni minibus e taxi hanno lanciato uno sciopero che continuerà anche nella giornata di domani.

Il TAR della Campania boccia le zone rosse di Piantedosi

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Con una sentenza emessa questa mattina, martedì 29 luglio, il TAR della Campania ha annullato l’ordinanza del prefetto di Napoli che prorogava il divieto di stazionamento nelle cosiddette “zone rosse” del capoluogo. La misura era stata introdotta dopo che, nel dicembre dello scorso anno, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi aveva inviato una direttiva ai prefetti italiani, al fine di spingerli ad adottare apposite ordinanze che individuassero le aree urbane nelle quali vietare la presenza di «soggetti pericolosi» o con precedenti penali. Secondo il governo, la misura avrebbe dovuto garantire la tutela della sicurezza urbana e degli spazi pubblici cittadini. Questa mattina, invece, come riferito dal Coordinamento No Zone Rosse Napoli in un comunicato stampa, «il TAR ha giudicato l’esercizio del potere prefettizio privo dei necessari presupposti, illegittimo e lesivo dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale». Secondo il Tribunale non sussiste, infatti, alcuna emergenza o motivazione «idonea a giustificare l’uso reiterato di poteri prefettizi straordinari».

Il ricorso era stato presentato lo scorso 6 giugno dalle associazioni che formano la rete – tra le quali figurano ASGI (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione), A Buon Diritto e Libridazioni, oltre a cittadini e residenti. Secondo i ricorrenti, il provvedimento rappresenta una grave violazione dei diritti del singolo cittadino, in quanto adotta «misure limitative sulla base di meri indizi o segnalazioni, senza la necessità di un accertamento giudiziario, configurando una presunzione di pericolosità giuridicamente inammissibile». Il team legale che ha presentato il ricorso ha festeggiato la sentenza definendola «una vittoria dello Stato di diritto», per mezzo della quale si sancisce che «il potere straordinario non può diventare regola ordinaria».

La direttiva di Piantedosi, che mirava a sfruttare tutte le possibilità del cosiddetto “DASPO urbano” introdotto dal dl 14/2017, è già stata implementata in molte delle principali città italiane, tra le quali Milano, Roma, Bologna e Firenze. L’obiettivo è quello di vietare, nei pressi delle stazioni o delle aree dove si concentra la movida, lo stazionamento di «soggetti pericolosi», ovvero con precedenti per reati penali contro il patrimonio o la persona, ma anche di persone condannate in via non definitiva nel corso dei cinque anni precedenti per reati analoghi. La norma è contenuta nello stesso decreto Sicurezza, approvato poche settimane fa dal governo. «Nessuna direttiva ministeriale può derogare, neanche di fatto, ai principi di uguaglianza, legalità, presunzione di innocenza e proporzionalità» scrivono le associazioni, che definiscono quella del TAR come «una sentenza che difende la democrazia».

Pechino, forti piogge causano almeno 30 morti

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Forti piogge a Pechino e nelle aree circostanti hanno causato almeno trenta morti. Lo riporta l’agenzia di stampa cinese Xinhua. Il maltempo, iniziato sabato, ha colpito soprattutto i distretti rurali e montuosi di Miyun e Yanquing, e la provincia di Hebei, causando frane e gravi danni alle infrastrutture. Più di 80mila persone sono state evacuate, mentre numerosi villaggi sono isolati. Le informazioni sono limitate, a causa delle restrizioni del governo cinese sulla diffusione di notizie riguardanti disastri naturali. Altri decessi sono stati segnalati nelle province di Shanxi e nella città di Jinan.

Meta mette al bando le pubblicità politiche nell’Unione Europea

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Meta ha manifestato apertamente il proprio dissenso verso la direzione normativa intrapresa dall’Unione Europea in merito alla regolamentazione dei servizi digitali. In pochi giorni, la Big Tech ha ripudiato il Codice di Condotta volontario sull’intelligenza artificiale e ha dichiarato che non intende adeguarsi alle nuove norme sulla trasparenza delle inserzioni pubblicitarie a contenuto politico. Dopo aver definito queste disposizioni “insostenibili”, l’azienda ha annunciato che, a partire dal 10 ottobre, non accetterà più annunci politici, elettorali o di carattere sociale nei confini dell’Unione Europea.

Secondo Meta, “la pubblicità politica online è una parte vitale della politica moderna”, e l’azienda sostiene di aver fatto molto più di quanto imposto dalla legge per garantire la trasparenza, evidenziando la presenza di strumenti di monitoraggio che sono stati introdotti a partire dal 2018. Una dichiarazione che si basa su di un vuoto normativo che l’Unione Europea ha colmato lo scorso aprile attraverso il regolamento sulla Trasparenza e targeting della pubblicità politica (TTPA), il quale diventerà pienamente operativo proprio il 10 ottobre. Il nuovo regolamento impone regole stringenti: ogni annuncio politico dovrà riportare informazioni chiare su chi ha finanziato la campagna, quanto è stato speso, a quale competizione elettorale si riferisce e quali tecniche di targeting sono state impiegate. Le aziende che non si conformano rischiano sanzioni fino al 6% del fatturato annuo.

Meta contesta la normativa, affermando che introdurrà incertezze e oneri eccessivi per gli inserzionisti europei. Difende i propri strumenti di trasparenza, evitando accuratamente di menzionare che tali soluzioni sono state introdotte in risposta allo scandalo Cambridge Analytica, il quale aveva rivelato come i dati di milioni di utenti fossero stati utilizzati a fini di profilazione politica e propaganda, con il coinvolgimento diretto di Facebook. Secondo le autorità statunitensi, l’azienda era a conoscenza dell'”utilizzo improprio dei dati” da ben prima che whistleblower e leak giornalistici denunciassero pubblicamente la situazione.

Nonostante la normativa europea possa talvolta risultare ambigua — per goffaggine o per compromesso politico volontario — il comportamento reiterato di Meta nel tempo suggerisce che la trasparenza e la sicurezza degli utenti non rientrino tra le sue priorità principali. Un’ex dipendente di Meta divenuta informatrice, Sarah Wynn-Williams, sostiene nel libro Careless People che l’azienda abbia sistematicamente ignorato per anni delle criticità note al fine di tutelare i propri interessi commerciali, nonché di aver manipolato gli algoritmi per favorire le strategie politiche e comunicative dei propri dirigenti. Una disattenzione e un opportunismo che si ritiene abbiano fomentato diverse crisi umanitarie

Più recentemente, la Commissione Europea ha avviato un’indagine ufficiale nei confronti di Meta per presunta violazione del Digital Services Act (DSA), in relazione all’inefficacia nella moderazione della disinformazione in vista delle elezioni dell’europarlamento tenutesi nel 2024. “Sospettiamo che la moderazione di Meta sia insufficiente, che manchi di trasparenza negli annunci pubblicitari e nelle procedure di moderazione dei contenuti”, aveva dichiarato nell’aprile 2024 Margrethe Vestager, la Commissaria europea per l’agenda digitale in carica fino allo scorso novembre.

Il caso Meta, tuttavia, non è isolato. Anche Google ha annunciato che sospenderà la pubblicazione di annunci politici in Europa per via della complessità delle nuove norme. Si apre così un nuovo capitolo nello scontro tra le Big Tech e le istituzioni europee: da un lato policy aziendali autoimposte, dall’altro leggi sovranazionali vincolanti. Sullo sfondo, l’ombra dell’Amministrazione Trump, alla quale alcune aziende guardano per ottenere protezione contro il crescente attivismo normativo dell’UE.

58 ex ambasciatori UE scrivono a Bruxelles per chiedere di fermare Israele

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Cinquantotto ex ambasciatori dell’UE hanno inviato una lettera aperta ai vertici di Bruxelles per condannare l’operato di Israele in Palestina. Nello specifico, denunciano un «trasferimento forzato della popolazione, un grave crimine di guerra» e «passi calcolati verso una pulizia etnica». L’UE, accusano, ha mantenuto «silenzio e neutralità di fronte al genocidio». Chiedono lo stop immediato alle forniture militari, la sospensione degli accordi con Israele e il riconoscimento dello Stato di Palestina. Anche a seguito della lettera, la Commissione starebbe valutando la sospensione parziale dell’accesso di Israele ai fondi Horizon per la ricerca scientifica.

Cipro, un incendio devastante ha distrutto l’1% del territorio

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Nel sud di Cipro, a Limassol, è scoppiato un vastissimo incendio che ha bruciato l’1,3% del territorio. Le fiamme hanno distrutto diverse abitazioni a Souni e Omodos e causato lo sfollamento di migliaia di persone, trasferite in alloggi temporanei. A causa dei roghi si contano due morti, mentre le operazioni di soccorso continuano a pieno ritmo. Il Centro di Eccellenza Eratostene, centro di osservazione terrestre, ha rilasciato un comunicato stampa in cui dichiara che in data 23 luglio l’area colpita risultava pari a 120,7 chilometri quadrati. La stima si basa su dati satellitari ad alta risoluzione acquisiti il 26 luglio.

Secondo l’Agenzia Spaziale Europea, dell’area colpita, circa il 51% è costituito da praterie, il 31% da arbusteti, il 15,5% da aree boschive, mentre l’1,1% corrisponde ad aree residenziali. Il bilancio delle perdite non si limita alla natura: le infrastrutture hanno subito gravi danni, in particolare nel distretto di Limassol, dove le linee elettriche sono state devastate. L’Autorità per l’Elettricità di Cipro (EAC) ha messo in campo un’imponente operazione di ripristino, con 150 operatori che stanno lavorando senza sosta per riparare le reti elettriche danneggiate. «L’EAC ha intrapreso un enorme progetto per riparare i danni nelle aree colpite del distretto di Limassol», ha dichiarato la portavoce Christina Papadopoulou. Gli interventi sono già a buon punto: 240 tralicci e 10 trasformatori sono stati sostituiti, e nove chilometri di cavi aerei sono stati installati per ripristinare l’alimentazione elettrica. Tuttavia, la situazione rimane complessa, dal momento che le aree più danneggiate richiedono l’uso di escavatori speciali per aprire le strade e consentire il passaggio delle attrezzature.

Mentre il lavoro di recupero continua, le comunità locali sono impegnate in un’altra battaglia: quella della gestione dei beni di prima necessità. Centinaia di tonnellate di cibo, vestiario e materiali di soccorso sono stati raccolti in diversi centri, anche se la popolazione ha lamentato la mancanza di un coordinamento efficace da parte della Protezione civile. Nonostante la grande mobilitazione della comunità, la confusione regna ancora sovrana, con alcune zone che non sono riuscite a ricevere aiuti tempestivi. La mancanza di un piano ben strutturato ha portato a una situazione in cui le risorse sono abbondanti, ma mal distribuite, creando un ulteriore ostacolo per chi ha subito la perdita di case e beni. In un contesto caotico in cui abbondano le difficoltà, la solidarietà tra i ciprioti ha brillato nei giorni successivi alla tragedia. Gruppi di volontari, giovani e cittadini comuni si sono attivati per ripulire le strade e aiutare le comunità colpite.

Il governo cipriota ha annunciato misure concrete per sostenere le famiglie colpite. Secondo il presidente Christodoulides, è stato avviato un programma di assistenza economica, che prevede il pagamento di 10.000 euro alle famiglie la cui casa è stata completamente distrutta, con un incremento di 2.000 euro per ogni figlio a carico. Stando agli annunci, le famiglie le cui abitazioni sono state parzialmente danneggiate riceveranno 5.000 euro, con un ulteriore supporto per soddisfare le necessità quotidiane, inclusi vestiti e attrezzature. La distribuzione di questi fondi avverrà non appena il Consiglio dei Ministri approverà le misure proposte.

Nel frattempo, proseguono le indagini in merito alle cause dell’incendio boschivo che ha devastato i villaggi di Limassol. Alla polizia sono state infatti inoltrate informazioni su presunti incendi dolosi. Ad ora non sarebbero stati effettuati arresti in relazione agli incendi, ma alcune persone sarebbero state fermata poiché sospettate di aver saccheggiato proprietà che erano state evacuate a causa dei roghi. Le forze dell’ordine hanno invitato gli abitanti a «farsi avanti» se in possesso di indicazioni su persone che tentano deliberatamente di appiccare incendi.